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Per la critica del capitalismo

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Flávio Bezerra de Farias
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Dottorando in Scienze Economiche (Università di Parigi XIII). Professore all’Università Federale di Maranhão. Borsista CAPES (Brasile). Dirigente della CUT - Regione di Maranhão (CUT-MA)

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Le regole della società e la società regolata

Flávio Bezerra de Farias

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1. L’integrazione capitalista e la rottura proletaria

Negli anni ’70, sorge la “scuola francese della regolazione”, alla ricerca di una soluzione positiva alla “crisi del fordismo” (Aglietta, 1976). In effetti, i regolazionisti partono, soprattutto, dal liberalismo centrista keynesiano (Boyer, 1986), le cui regole statali e contrattuali pretendono di far funzionare la società come un carosello. Ciò esige, in particolare, un interventismo tecnicamente neutrale ed esterno alle classi sociali, che illustri bene l’aspetto ideologico del feticismo dello Stato (Farias, 1988; 2000). E, in generale, consideri gli altri attori politici (destra e sinistra), le altre scienze economiche (classiche e neoclassiche) e gli altri attori sociali (capitalisti e stipendiati) come parte dei poli tra i quali la regolazione si viene a frapporre. I regolazionisti vennero influenzati anche dal pensiero critico del dopoguerra, che mirava ad attualizzare la questione della relazione tra teoria e pratica (Marcuse, 1981), tra operai e capitale (Tronti, 1977) o tra struttura e storia (Balibar et alii, 1977). Nel 1959, un autore marxista fece la seguente osservazione paradigmatica:

“Come ogni metodo scientifico serio, lo strutturalismo non è una chiave universale, ma un metodo di lavoro che richiede lunghe e pazienti ricerche empiriche e che deve, nel corso di queste, essere perfezionato e preparato. Esiste, senza dubbio, una dialettica delle relazioni tra le ricerche empiriche e le idee generali; intanto non bisogna scegliere con tanta facilità la priorità delle prime e la loro indispensabile funzione in ogni lavoro scientifico degno di questo nome.” (Goldmann, 1980: 117).

La scuola della regolazione ha imparato la lezione da certi critici maestri-pensatori che non credevano molto più sensato utilizzare un’“analisi concreta” (marxista) nell’esame della “situazione concreta” (taylorista, keynesiana e fordista), con l’esperienza “gloriosa” dell’espansione del capitalismo tardivo (1945-1975). Così, la diversità delle forme di relazione tra il capitalista ed il salariato dovrebbe essere appresa attraverso un “polimorfismo della ragione e dell’immaginazione” proprio dell’“idealismo epistemologico” che andava di moda per quella congiuntura (Vadée, 1975). Per quanto riguarda la lezione dello strutturalismo, sarebbe giusto “combinare” il marxismo con la “pratica scientifica più recente” (cibernetica, biologia, termodinamica, teoria dei sistemi, etc.) [1] per capire, nella modernità attuale, “la condizione fra le strutture” (Godelier in Blackburn et al., 1982: 330), come la forza che regola i meccanismi fisici e simbolici che gli sono propri. Per la corrente dello storicismo, “nessuna socializzazione, né lo stesso conflitto, è esclusivamente una forma di lotta, perché allo stesso tempo è una forma di unione.” (Freund in Simmel, 1992: 13). Oltre a ciò, le relazioni del sistema economico attuale non si sviluppano dando vita alle stesse contraddizioni e, pertanto, le relazioni corrispondenti non assumono gli stessi profili (Coriat, in Vincent et alii, 1994: 101). Così, le analisi in termini di regolazione si ispiravano a modelli di riproduzione (come quello di Bourdieu & Paseron, 1970), dove l’intenzione critica non era esente, perciò includevano una revisione del marxismo alla luce dei nuovi movimenti sociali, generalmente e tatticamente negando l’“analisi concreta”, a favore di una teoria sulla “relazione della politica con la trasformazione delle “condizioni” o delle “strutture” storicamente diverse, ma non meno determinanti, dell’economia e non meno esterne all’istituzione politica” (Balibar, 1997: 29).

I regolazionisti della fase depressiva del tardo capitalismo (a partire dal 1975) sono abbastanza vicini al pensiero gramsciano nell’utilizzare le categorie storiche e, pertanto, nell’evidenziare la specificità delle forme sociali della modernità in atto. Perciò, essendo storicisti, la affrontano anche come se la “situazione concreta” abbia negato l’“analisi concreta”. Sottolineano troppo la diversità storica e nazionale dei regimi di accentramento e delle funzioni dello Stato al centro e alla periferia. Studiano, cioè, il ruolo dello Stato senza aver definito la sua natura, o la sua funzione senza aver determinato la sua forma. Siccome promuovono la “storicizzazione” delle categorie e il fine di tutte fa riferimento all’universale, eliminano l’analisi generale della forma-Stato dalla problematica dello Stato. Per cui,

“[...] i diversi Stati dei diversi paesi civilizzati, nonostante le molteplici diversità delle loro forme, hanno tutti in comune il fatto che riposano sul terreno della società borghese moderna, più o meno sviluppata dal punto di vista capitalista. Ed è questo che fa sì che certi tratti siano loro comuni.” (Marx, 1975: 26)

In breve, escludendo l’elemento generale, i regolazionisti non elaborano il sillogismo di Stato, che viene considerato semplicemente come un essere sociale particolare e singolare. Generalmente, da ciò il risultato è un’analisi dal punto di vista scientifico delle esperienze politiche e, precisamente, un avvicinamento empirista la cui premessa è la negazione di tutte le leggi generali del movimento dello Stato in seno ad una totalità concreta, complessa e contraddittoria.

La lezione dei maestri-pensatori strutturalisti è stata appresa adottando la tesi marxista della supremazia dell’infrastruttura, svuotata, quindi, dalla realtà delle relazioni di produzione (Godelier, 1984. 11 e 34), della lotta di classe e, pertanto, della dialettica tra soggetto ed oggetto. Ora, “nella misura in cui ci avviciniamo alla struttura, non dando valore alla genesi, la storia e la funzione, per non parlare della stessa attività del soggetto, è evidente che si entra in conflitto con le tendenze centrali del pensiero dialettico” (Piaget, 1979: 97). Inoltre, Balibar ha di recente affrontato questo problema, non partendo dallo strutturalismo o dallo storicismo, ma partendo dal dialogo marxista:

“Marx pensa ad una politica la cui verità deve essere cercata, non nella propria coscienza di sé o nell’attività costituente, ma nella relazione che mantiene con condizioni ed oggetti che formano la sua “materia” e costituiscono, essa stessa, come un’attività materiale. Ma questa posizione non ha niente a che vedere con una liquidazione dell’autonomia dei soggetti della politica [...] In verità, accade il contrario: [...] la pratica politica marxista è una trasformazione interna delle condizioni, che produce come suo risultato (necessariamente, dal momento in cui viene effettuata, nella “lotta”) la necessità di libertà, l’autonomia del popolo (designato come proletariato) [...]. Le condizioni della politica sono caratterizzate come “base” o “struttura economica” della storia.” (Balibar, 1997: 28).

Alcuni marxisti, siano strutturalisti o gramscisti, affermano all’unisono che, poiché lo Stato ha dei vincoli organici con il capitale in generale e con numerosi capitali, bisogna fare il passaggio dalla critica dell’economia politica alla critica della politica (Balibar et alii, 1979). Tuttavia, i regolazionisti ignorano questi vincoli e questo passaggio, per esaminare soprattutto i fini sistematici dello Stato, in seno ai regimi di accentramento, tanto nella sua variabilità temporale e spaziale, quanto nella dinamica delle sue trasformazioni. Così, l’unica interpretazione del passato che gli interessa, di fatto, risiede nella tesi dell’integrazione dei sindacati e dei partiti operai ufficiali alle istituzioni dello Stato-provvidenza, avendo per motivazione l’impossibilità, attualmente, di autonomia politica per il movimento operaio. Dovrebbe essere poi considerata un’altra ipotesi:

“L’integrazione [...] non è solamente il risultato di un miglior tenore di vita e di un certo numero di conquiste sindacali, ma anche di una partecipazione attiva e quotidiana al processo di produzione e, implicitamente, al funzionamento della società capitalista. Il carattere oppositivo -culturalmente ed ideologicamente contestatorio- di questa integrazione mi sembra che si spieghi -e qui l’analisi geniale di Marx resta completamente valida- con il fatto che gli operai, non avendo niente da vendere all’infuori della loro forza di lavorare -e questo vuol dire, in ultima analisi, essi stessi-, dovrebbero necessariamente essere, sebbene a diversi livelli, ribelli alla ricollocazione, all’adattamento al mercato e alle trasformazioni dei beni di mercato.” (Goldmann, 1975: 177).

Invece di imparare i “limiti dell’integrazione”, supponendo che “una diminuzione dell’”abbondanza” regnante può ridurre a niente il consenso attuale” (Mattick, 1972: 198), e sfruttare questo lato anti-sistemico, i regolazionisti credono nella necessità concreta di un’azione statale razionale e volontaria -segnata da un certo paternalismo neo-gramscista (Vincent, 1998)- per difendere l’operaio massificato, come nell’utopia astratta di creare il socialismo per mezzo del compromesso di classe [2]. Non si apprenda quindi la lezione di uno dei suoi maestri-pensatori “operaista”, come:

“Il “Piano” del capitale nasce prima di tutto dalla necessità, per esso stesso, di far funzionare, all’interno del capitale sociale, la classe operaia in quanto tale [...] La socializzazione crescente della relazione di produzione capitalista non porta con sé la società socialista, ma solamente un potere operaio crescente all’interno del sistema capitalista.” (Tronti, 1977: 72).

Per i regolazionisti, senza il progresso sociale storicamente determinato con le caratteristiche del fordismo, non c’è progresso materiale nei regimi di accumulazione realmente esistenti, la cui crescita dipenderebbe dall’equilibrio tra la produzione ed il consumo di massa, che ha come premessa l’ampliamento ed il miglioramento tanto dello Stato sociale quanto delle negoziazioni collettive. Non hanno quindi appreso un’altra lezione di quel maestro-pensatore italiano, cioè:

“[...] una rottura rivoluzionaria del sistema capitalista si può produrre su diversi livelli dello sviluppo capitalista. Non si può aspettare che la storia del capitale abbia raggiunto la conclusione perché si possa iniziare ad organizzare il processo che porta alla sua dissoluzione” (Idem: 79).

La partecipazione dei membri della classe operaia ufficiale e dei suoi intellettuali organici nel compromesso storico della social-democrazia conferma la pertinenza del seguente avviso: “quanto più una classe dominante può accogliere nelle sue fila gli uomini più importanti della classe dominata, più la sua oppressione è solida e pericolosa.” (Marx, 1976: 555, L.III.). In questo senso, allora, Gramsci mai si è messo contro a Il Capitale. In base al bilancio di quel compromesso storico, l’albero della conquista di una certa intromissione del lavoro vivo nelle costituzioni occidentali non deve nascondere la foresta della sconfitta sul piano politico. Si tratta soprattutto di una sconfitta per il “sostituzionismo” della social-democrazia e dello stalinismo, cioè:

“[...] la sostituzione della classe lavoratrice indipendente come agente del mutamento e della trasformazione sociale con una determinata entità: partito, Stato, governo, parlamento e così via. Tutti questi sono utili ed, alle volte, sono strumenti indispensabili per l’emancipazione della classe operaia. Perciò devono restare subordinati ai movimenti reali dell’auto-emancipazione.” (Mandel, 1995: 6).

Radicata nel sostituzionismo, l’ideologia regolazionista diviene prassi attraverso i consiglieri dei partiti “social-democratici o comunisti” che

“[...] potrebbero aver successo solo nel quadro della democrazia parlamentare integrandosi in una competizione politica regolata tra grandi organizzazioni burocratizzate. Di fatto si sono adattati a democrazie parlamentari con componenti plebiscitarie, dove hanno assunto un ruolo eminente, direttamente o indirettamente, nell’inserimento del Walfare State, o dello Stato- previdenza. Sicuramente si sono trovati a dover affrontare importanti e significative lotte sociali e politiche, nella misura in cui queste modificavano le relazioni tra le forze e gli equilibri politici, ma quelle lotte termineranno sempre con compromessi e riaggiustamenti egemonici e non con radicali mutamenti politici e sociali.” (Vincent, 1998: 127) [3].

Invece di tornare a Gramsci [4], bisogna constatare che l’elemento elementare del pensiero di Gramsci sul blocco storico (Gramsci, 1987; Buci- Glucksmann, 1975) si trova negato in questa visione positivista del progresso, supponendo, in maniera implicita, che la lotta di classe non assume mai, in seno alla modernità in vigore, il suo ruolo di motrice e che è arrivata al finale della storia [5]. Questa visione regolazionista viene criticata in base ad una duplice prospettiva teorica: come crescita lineare che va verso la diminuzione o verso l’aumento, della continuità o della ripetizione; come crescita equilibrata, in una sintesi che esclude una polarità come produzione e circolazione, in termini di società politica e di società civile. Al contrario, si afferma l’esistenza di una dialettica dell’essere sociale i cui elementi non avanzano su tutti i fronti, né sono vantaggiosi su tutta la linea. Inoltre, la visione positivista che viene qui criticata riconosce una permanente rivalità, tra conflitti ed ambivalenze; tuttavia, vengono considerati passibili di regolazione, che suppone la scelta spontanea di un miglior compromesso di classe attraverso un ”sì” o un “no”. Pertanto, questa visione si unisce all’aleatorio strutturalismo, che, non essendo concernente allo Stato, rompe anche con la tentazione di un’analisi dell’essenza, ma senza mai rinunciare all’intenzione di riscattare le invariabili (Bourdieu, 1994: 107) [6].

L’esperienza iniziata nella seconda metà degli anni ’70 pone la ragione eclettica del regolazionismo (neopositivista, neo-operaio, neo-storicista e neo-strutturalista) di fronte ad una realtà paradossale, proposta nei seguenti termini:

“Nel momento del suo apparente trionfo, la democrazia parlamentare, con le sue componenti plebiscitarie e con lo Stato sociale, entra in crisi. Soffre precisamente l’indebolimento dello Stato nazionale nel quadro della globalizzazione e delle difficoltà incontrate dalle politiche di protezione sociale in un periodo di rallentamento economico.” (Vincent, 1998: 127).

2. Il bilanciamento dei conflitti e la mediazione delle contraddizioni

La ragione positivista dello storicismo strutturalista della scuola della regolazione è la negazione della logica dialettica del materialismo storico gramscista. Secondo l’esperienza attuale della globalizzazione, poichè il primo è critico e riformista, mantiene le vecchie dicotomie spaziali; poiché il secondo è critico e rivoluzionario, costruisce il nuovo ponte tra oriente ed occidente, tra il nord ed il sud, etc. Più specificatamente, il post- fordismo, le nuove correlazioni tra le forze sociali (in un quadro di competitività, flessibilità e globalizzazione) e la crisi dello Stato sociale sono esperienze che confermano la visione gramscista riguardo “la relazione che si instaura tra lo sviluppo del capitalismo durante la fase imperialista e la costituzione di robuste “riserve” borghesi della “società civile”.” (Catone, in Burgio & Santucci, 1999: 65) [7]. Così,

“Invece di cercare di comprendere le nuove forme di divisione del mondo, le frontiere attuali di radicalizzazione della storia, le figure contemporanee dello spirito di scissione e, successivamente, la linea e gli sdoppiamenti che intervengono nella fattezza dell’essere umano, viene acquisita passivamente l’idea dominante di un mondo, di una storia e di un uomo riuniti e appena divenuti più complessi.” (Tronti, 1998: 95).

L’era post-moderna trae, inoltre, fatti storici abbastanza duri in modo da far esaurire le energie utopistiche dei regolazionisti, favorendo la banalità e la perplessità, ogni volta sempre più presenti nel loro approccio tecnico - negando quindi il ruolo motrice della lotta di classe nella modernità in atto. Effettivamente, a causa dei mutamenti dello Stato, del lavoro e della democrazia, essi credono che questo ruolo venga assunto dalla tecnica. All’interno delle attività umane che obbediscono ad un progetto e ad un’idea (cioè, con intenti e strumenti), prevalgono quelle che hanno uno sviluppo materiale, il progresso sociale ed il progresso tecnico come oggetto, anche se quelle in relazione con quest’ultimo dovrebbero avere il primato. È stata elaborata (Farias, 2000: 90) la seguente figura per esprimere il positivismo che “concilia l’ordine ed il progresso” (Comte, 1987), in seno alla “società salariata” (Aglietta e Brender, 1984), cioè:

In particolare questa logica positivista a tecnicista non riesce ad esprimere il modo secondo il quale la “società salariale” verrebbe ad essere superata, inoltre non ha come fondamento le sue contraddizioni, ignorando il fatto che “tutti i sistemi storici (in realtà, tutti i sistemi) hanno contraddizioni interne, ragion per cui hanno vita limitata.” (Wallerstein, 1997: 69). Generalmente, i regolazionisti usano una dicotomia strutturalista, inizialmente al fine di separare, dividere e classificare il progresso come materiale, sociale e tecnico; successivamente, per individuare in esso differenze formali e gli elementi, i punti comuni e quelli di contrasto, quelli di unione ed i conflitti; infine, per esaminare tutte queste questioni in termini di regolazione, dando loro una risposta positiva o negativa (Lefebvre, 1975: 22). È in questa visione prismatica che i regolazionisti della politica considerano la società capitalista come un sistema dicotomico formato da elementi di lotta e di unione, con la supremazia di quest’ultima. Ciò presuppone una regolazione, una forma cioè secondo la quale l’unità si imponga attraverso la lotta tra gli elementi come intermediari (Lipietz, 1979: 36). È in questo prisma che vengono esaminate anche le relazioni tra i tipi di Stato, di famiglia e il tasso di crescita capitalista. Effettivamente, analizzano, da un lato, i progressi attinenti al campo economico, domestico e politico; dall’altro lato, ciò che rende possibile la coesistenza di questi ordini, cioè: il sistema della regolazione monetaria, giuridico ed ideologico (Thèret, in Boyer et alii, 1995: 191). Così il sistema della regolazione è un “habitus” (Bourdieu, 1979) o un sistema di norme e di regole adeguato al regime di accumulazione in vigore; o meglio, il sistema delle regolazioni corrisponde ad un progresso unitario, stabile e compatibile della produzione e della circolazione, dell’accumulazione e del consumo (Lipietz, 1985: 15- 16). Del resto, quando spiega la sua metodologia, Lipietz orienta questo stesso scetticismo regolazionista contro le leggi che ordinano il modo di produzione capitalista e l’imperialismo. Paradossalmente, Lipietz (1985: 20) considera lo stesso Lenin (1982) come un precursore della teoria della regolazione. Intanto, lo storicismo regolazionista di Lipietz è, sotto certi aspetti, semplicemente una deformazione “radical-riformista” (nel senso habermanista del termine) del metodo storico usato da Lenin.


[1] In particolare, la “scienza che esplora le possibilità limite e la regolazione interna che è permessa ad un sistema, che sia fisiologico, economico, etc, malgrado un campo determinato di variazione nelle sue condizioni interne ed esterne di funzionamento.” (Goldberg in Blackburn et alli, 1982: 331).

[2] Uno dei principali motivi che hanno diretto la ricerca svolta da Gramsci nei Quaderni dal Carcere fu, precisamente, “l’esistenza di una “società civile” strutturata e complessa, dotata di solidi “quadri sociali”, di intellettuali organici della borghesia, in grado di organizzare il consenso, di dirigere le masse, per mantenere il dominio borghese [...]” (Catone in Burgio & Santucci, 1999: 65).

[3] Sull’influenza riformista della scuola regolazionista nel Partito Socialista Francese, si veda Vincent et alii (1994); e nel Partito Comunista Italiano, si veda Vacca (1997).

[4] Si tratta di una pretensione soprattutto dell’approccio regolazionista politicista. Cf. Lipietz, in Vincent et alii (1994); Théret (1992).

[5] Dal punto di vista politico ed ideologico, quelli che difendono la tesi del fine della storia assumono una posizione reazionaria e conservatrice. Dal punto di vista teorico, non indicano il passaggio logico di tutta la concezione del mondo alla morale che gli è adeguata, di tutta la contemplazione all’azione nel senso di trasformare lo stato delle cose esistente (Gramsci, 1987. 54-55).

[6] Coriat (in Vincent et alii, 1994: 101 e ss) esorcizzò, comunque, la ricerca delle invariabili.

[7] Si veda anche Gill (1994).