La sezione precedente ha raggiunto le seguenti conclusioni:
(1) che le crisi sono dovute in ultima istanza alla competizione tecnologica
insita nel sistema stesso (2) che esse si manifestano sotto forma di distruzione
di capitale come relazioni sociali e allo stesso tempo come capitale eccedente
sia nella sua forma monetaria sia di merci (3) che si può uscire dalle crisi
solo se la profittabilità aumenta di nuovo perché il capitale come relazioni
sociali aumenta e il capitale eccedente è assorbito attraverso un processo
autoriproducentesi e (4) che in pratica le politiche keynesiane non possono
riportare la profittabilità al suo livello precedente la crisi.
Posto di fronte ad una eccedenza di capitale (non in senso
assoluto ma relativamente ai profitti realizzabili) il sistema capitalista mette
in azione modi diversi per risolvere questo problema. Due fra quelli di maggior
rilevanza oggigiorno sono l’esportazione di capitale in forma monetaria per
fini finanziari e speculativi e la distruzione di capitale in forma di merce.
Incominciamo dalla prima.
Nella sua ricerca di alti tassi di profitto, il capitale
monetario eccedente prende la strada degli investimenti finanziari
internazionali e della speculazione monetaria. Enormi quantità di denaro si
riversano sui mercati di cambio al fine di comprare azioni e obbligazioni
straniere e di speculare sulle variazioni dei tassi di cambio (attualmente,
1.500 miliardi di dollari giornalmente). Ciò può condurre a crisi finanziarie
nei paesi dominati i cui effetti vengono inevitabilmente scaricati sulle spalle
dei lavoratori. Consideriamo un esempio, quello della prima crisi finanziaria
del 1994-95 in Messico.
La crisi messicana del 1994-95, come del resto tutte le crisi
finanziarie nei paesi dominati, deve essere inquadrata nel contesto della
competizione tra i capitali dei paesi dominanti, cioè tecnologicamente
avanzati, e quelli dei paesi dominati, tecnologicamente arretrati. Mentre i
primi raggiungono un più alto livello di produttività attraverso l’adozione
di tecnologie più avanzate, e quindi livelli salariali più alti relativamente
ai secondi, i secondi devono competere aumentando i ritmi di lavoro e la
giornata lavorativa e diminuendo i salari. Una maniera molto efficace per
diminuire i salari reali è attraverso l’inflazione e cioè diminuendo il
potere d’acquisto dei salari. Ma l’aumento dei prezzi attraverso cui si
manifesta l’inflazione ha effetti negativi per le esportazioni. Quindi sorge l’esigenza
di svalutare la moneta nazionale. La svalutazione significa che i possessori di
valuta straniera possono comparare più unità di moneta nazionale (per unità
di valuta estera) e quindi possono comprare più beni nazionali con la stessa
quantità di moneta straniera. In breve, i paesi tecnologicamente arretrati
possono esportare di più attraverso la svalutazione compensando in tal modo gli
effetti negativi dell’inflazione. Vi è quindi una connessione (anche se non
meccanica) tra competizione tecnologica internazionale e inflazione/svalutazione
nei paesi tecnologicamente arretrati. Per i capitalisti, l’inflazione è
vantaggiosa perché riduce i salari reali. Per di più la svalutazione è
doppiamente vantaggiosa per gli esportatori perché permette un aumento delle
esportazioni. Ma per i lavoratori questa combinazione significa che una parte
del plusvalore che essi cedono ai capitalisti nazionali attraverso l’inflazione
viene ceduta da questi ultimi ai capitalisti stranieri attraverso la
svalutazione. La pressione dei capitalisti nazionali per un ulteriore aumento
dell’inflazione cresce ulteriormente.
Ma vi è un limite a queste politiche, come dimostrato dai
paesi dell’America Latina negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso. I tassi
di inflazione inauditi (necessari per ridurre i salari addirittura al di sotto
della sussistenza biologica) e quindi le costanti svalutazioni delle loro
monete, non solo produssero movimenti sociali antagonisti che minacciavano le
borghesie locali (che risposero in molti casi con sanguinose dittature) ma
distrussero in molti casi anche l’utilità di quelle monete. Infatti l’estrema
svalutazione le rendeva inutili sia per gli scambi interni che come mezzo di
risparmio, mentre le continue svalutazioni ne distruggevano l’utilità per
scambi internazionali. Questo condusse, una volta sconfitti i movimenti
antagonisti, ad un nuovo fenomeno, la dollarizzazione, cioè la sostituzione
parziale o totale, ufficiale o solo di fatto, della moneta nazionale col dollaro
statunitense. Ma la dollarizzazione ha uno svantaggio: la banca centrale perde
la possibilità di condurre una politica monetaria indipendente.
Questa era la situazione anche in Messico nel 1994. Per porre
fine alla spirale inflazione/deflazione il Messico decise di ancorare la sua
moneta, il peso, al dollaro nella misura di un peso per un dollaro. Questo
richiedeva una politica di alti tassi di interesse al fine di convincere gli
investitori stranieri a comprare e tenere pesos. Ma alti tassi d’interesse
scoraggiano gli investimenti e quindi l’occupazione. Per ovviare a questo
svantaggio, si ricorse ad un metodo ben collaudato, bassi salari. In tal modo,
la lotta contro l’inflazione (una lotta appoggiata anche dalle classi
lavoratrici perché ne colpiva il reddito) veniva usata come pretesto per
intaccare ancora di più i salari reali. Per di più l’impossibilità di
ricorrere alla svalutazione rendeva più difficile competere sui mercati
internazionali con i paesi più tecnologicamente avanzati: le esportazioni ne
soffrirono e il deficit della bilancia commerciale aumentò. Le riserve di
dollari necessari per fronteggiare questa situazione vennero da due fonti
principali. Primo, da un massiccio programma di privatizzazioni, un’operazione
resa possibile dalle ingenti masse di valute internazionali in cerca di
investimenti redditizi, cioè dal capitale monetario eccedente dei paesi
tecnologicamente avanzati. Secondo, da prestiti internazionali (obbligazioni sia
private che di Stato). Ma questa seconda opzione richiedeva alti tassi di
interesse il cui pagamento richiedeva a sua volta sufficienti livelli di riserve
di valute internazionali. Per questo gli investitori internazionali (cioè
coloro che sia direttamente sia attraverso fondi di investimento investono in
valute straniere) tenevano d’occhio ansiosamente il livello di riserve
valutarie del Messico. Bassi livelli avrebbero comportato l’impossibilità di
ripagare i debiti e, prima di giungere a questa situazione estrema, la
necessità di abbandonare la parità tra dollaro e peso, cioè la svalutazione.
A ciò si aggiungeva la pressione da parte degli speculatori di cambio, cioè di
coloro che vendevano massicciamente pesos per dollari nella speranza che, in
caso di svalutazione del peso, avrebbero potuto comprare più pesos con quei
dollari.
Il peso doveva quindi essere “supportato”. Cioè ogni
volta che gli operatori economici (principalmente banche, fondi d’investimento,
compagnie d’assicurazione) volevano vendere pesos (per dollari) la banca
centrale doveva comprare quei pesos con dollari. Allo stesso tempo, i tassi di
interesse crescenti rendevano sempre più difficile per le imprese farsi
imprestare fondi dalle banche alle quali in tal modo veniva mancare questa fonte
di reddito. Inoltre molti dei prestiti erano a tasso d’interesse variabile. Un
crescente livello del tasso di interesse rendeva sempre più difficile il
pagamento di quei debiti. Si temeva quindi che ciò conducesse a fallimenti di
imprese e, dato che i debiti sarebbero diventati insolventi, anche delle banche.
Ma il collasso del sistema bancario non era l’unica preoccupazione. Di fronte
al pericolo crescente della svalutazione, l’interesse degli investitori
internazionali per il debito pubblico messicano diminuiva. Le prime avvisaglie
vennero quando, nel dicembre del 1994, solo una frazione dei 27 miliardi di
dollari in Tesobonos (titoli di Stato messicano denominati in dollari) offerti
dalla banca centrale venne sottoscritta dagli investitori stranieri. Dato che un
mese dopo il Messico avrebbe dovuto pagare un altro debito di 26.5 miliardi di
dollari, la paura di un mancato pagamento divenne generalizzata. Ciò accelerò
la fuga di capitali (vendita di pesos) che era già incominciata dieci mesi
prima e che aveva condotto ad un abbassamento delle riserve nazionali a solo 7
miliardi di dollari. Finalmente, il 20 Dicembre del 1994, il Messico fu
obbligato a rinunciare alla difesa della parità del peso col dollaro e a
svalutare, prima del 15% e poi del 40%.
La nuova politica economica era fallita. Il governo Messicano
ritornò alla vecchia politica basata su inflazione e svalutazione. Anni dopo la
crisi, l’economia messicana continuava a restringersi, con una parziale
ripresa solo dopo che l’Argentina (il tradizionale importatore dei prodotti
messicani) aveva ostinatamente legato la sua moneta al dollaro (vedi più
sotto). Ai fallimenti e alla disoccupazione derivanti da tale stato di cose, si
aggiunsero altri fallimenti e disoccupazione causati dalle politiche restrittive
imposte dal FMI (per esempio, maggiori tasse) come controparte per il prestito
di fondi necessari per il pagamento del debito estero messicano. Ma,
contrariamente a quanto proposto da molti commentatori, queste politiche
restrittive non sono la causa delle crisi finanziarie. Esse sono solo il
catalizzatore e la forma di manifestazione della crisi di produzione (di
plusvalore) a livello internazionale e della capacità dei paesi dominanti
(tecnologicamente avanzati) di scaricare, per lo meno parzialmente, il costo
della crisi sui paesi dominati (tecnologicamente arretrati) anche, ma non
esclusivamente, attraverso le politiche imposte dal Fondo Monetario
Internazionale, dalla Banca Mondiale e dal altre istituzioni internazionali.
[1]
Abbiamo visto che il capitale eccedente può prendere anche
la forma di merci invendute. Ciò conduce ad una forma specifica di intervento
statale, tipico dei paesi dominanti. Semplicemente, si distruggono quelle merci
(o una parte di esse) che non possono essere vendute. Per esempio, nella
Politica Agricola Comune, il latte eccedente può essere trasformato in latte in
polvere che viene poi usato per mangime per polli e maiali. Questa è ‘degradazione’
economica, distruzione di una parte del valore di quella merce. Oppure il latte
può essere trasformato in burro e questo in grasso non adatto per il consumo
umano. Oppure, si consideri il vino. Esso è fatto evaporare cosicché rimanga
solo il contenuto alcolico e quest’ultimo è usato nell’industria chimica.
Per quanto riguarda i cereali, “Oggigiorno, polli, pecore, maiali, e bovini
mangiano il 57 per cento della produzione del grano dell’Unione Europea...Un
altro 7 per cento è esportato. Quindi si produce nell’Unione Europea tre
volte più grano di quanto non se ne mangi” (Roodaman, 1997, p.140). Fino al
1974, la Comunità pagava un premio di denaturazione. Per il grano, ciò
significava usare coloranti o olio di pesce per garantire che non potesse essere
usato come alimento per esseri umani. Per esempio, nel 1972, i premi di
denaturazione ammontarono a 7.7 milioni di ECU (Harris, Swinbanck, Wilkinson,
1983, tabella 4.2, p.64). In breve, lo spreco può essere usato per combattere
la crisi di realizzo. Ma questo metodo si scontra contro enormi ostacoli
politici, specialmente se il livello di vita dei lavoratori si abbassa a causa
della crisi. Ma, ancora più importante, lo spreco può essere un rimedio
(parziale) contro la crisi di realizzo senza poter influire sulla crisi di
profittabilità.
Un’opzione più accettabile ideologicamente e più
efficiente economicamente è quella dell’applicazione delle politiche
keynesiane alle spese militari. Tali spese possono essere paragonate alle spese
per infrastrutture. Primo, nella misura in cui esse sono indotte dallo Stato e
finanziate con capitale inattivo, anche esse possono far alzare il tasso medio
di profitto ma non possono riportarlo al suo livello precedente la crisi (a meno
che non siano finanziate col plusvalore appropriato da altre nazioni). Allo
steso tempo, anche esse possono essere accompagnate da un incremento del Pil,
dell’occupazione e del reddito [2]. Secondo, anche esse si prestano ad essere usate in maniera
anti-ciclica. E terzo, anche esse non sono necessariamente inflattive. Se sono
finanziate attraverso tassazione o debito pubblico, non portano necessariamente
all’inflazione. Se sono finanziate attraverso la creazione di moneta,
producono inflazione (come nel finanziamento della guerra degli USA contro il
Vietnam) [3].
Ma vi sono anche differenze. Primo, la produzione di armi
indotta dallo Stato non implica un rafforzamento della borghesia di Stato e
quindi non implica il pagamento di servizi da parte del capitale privato allo
Stato. [4] Secondo, le spese militari sono legate molto di più alla
vicissitudini internazionali che gli investimenti in IF [5]. Terzo, l’industria
militare, a differenza degli investimenti in infrastrutture, produce merci (le
armi) che in tempo di pace in gran parte non vengono usate. Alcune sono usate,
come per esempio quelle necessarie per addestrare i soldati e per esercitazioni
belliche, ma la grande maggioranza rimane inusata (come per esempio le armi
atomiche). L’opinione pubblica da una parte viene convinta della necessità
della produzione di armi e dall’altra è ovviamente contenta se tali armi non
vengono usate. Nella misura in cui non vengono usate, il loro valore d’uso (la
distruzione di altri valori d’uso attraverso la loro propria distruzione) si
deteriora e scompare (anche attraverso la obsolescenza tecnica). Quindi,
ex-post, il lavoro che è stato usato per produrle è sprecato (qui c’è una
similarità col lavoro contenuto nelle merci per usi civili non vendute: anche
questo lavoro è sprecato anche se non intenzionalmente). Questo lavoro è prima
produttivo di plusvalore e poi sprecato. Il denaro speso per le armi indica
valore che è stato prima appropriato da altri settori dallo Stato, poi dato ai
produttori di armi, poi usato da essi per produrre nuovo valore e plusvalore
sotto la forma di armi, e poi distrutto a causa della distruzione del valore d’uso
(cioè la distruzione della loro capacità distruttiva attraverso il loro
mancato uso) nel quale quel valore è contenuto [6]. In breve, è un indicatore di una
ridistribuzione di valore mirata alla distruzione delle risorse che sono state
usate nella produzione delle armi [7]. La produzione di armi
riflette non solo la produzione di valore ma anche la distruzione di
ricchezza [8].
Infine, vi sono quattro ragioni per cui la produzione di armi
è superiore alla produzione di infrastrutture. Primo, la produzione di nuove
armi stimola nuovi investimenti specialmente nella produzione della conoscenza.
Essa, se fatta nell’ambito di relazioni di produzione capitalistiche, è
produzione di valore e plusvalore tanto quanto la produzione di merci materiali.
Per quanto riguarda le politiche anti-cicliche, gli investimenti in questo
settore sono quindi più efficaci degli investimenti nelle infrastrutture.
Secondo, la nuova conoscenza prodotta nell’industria militare circola nel
settore civile dove fa aumentare la produttività, la capacità competitiva, e
la superiorità militare relativamente ad altre nazioni. Terzo, l’uso di
infrastrutture, se sussidiato o gratis, può diventare parte del valore della
forza lavoro e quindi conduce ad un incremento dei salari reali (anche se non
necessariamente della busta paga). Questo ‘pericolo’ è evitato se le
risorse sono incanalate nelle spese militari. E quarto, a differenza delle
infrastrutture, le armi possono essere esportate. Dato che le armi sono prodotte
con una grande percentuale di capitale costante relativamente a quello
variabile, cioè dato che si impiegano molti mezzi di produzione e pochi
lavoratori, in questo settore è creato relativamente poco plusvalore. Ma questo
non è un problema se le armi possono essere esportate. In questo caso, i
produttori ottengono i loro profitti non dal plusvalore prodotto internamente ma
da quello ottenuto dai compratori stranieri. Dati i costi altissimi delle armi,
enormi somme di plusvalore internazionale vengono appropriate dai produttori.
Ciò ha un effetto positivo sul tasso medio di profitto. È a causa di ciò che
l’esportazione di armi è attivamente stimolato e supportato dai governi dei
produttori [9].
Naturalmente, vi sono limiti alla produzione di armi in tempi
di pace. Primo, al di là di un certo limite, lo spreco di risorse inerente a
tale produzione mina la capacità riproduttiva complessiva del sistema [10]. Secondo, più le
armi si accumulano, più diventa difficile giustificare un’ulteriore
produzione. Terzo, data la mentalità propensa verso la guerra dell’apparato
militare, più si producono armi più aumentano le probabilità che vengano
usate, cioè di una guerra.
Paradossalmente, tuttavia, le guerre possono essere un mezzo
contro le crisi più efficace delle spese militari in tempo di pace (che a loro
volta sono più efficaci delle spese per infrastrutture). Le guerre sono una
forma specifica ma potente di distruzione di capitale eccedente, di valore sotto
forma di merci, di un valore che non può essere realizzato in tempo di pace a
causa della crisi economica. Le guerre sono un esempio particolare della teoria
marxista delle crisi, cioè che l’economia esce dalla crisi solo se una
quantità sufficiente di capitale eccedente è distrutta. La specificità delle
guerre è che esse non soltanto assorbono capitale eccedente per la produzione
di armi (con gli effetti insufficienti analizzati più sopra sul tasso medio di
profitto ma anche con gli effetti positivi sul Pil, sull’occupazione e sul
reddito, possibilmente attraverso la realizzazione indotta) ma anche che, a
causa dell’enorme sforzo bellico, incanalano capitale e forza lavoro da altri
settori nell’industria militare. Nella misura in cui il capitale è incanalato
nell’industria militare, il tasso medio di profitto non è intaccato. Se poi,
sotto l’influsso del nazionalismo, i lavoratori accettano livelli più alti di
sfruttamento, i tassi di profitto (e il tasso medio di profitto ) possono
aumentare. Allo stesso tempo, il valore prodotto è automaticamente realizzato
perché la sua produzione è commissionata dallo Stato. Quanto più capitale è
distrutto (nella sua forma di merce, sia come armi che come le altre merci che
sono distrutte dalle armi) tanto più valore può essere creato. Ciò rafforza
il capitale come relazioni sociali.
Dopo la guerra, vi è un periodo di ricostruzione. In quei
paesi colpiti dalle guerre, si deve riprendere la produzione di mezzi di consumo
e di investimento, così come di infrastrutture. Le condizioni per una ripresa
economica sono state create. In quei paesi che hanno fatto la guerra sul suolo
altrui, questa distruzione di capitale non ha avuto luogo, eccetto che per la
distruzione delle armi che sono state usate per fare la guerra. Tuttavia le
condizioni per una ripresa economica in tali paesi sono create se questi
producono le merci e il capitale necessari per la ricostruzione degli altri
paesi, quelli in cui è avvenuta la distruzione. Attraverso prima la distruzione
di un’altra nazione e poi l’offerta di ‘aiutare’ questa nazione nella
sua ricostruzione, i paesi vincenti creano canali per la produzione e l’esportazione
delle loro merci senza dover essi stessi essere esposti a distruzione e
sofferenze. Se le guerre sono mondiali, la massiccia distruzione di capitale
può essere la condizione per una ripresa massiccia e di lungo periodo (come nel
Piano Marshall dopo la Seconda Guerra Mondiale). Questo è ammesso dal
Keynesismo, anche se entro un quadro analitico diverso e con un contenuto di
classe opposto.
Keynes disse una volta: “La costruzione di piramidi, i
terremoti, perfino le guerre possono servire ad aumentare la ricchezza” (1964,
p.129). Abbiamo visto che la teoria alla base di questa e di altre simili
affermazioni si basa su errori teorici. Ma vi è di più. Questi errori hanno
una funzione e un contenuto ideologico specifici. L’aumentata realizzazione e
lo spreco sono teorizzati come se fossero efficaci strumenti per evitare la
crisi in tempi di pace. Non lo sono. Se funzionano, essi funzionano solo per i
paesi imperialisti dominanti sulla base dell’appropriazione di plusvalore
internazionale. In maniera simile, la distruzione di valore in tempi di guerra
è teorizzata come se (sfortunatamente) fosse necessaria per far ripartire l’economia
in qualsiasi nazione. In realtà funziona solo per i paesi imperialisti (1) che
sono dotati di capitale eccedente (2) che possono condurre guerre sui territori
di altri paesi, per ragioni sia economiche che geo-politiche (ma se necessario
esse si fanno la guerra sui rispettivi territori) e (3) che possono offrire ‘aiuti’
per la ricostruzione di questi paesi. La teorizzazione delle politiche
keynesiane da una prospettiva Marxista rivela il carattere di classe di tale
teoria e la funzionalità di queste politiche per la riproduzione del
capitalismo.
La teorizzazione delle stesse politiche da una prospettiva
Keynesiana, nascondendo la loro funzionalità per la riproduzione della
dominazione imperialista, è semplicemente un’apologia dell’imperialismo, un’apologia
che richiede necessariamente gli errori teorici messi in evidenza piùsopra. In
ultima istanza, quindi, la questione è questa: o Marx o Keynes.
Bibliografia
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London
Carchedi, G. (1999), A Missed Opportunity, Orthodox Versus
Marxist Crises Theories, Historical Materialism, No.4, Summer, pp.33-57
Carchedi, G. (2001), For Another Europe. A Class Analysis of
European Economic Integration, Verso, London
Carchedi, G. (2002), The Art of fudging in Vasapollo (ed), An
Old False Problem, Media Press, Rome, Italy, 2002
Giacchè, V. (2001), Perché la guerra fa bene all’economia
(I), Proteo, No.3, pp. 111-116
Harris, S., Swinbanck, A., Wilkinson, G. (1983), The Food and
Farm Policies of the European Community, John Wiley and Sons, Chichester
Keynes, J.M. (1964), The General theory of Employment,
Interest and Money, Harcourt, Brace and World, Inc.
M.Kidron, A Permanent Arms Economy, International Socialism,
1:28, Spring, 1967
Quaderni di Contropiano (2001), La “Belle Epoque È Finita”,
Media Print, Rome
Roodman, D.M. (1997), Reforming Subsidies, in L.R.Brown,
C.Flavin, H.French (eds), The State of the World 1997, W.W. Norton and Company,
New York and London
SIPRI Yearbook 2001, Stoccolma
http://www.wecom.com/ncecd/bp18.html#appendixa
[1] Se la crisi messicana fu la prima del suo genere, l’ultima è quella
argentina, ancora non risolta dopo ben quattro anni. I punti in comune tra le
due crisi sono molti. Il lettore è rinviato all’ articolo di Pablo Ghigliani
nell’ultimo numero di questa rivista.
[2] La caduta del saggio medio di profitto non è
dovuta, come si ipotizza nella teoria economica sraffiana, al fatto che l’industria
bellica (o dei beni di lusso), non ha alcun effetto sul tasso di profitto (si
veda M.Kidron, 1967). Queste industrie producono valore e influenzano il saggio
medio di profitto proprio come fanno gli investimenti in infrastrutture indotti
dallo Stato.
[3] Si noti che le politiche monetarie non sono la causa ultima dell’inflazione.
Piuttosto, esse stesse sono causate dalla necessità di contrastare la crisi di
realizzo che, a sua volta, è causata dalla crisi di profittabilità. La causa
ultima dell’inflazione è la crisi di profittabilità. Si veda Carchedi, 1991
e 2001.
[4] Ciò ovviamente non implica che il capitale privato sia internamente
armonioso. I produttori di armi sono un gruppo di pressione potente che promuove
i propri interessi contro quelli di altri settori del capitale privato. Negli
USA, la AIA, con sede a Washington DC, rappresenta circa 50 dei maggiori
produttori di armi. Essa preme per il finanziamento di candidati presidenziali e
del Congresso, assume ex membri del Congresso come suoi lobbiisti, mobilizza
lavoratori per “salvare i nostri lavori” quando la produzione di armi è
minacciata, paga tangenti a governi esteri per far loro acquistare armi, e
influenza la politica estera al fine di stimolare la corsa alle armi in vari
paesi del mondo.
[5] Dal 1991 al 2000, le
spese militari mondiali sono cadute dell’11%, con un lieve incremento nel 1999
e 2000. questo trend negativo globale nasconde una forte riduzione per l’America
del Nord e per l’Europa Occidentale e un forte incremento per il resto del
mondo (con l’eccezione dell’Europa Centrale e Medio-Orientale). Si veda
SIPRI Yerabook 2001, tabella 4.1. Si vedrà più sotto che un grande incremento
delle spese per armi nei paesi imperialisti può aiutare quei paesi ad uscire
dalla depressione e crisi. L’attacco dell’11 Settembre 2001 a New York e
Washington rappresenta una grande opportunità per rilanciare l’economia USA
che era stata colpita dalla crisi ben prima di quella data.
[6] L’argomento cinico a favore
della creazione di lavoro nell’industria bellica è che questa produzione,
anche se moralmente criticabile, è tuttavia necessaria per l’economia. La
risposta è: vogliamo veramente un sistema economico la cui crescita è basata
sulla previa distruzione di valore (se necessario, attraverso la guerra) con
tutta la sofferenze umana che ne consegue?
[7] È vero che anche in altri settori vengano
prodotte merci il cui valore d’uso non si realizza. Tale realizzazione non è
mai certa. Se una merce non viene venduta, è il produttore che sostiene una
perdita. Se viene venduta ma non usata, è il compratore (nel caso delle armi,
lo Stato) che sostiene la perdita. Ma nella produzione delle armi lo spreco di
lavoro è una caratteristica insita e costante.
[8] Si noti, tra l’altro, la differenze con il lavoro che distrugge
valore (Carchedi, 1991). Questo, al contrario del lavoro che è stato usato per
produrre armi, non può essere produttivo di plusvalore perché distrugge il
valore d’uso della merce e quindi il plusvalore contenuto in essa (si veda l’esempio
della Politica Agricola Comunitaria). Quindi, la forma monetaria del lavoro
erogato in questo caso è un’indicazione della distruzione e non della
produzione di valore.
[9] Oggigiorno, “la maggior parte del supporto governativo per la
vendita di armi prende la forma di sussidi e prestiti garantiti a governi
stranieri per l’acquisto di armi prodotte dagli Stati Uniti. Un nuovo
programma per un totale di 15 miliardi di dollari, approvato dal Congresso nel
1995, assicura le perdite incorse dall’industria della difesa nella
esportazione di armi. Molti altri programmi assicurano mancati pagamenti o
cancellano tasse per esportatori e compratori di oltreoceano. Le ambasciate
americane in tutto il mondo aiutano nella negoziazione di questi affari.
Attualmente, 6.500 impiegati a tempo pieno dei dipartimenti del commercio, di
Stato e della difesa lavorano per promuovere e finanziare vendite militari
oltreoceano. Nel 1995, i costi per promuovere e sussidiare la vendita di armi
(includendo i salari dei 6,500 impiegati di Stato che lavorano per promuovere e
finanziare la vendita di armi oltreoceano) erano più o meno uguali alla
riduzione delle spese per l’assistenza sociale.” Si veda
http://www.wecom.com/ncecd/bp18.html#appendixa
[10] Nella
Unione Sovietica, che non operava sulla base della profittabilità (anche se non
era un sistema socialista), non vi era capitale eccedente ma al contrario una
scarsità permanente di capitale. Per essa, più il bilancio militare era
grande, peggio era. La Guerra Fredda aveva lo scopo di minare l’economia
Sovietica obbligandola a trasferire le sue risorse dalle sfere produttive a
quella militare. Nel periodo 1953-65, “le spese per la difesa nella Unione
Sovietica furono tre volte più alte di quelle dell’Europa Occidentale e dieci
volte piú alte di quelle del Giappone” (van der Pijl, 1999 p.10). Ciò non
poteva che danneggiare l’economia Sovietica ed è una delle ragioni principali
della caduta dell’Unione Sovietica. In una economia capitalista, dove la
profittabilità determina l’esistenza e la dimensione del capitale eccedente,
un grande bilancio militare può (anche se ciò non è sempre il caso) essere un
opzione migliore di un piccolo bilancio. Tuttavia, al di là di un certo limite,
la riproduzione della sfera produttiva può essere minata.