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Tendenze della competizione globale

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Pablo Ghigliani
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Ricercatore Istituto studi sociali de L’AIA

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Crisi nella periferia e movimento dei lavoratori: il collasso argentino

Pablo Ghigliani

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1. Introduzione [1]

La crisi economica argentina è solo un anello in più della lunga catena di crisi che hanno flagellato la periferia capitalistica nel Messico, nel Sudest Asiatico, nel Brasile, nella Russia, nella Turchia e nell’Ecuador. Per quanto riguarda l’Argentina, la crisi non è stata una sorpresa per l’establishment economico, da tempo, infatti, si fanno congetture nelle pagine di riviste come The Economist e il Wall Street Journal, con la data precisa di quando lo stato argentino avrebbe dichiarato ufficialmente la propria insolvenza.

Tuttavia, il modo in cui si è verificato l’avvenimento annunciato non è stato previsto da queste congetture. Due presidenti si sono dimessi in meno di quindici giorni. Prima De la Rua, che rinunciò dopo 48 ore di saccheggi, manifestazioni, scontri contro le forze di polizia, e un tragico bilancio di più di 30 morti. Questi eventi diedero inizio ad uno stato di mobilitazione quasi permanente che è stata la causa della rinuncia del suo successore, Rodriguez Saa, e che si è trasformato in una minaccia latente per il governo attuale. Di fronte a questi episodi, la paura tradizionale di contagio economico ha lasciato posto alla paura del contagio politico, come hanno dichiarato apertamente i funzionari degli Stati Uniti.

Un’analisi della crisi argentina permette, un volta di più, di fare un confronto tra le sue conseguenze devastanti per la classe operaia e i settori popolari dei paesi periferici e i processi di ristrutturazione del capitalismo mondiale dopo la crisi della metà degli anni ’70.

2. La crisi degli anni ’70 e l’offensiva del capitale

L’uscita dalla crisi mondiale non è stato il prodotto di una transizione graduale e endogena condotta dalle forze del mercato ma il risultato di una politica cosciente di riorganizzazione dell’economia internazionale con gli USA in testa [2]. Il nucleo di questa politica è stato inizialmente la liberalizzazione del mercato delle merci che era minacciato dalle pratiche protezioniste risorte prima della crisi. A questo obiettivo iniziale si aggiunge negli anni ’80 la ricerca di una liberalizzazione completa sia dei movimenti del capitale sia dei servizi, in particolare quelli finanziari, di fronte alla crescente accumulazione del capitale liquido prodotta dalla lenta ripresa del tasso di profitto che influiva sugli investimenti produttivi.

A questa liberalizzazione dei mercati dobbiamo aggiungere i profondi mutamenti che hanno influito direttamente sulla sfera della produzione e distribuzione del plusvalore. Ci riferiamo all’offensiva internazionale contro il lavoro che si espresse nello smantellamento di numerose conquiste storiche della classe operaia e dei salariati e nel peggioramento delle condizioni di lavoro. Su questo piano si è articolata una doppia strategia che combina la estrazione di plusvalore assoluto attraverso la intensificazione dei ritmi di lavoro, la prolungazione della giornata lavorativa, e l’abbassamento dei salari (specialmente nei paesi periferici), con la produzione di plusvalore relativo attraverso l’aumento della produttività basato sulla incorporazione delle tecnologie informatiche e dell’automatizzazione, che sono modalità predominanti nei paesi del centro.

Liberalizzazione e peggioramento delle condizioni di lavoro sono quindi le due caratteristiche che definiscono la tappa che si apre con la crisi degli anni ’70. All’interno di questo schema generale, le sofferenze patite dalle classi subalterne dei paesi periferici sono state di una grandezza che non hanno confronto con quelle delle classi subalterne nei paesi del centro. Seguiamo, quindi, lo sviluppo del caso argentino.

 

3. L’impatto dell’apertura economica in Argentina

La crisi internazionale degli anni ’70 pone fine alla industrializzazione dei paesi periferici basata sulla sostituzione delle importazioni e sul mercato interno. In Argentina, l’obiettivo economico del colpo di Stato del 1976 è stato precisamente la fine di questa forma di accumulazione. Il suo obiettivo politico è stato la sconfitta della classe operaia industriale che, attraverso una intensa mobilitazione, era riuscita a evitare una caduta del salario reale e a mantenere per sé un’alta quota del reddito nazionale [3].

Un quarto di secolo dopo che la dittatura iniziò il processo di apertura e liberalizzazione economica, si può osservare che i suoi aspetti fondamentali sono il debito esterno, la ristrutturazione dell’apparato produttivo, e la distribuzione regressiva del reddito. Di questi tre aspetti è stato il debito esterno che ha giocato il ruolo strategico in questa evoluzione.

Nel 1976, il debito esterno ammontava a 8.000 milioni di dollari. Nel 2001, si stima che esso ammonti a 160.000 milioni; ciò che ha un impatto ancor maggiore è che il rimborso in questo periodo è stato di 200.000 milioni, cioè 25 volte in più del suo valore originale [4]. L’importanza dell’indebitamento non si limita solo ai suoi effetti economici; esso assume una dimensione politica fondamentale. Gli organismi finanziari dell’imperialismo, il FMI e la Banca Mondiale, furono la testa di sbarco che resero strutturali il disequilibrio esterno e la crisi fiscale dello stato. Così il debito con l’estero e il suo costante rifinanziamento hanno permesso l’adozione dei piani di aggiustamento strutturali, delle riforme dello Stato, e delle privatizzazioni che hanno condotto alla ristrutturazione dell’apparato produttivo e alla deindustrializzazione.

Nel loro complesso, questi fenomeni hanno influito notevolmente sulle modalità vigenti di accumulazione producendo una profonda ricomposizione delle classi sociali. Con tale ricomposizione sono apparsi nuovi attori sociali e forme di lotta presenti nell’esplosione del dicembre passato (2001).

 

4. Gli anni ‘90: il piano di convertibilità, le privatizzazioni, la crescita e la crisi

Se l’inizio degli anni ’90 è stato contraddistinto da una crisi da inflazione, la sua fine è stata caratterizzata dalla deflazione dei prezzi e dalla recessione. Senza dubbio, tra questi due estremi sfavorevoli, l’Argentina è stata una delle Cenerentole del neo-liberalismo.

Vi furono due decisioni economiche che caratterizzarono l’evoluzione economica del decennio: un ampio piano di privatizzazioni e l’adozione nel marzo del 1991 del Piano di Convertibilità Monetaria.

Il successo anti-inflazionistico del Piano di Convertibilità ha permesso la stabilizzazione dei prezzi interni e questa stabilità, assieme ai prezzi delle imprese privatizzate e alle ampie concessioni offerte dallo Stato argentino, hanno fatto delle privatizzazioni un affare molto attraente.

Dal punto di vista della classe dominante, le privatizzazioni sono state non solo un affare eccezionalmente redditizio, ma anche, limitando gli antagonismi delle distinte frazioni, hanno unificato gli interessi della “cupola” imprenditoriale. Praticamente, non vi sono state privatizzazioni senza che vi partecipassero gruppi economici locali o conglomerati stranieri radicati nel paese, banche straniere, e imprese transnazionali. Questo fenomeno è collegato alla internazionalizzazione della borghesia argentina che si è manifestato anche nei suoi investimenti esteri, nel suo possesso di titoli di debito estero, e nella internazionalizzazione delle sue finanze.

Dal punto di vista dei lavoratori, questo trasferimento massiccio di imprese statali in mani private significò un aumento della disciplina del mercato della forza lavoro e un suo completo assoggettamento agli imperativi della valorizzazione, le cui conseguenze furono, come vedremo più sotto, riduzioni di personale e un aumento della intensità e delle ore di lavoro.

Molti dei critici del neo-liberalismo non hanno voluto riconoscere che entrambi i fenomeni hanno permesso la crescita dell’economia argentina all’inizio degli anni ’90, dopo il lungo periodo di stagnazione del 1976-1990. Pare che temano che il riconoscimento di questo fatto potrebbe portare alla giustificazione dell’aumento dello sfruttamento di classe, che lo rese possibile, e della marginalizzazione e esclusione sociale che esso produsse. Come se questa crescita fosse aliena al processo che condusse alla crisi! Tuttavia, i dati del PIL e i livelli di investimenti che essi generarono sono eloquenti.

Tra il 1991 e il 1997, il PIL argentino è cresciuto ad un tasso medio del 6.1%. Anche se si prende in considerazione la lunga recessione che chiuse il decennio, il tasso medio per tutto il periodo fu del 4.5%, che è di molto superiore non solo al periodo 1976-1990 ma anche alla media del 3,9% del periodo delle sostituzioni delle importazioni. Se prendiamo in considerazione i livelli di investimenti netti tra gli anni 1990 e 1999, essi raggiungono i 100.000 milioni di dollari. Questo, anche se non rappresenta un livello massiccio di investimenti, non può neppure essere considerato di poca importanza.

Questa crescita economica favorì il sogno neo-liberale ma fu del tutto inefficace per evitare l’incubo della recessione che si presentò nel paese a partire dall’Aprile del 1998.

5. La crisi e la spiegazione della crisi

Il dato più eloquente sulla profondità della crisi attuale è che dura da quattro anni. Questo spiega il paragone, oggi comune, con la crisi del 1930. Tuttavia, non dobbiamo lasciarci ingannare. Mentre la crisi del 1930 provocò cambi profondi nella strategia di accumulazione del capitale della borghesia agro-esportatrice, nulla indica che la crisi attuale possa condurre ad un cambiamento nel modello di accumulazione vigente. Al contrario, come quello che successe nel resto della periferia, la sua risoluzione punta verso un aggravamento delle tendenze generali menzionate all’inizio.

Per comprendere la gravità del peggioramento economico argentino, abbiamo bisogno di indicatori più sensibili che la semplice durata. Il PIL è caduto del 3,2% nel 1999, dello 0,5% nel 2000, e del circa 3,5% nel 2001. Per il 2002 vi sono stime diverse però tutte concordano che vi sarà un’ulteriore caduta del PIL. Gli investimenti nel 2000 sono caduti dell’8,3% e le diminuzioni degli investimenti nei due anni anteriori all’ insolvenza sono stati di 40.000 milioni di dollari.

La recessione generalizzata ha avuto ricadute sopra il debito delle imprese, e ciò ha portato come gravi conseguenze la caduta dei pagamenti e l’aumento delle bancarotte. Si calcola che il settore imprenditoriale non agricolo sia arrivato al 2001 con un debito con l’estero di circa 55.000 milioni di dollari e con promesse di pagamento di circa 7.500 milioni. Nel settore agricolo vi sono 12 milioni di ettari ipotecati. Negli anni 2000 e 2001, 3000 imprese hanno cessato le attività e varie decine si sono trasferite all’estero. Alla generalizzata cessazione dei pagamenti, si deve aggiungere una caduta della riscossione delle imposte tra il 40% e il 50%.

La disoccupazione è aumentata al 18,3% e si calcola che dei 36 milioni di argentini, 14 milioni vivono al di sotto della linea della povertà.

Che spiegazioni sono state date di un tale collasso? Incominciamo dagli argomenti ripetutamente avanzati dalla ortodossia neoliberale.

La spiegazione favorita e più banale ravvede le radice del problema in questioni psicologiche. Prima di tutto, nelle aspettative negative dei lavoratori e poi nella loro mancanza di fiducia con i suoi effetti negativi sul mercato interno. Un altro argomento classico è quello che dà la colpa alla corruzione. Il FMI e la Banca Mondiale hanno insistito recentemente su questa idea, non come una spiegazione completa del fenomeno ma come ciò che spiega la precipitazione della crisi perlomeno in Argentina e in Turchia [i]. Questo argomento ha chiari fini ideologici. In Argentina, la sua funzionalità per la borghesia si esprime a tre distinti livelli: ha incanalato il malcontento sociale verso la classe politica occultando così la responsabilità dei capitalisti; è servita alla costruzione di opzioni politiche di ricambio istituzionale quando si esaurì la formula Menemista; ed è funzionale all’obiettivo di ridurre i costi sociali. Tuttavia, ha avuto effetti contradditori perché ha approfondito la crisi di rappresentatività e di legittimità della classe dirigente e del sistema politico [5]. Ma la profondità e la durata della recessione hanno provocato il graduale abbandono di questo tipo di spiegazioni.

I ministri dell’economia - se ne sono succeduti tre nel 2000 - hanno avanzato un loro proprio argomento: la mancanza di coraggio dei governi precedenti nel fare “le riforme necessarie” e chiudere definitivamente con il deficit fiscale. Quello che nessuno dice è che le cause di questo deficit cronico non devono essere cercate nella spesa pubblica ma nel pagamento degli interessi sul debito estero e nella esistenza di trasferimenti multipli di reddito ai capitalisti.


[1] Ns. traduzione dall’originale olandese

[2] Alan Freeman (2000), “Crisis and the Poverty of Nations: Two Markets Products Which Value Explains Better”, en Historical Materialism, nº 5.

[3] Questo spiega la violenza della dittatura più sanguinosa della storia argentina, il cui scopo era l’eliminazione fisica di un ampio arco di militanti (mediante assassini e sparizioni), delle sue organizzazioni di quartiere, studentesche, politiche, sindacali e politico-militari. Fu la lotta contro queste ultime che costituì il discorso ideologico della dittatura e che fu appoggiata da ampi settori delle classi medie. Questo arco eterogeneo di forze sociali era costituito tanto da gruppi rivoluzionari che da gruppi combattivi riformisti di orientamento nazional-popolare. Esso includeva quindi un’ampia gamma di orientamenti ideologici e identità politiche.

[4] L’origine del debito esterno è correlata con la decisione della dittatura di farsi carico della totalità del debito privato favorendo le grandi imprese che poi parteciparono alle privatizzazioni, le quali furono presentate come la soluzione del problema dell’indebitamento.

[i] La Nación, 19 de febrero del 2002.

[5] Ovviamente, la corruzione esiste però non è un’esclusiva delle economie in crisi. Un esempio della sua importanza è dato da uno studio recente che calcola che il 6% del reddito annuale delle imprese servono a pagare tangenti e commissioni. Negli Stati Uniti, questi costi ammontano a 400.000 milioni di dollari annuali. Però queste pratiche corrotte non sembrano influire sulla marcia della economia degli USA e sulla loro posizione egemonica mondiale.