Crisi nella periferia e movimento dei lavoratori: il collasso argentino
Pablo Ghigliani
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Le leggi sul lavoro che appaiono soprattutto a partire dal
1995, cinicamente presentate come i mezzi idonei a combattere la disoccupazione,
sono state il riconoscimento di pratiche già abituali nelle imprese. Molte di
queste pratiche, che esprimono la portata della flessibilizzazione al livello
dell’impresa, furono inserite nei contratti collettivi di lavoro anche prima
di essere incorporate nelle riforme legali e spesso in aperta contraddizione con
la legge sul lavoro. Queste modifiche possono essere raggruppate attorno a
quattro assi principali:
1 - Distribuzione del tempo di lavoro e della giornata
lavorativa: tra il 1991 e il 1998, un totale di 429 contratti collettivi
soprattutto a livello dell’impresa, hanno inserito clausole che aumentano il
tempo di lavoro. Un caso classico fu l’aumento delle giornate ridotte delle
imprese statali privatizzate che passarono da 6 o 7 ore a 8 o 9 ore. Per di più
si introdusse il criterio della flessibilizzazione della giornata che permette
in pratica ai capitalisti l’uso discrezionale della forza lavoro a seconda dei
requisiti congiunturali del mercato o le necessità tecniche [1]. Nello stesso
spirito, si introdussero nei contratti clausole che flessibilizzano le ferie e
il riposo settimanale.
2 - Organizzazione del processo di lavoro. Qui si
registra la massiccia incorporazione dei concetti di polivalenza,
multifunzionalità o flessibilità funzionale della forza lavoro, associati all’obbiettivo
di aumentare la produttività. Uno dei suoi risultati è l’appiattimento della
tradizionale piramide delle categorie vincolate a compiti precisi con livelli
salariali stipulati in maniera chiara. Questi concetti si incorporano in gradi
differenti a seconda delle attività, i gruppi semiautonomi di lavoro, lavoro in
cellule, sistemi di qualità totale, ecc. Nel loro insieme, questa modifiche
intensificano il carico e i ritmi di lavoro.
3- Stipulazione dei salari: la tradizionale struttura
salariale fa posto a remunerazioni che si compongono di un livello fisso molto
basso che aumenta attraverso incentivi o retribuzioni legate all’aumento della
produttività o del prodotto. Questi possono essere erogati in forma
individuale, di gruppo, settoriali, o assieme. In genere le imprese favoriscono
i primi due modi favorendo la competizione tra i lavoratori. Si sottolinea
sempre che questi benefici non sono diritti acquisiti permanenti.
4 - Proliferazione di modalità flessibili di contrattazione:
ciò ha condotto ad un maggiore eterogeneità del tipo di relazioni industriali
come risultato di una utilizzazione massiccia delle nuove modalità di
contrattazione temporanea e della sub-contrattazione. Non solo riducono i costi
ma anche frammentano gli interessi immediati dei lavoratori, rompono la
solidarietà e rendono più difficile l’azione sindacale.
Ovviamente, queste trasformazioni, causate dalla offensiva
capitalistica, hanno avuto serie conseguenze per i lavoratori, per le loro
organizzazioni e per le forme assunte dalla lotta di classe.
Primo, esse hanno contribuito alla maggiore disciplina
della forza lavoro industriale. Ciò si espresse nel diminuito conflitto
industriale durante questo periodo. A questa diminuzione si è accompagnato uno
spostamento della combattività che ha investito fortemente i lavoratori statali
e verso i conflitti regionali e decentralizzati.
Secondo, le nuove condizioni hanno colpito duramente il
sindacalismo. La Confederazione Generale del Lavoro (CGT) ha visto il suo
prestigio calare per mancanza di risposte adeguate di fronte agli attacchi e per
la sua collaborazione e concertazione con i governi Menem (1989-99).
Conseguentemente, si è prodotto uno scollamento ancor maggiore con la base
sindacale che la CGT ha praticamente ha smesso di rappresentare.
Contemporaneamente a questo declino della burocrazia
sindacale sono emersi nuovi nuclei di opposizione. Nel 1992 incomincia a
svilupparsi il Congresso dei Lavoratori Argentini (CTA) la cui base sono i
lavoratori statali, maestri, gruppi di opposizione di diversi sindacati e
sindacalisti di base. Nel 1994 nasce il Movimento dei Lavoratori Argentini
la cui strategia iniziale fu quella di contestare la direzione della CGT. Questo
nucleo è quello che ha più affinità con la pratica tradizionale del
sindacalismo peronista. Infine, nel 1995 ha acquisito notorietà la Corrente
Classista Combattiva (CCC) che, inizialmente limitata alla provincia del Jujuy,
ampliò il suo campo di azione riuscendo a estendere la sua influenza fino A
Buenos Aires.
Terzo, la disoccupazione e la pauperizzazione fece sì
che emergessero nuovi attori sociali, organizzazioni, e forme di lotta. Così
sono stati i disoccupati a convertirsi in protagonisti delle agitazioni contro
la politica economica del governo, con il rafforzamento delle proprie
organizzazioni e facendo lotte come dei blocchi stradali con un metodo effettivo
per rimpiazzare le forme tradizionali di lotta che, a loro volta, subiscono
importanti trasformazioni durante gli anni 90 [2]. Queste forme di lotta possono essere raggruppate in
cinque categorie. Primo, dobbiamo menzionare i saccheggi e veri e propri assalti
di massa ai negozi per procurarsi alimenti; sono apparsi nel 1989, si ripeterono
nel 1990 e sono stati massicciamente presenti nell’ultimo dicembre. Si tratta
di una forma molto primitiva di protesta in cui prevale il comportamento
spontaneo da cui non è emerso alcun risultato organizzativo. In secondo luogo
ci sono le vere e proprie esplosioni sociali di “rabbia popolare”. Il primo
del decennio fu il “Santiagazo” (1993) nella provincia di Santiago del
Estero. Gli obiettivi dei ribelli furono edifici pubblici, sedi del governo, e
case di politici. In terzo luogo vi è una innumerevole quantità di proteste di
strada (manifestazioni, marce, raduni, mense dei poveri, occupazioni di edifici
pubblici, cacerolazos, ecc.[Nota del traduttore: i cacelorazos sono
dimostrazioni dove si percuotono le pentole come segno di protesta], molte volte
con scontri diretti con le forze della polizia. In quarto luogo, vi è lo
sciopero, che, nonostante il suo declino, ha avuto un ruolo difensivo
importante. Vi sono stati 14 scioperi generali, l’ultimo dei quali alcuni
giorni prima dell’insurrezione popolare. Infine, i blocchi stradali. Questa
forma assume importanza dal 1996 e il suo obiettivo principale è l’occupazione
e la lotta alla disoccupazione. I loro inizi hanno avuto alcune caratteristiche
comuni. Primo, inizialmente sono avvenuti in zone dove la crisi economica
cronica si è combinata con privatizzazioni e ristrutturazioni dell’unica o
principale fonte di reddito o di occupazione. Secondo, sono state organizzate da
commissioni multisettoriali di disoccupati, coordinamenti di picchetti,
appoggiati da sindacati locali, o con la partecipazione di gran parte della
comunità. Terzo, lo Stato nazionale ha risposto con una combinazione di
trattative e repressioni incontrollate che si sono scontrate sempre con forme
creative di resistenza organizzata dalla comunità. Quarto, a differenze della
CTA e del CCC, le altre organizzazioni sindacali hanno tenuto un atteggiamento
dubbio e prudente di fronte a questo fenomeno [3].
Questo ampio repertorio ha contraddistinto le azioni che
condussero all’insurrezione popolare dell’ultimo dicembre. Questa identità
è un indicatore che si è trattato del punto di partenza di un processo di
lotta e mobilitazione frammentata ma continua. Senza dubbio, è stato il “cacerolazo”
il modo di protesta che acquisì risonanza mondiale. Questa è una forma di
protesta tipica della classe media, protagonista principale dei successi [4].
7. L’esplosione
Messo alla corda dai problemi economici e dalle domande
sociali, il governo argentino si è preoccupato principalmente durante il 2001
di mediare tra le distinte frazioni del capitale minacciate dalla crisi, e cioè
le banche, i creditori nazionali e stranieri del debito, le grandi imprese
straniere, e i grandi industriali locali. A questo fine, messo sotto pressione
da tali interessi, mentre realizzava una serie di misure eterogenee, ha
intensificato i meccanismi di trasferimento regressivo del reddito attraverso
aggiustamenti mirati a mantenere l’equilibrio fiscale. Le vittime dirette sono
stati i lavoratori statali che hanno visto i loro salari realizzare una perdita
iniziale del 13%, con continui licenziamenti e interruzioni dei loro contratti,
e che sono stati costretti ad accettare i loro salari in titoli emessi dalle
amministrazioni provinciali a causa della penuria di denaro.
Così, tutto il periodo precedente l’esplosione popolare è
stato contraddistinto da una crescente mobilitazione nella quale si sono
intensificati i blocchi stradali e anche l’incremento della conflittualità
nel settore pubblico sotto la leadership della CTA. Però il colpo di grazia è
stato dato dal congelamento dei risparmi bancari e dalla loro bancarizzazione
forzata come conseguenza del prelievo di depositi. Tale congelamento ebbe un
effetto non solo su ampi settori medi ma anche sul funzionamento della economia
informale e sui settori popolari che sopravvivono anche grazie ad essa. Questa
misura presa dal governo di fronte al collasso finanziario ha demolito la sua
capacità di continuare a mediare tra le diverse frazioni del capitale e di
disinnescare il conflitto sociale; in tal modo il governo ha perso la fiducia
della borghesia, degli organismi internazionali, del resto delle forze
politiche, e della sua base elettorale. Questo indebolimento è stata l’altra
faccia del successo della mobilitazione che pose fine al governo.
Se si vuole caratterizzare brevemente l’eterogeneo arco
sociale che partecipò all’insurrezione, bisogna mettere in luce la presenza
degli abitanti dei quartieri popolari che iniziarono i saccheggi in cerca di
vitto e soprattutto dei settori medi urbani più colpiti, che già manifestavano
prima del congelamento dei loro risparmi e che reagirono decisamente contro lo
stato di assedio decretato dal governo.
Dobbiamo rilevare che gli operai non hanno giocato nessun
ruolo rilevante come classe nell’insurrezione; non sono state presenti le sue
organizzazioni, né è stata riconoscibile la sua presenza come un diverso
gruppo sociale. La partecipazione dei lavoratori si frammentò nella
mobilitazione di massa alla quale parteciparono individualmente. Non dobbiamo
meravigliarci se durante tutto l’anno vi è stata una netta diminuzione della
conflittualità dei lavoratori del settore privato nonostante i licenziamenti,
le sospensioni, e gli attacchi al salario; e che la CTA essendo stato il
referente principale della lotta degli statali, si è mantenuta al margine degli
eventi del dicembre per i quali non aveva una risposta adeguata.
A questo si collega l’assenza di una leadership e l’alto
grado di spontaneismo dell’insurrezione. Se da un lato ciò può essere
considerato un vantaggio relativamente alle forme tradizionali di
demobilitazione e canalizzazione del conflitto, dall’altro esso ha espresso i
limiti del forte anti-politicismo e anti-partitismo di coloro che si
mobilitarono. Questa è oggigiorno la caratteristica ideologica predominante dei
“cacerolazos” e delle assemblee di quartiere dei settori medi che hanno
egemonizzato la protesta, determinando il tono della sua evoluzione.
Tra le forme concrete assunte dalla lotta, si evidenziano per
la loro partecipazione massiccia gli attacchi ai grandi supermercati, alle
banche e alle entità finanziarie, la distruzione di telefoni pubblici di
imprese straniere, e l’attacco ai locali dei McDonalds. Anche questo fenomeno
ha un significato contraddittorio. È un risultato rilevante perché esprime la
identificazione del nemico nelle diverse frazioni del capitale e va oltre all’attacco
ai “politici”. Però rafforza il risorgere di discorsi industrialisti e
nazionalisti, che concentrano la loro furia contro il capitale finanziario, e le
imprese straniere di servizi, specialmente quelle privatizzate. Queste forme di
lotta non pongono in questione le relazioni capitaliste; anche se il margine di
manovra attuale della classe politica è molto limitato, esse aprono la
possibilità di costruire alternative future di ricambio istituzionale che sono
essenziali per la borghesia nel mezzo dell’immensa crisi di rappresentatività
e di legittimità del sistema politico.
8. Epilogo
Per terminare, sottolineiamo alcune idee basilari.
In primo luogo, le spiegazioni della crisi argentina che
si fermano ai limiti delle frontiere nazionali sono insoddisfacenti. Solo
prendendo in considerazione l’evoluzione del capitalismo mondiale partendo
dagli anni ’70, possiamo arrivare a comprenderla. Una caratteristica di base
di questa evoluzione è stata un aumento della mobilità dei capitali
transnazionali in cerca di mercati, di forza lavoro da sfruttare, e di
opportunità di investimenti. Con questa espansione mondiale delle condizioni
sociali dell’accumulazione, la crisi si è espansa in forma frammentata nella
periferia e con una attenuazione dei suoi effetti nel centro, grazie all’appropriazione
sistematica di plusvalore resa possibile dalla egemonia imperialista [5]. Se la sua manifestazione finale è la
crisi finanziaria, è fuori dubbio la sua connessione in Argentina con una
estesa recessione e caduta del tasso di profitto che ha provocato la
svalutazione, la centralizzazione, la concentrazione, e la distruzione di
capitali. Questa spirale si è accentuata col collasso di tutti i fenomeni che
avrebbero potuto avere un ruolo anti-ciclico: l’assenza della politica
monetaria, la caduta del prezzo delle esportazioni e la forte depressione del
mercato interno.
Secondo, il carattere internazionale delle condizioni di
accumulazione rende illusoria l’opinione che la ribellione e la
convertibilità abbiano come conseguenza un cambiamento del modello di
accumulazione con effetti positivi per la distribuzione. Al contrario, come
dimostrano tutti gli sforzi del governo attuale per riprendere i negoziati con
il FMI, dovremmo considerarli come un peggioramento delle tendenze fondamentali
sopra analizzate.
Terzo, il capitale, nella sua fame vorace di plusvalore,
ha lanciato un attacco contro le spese statali. Tale attacco ha condotto sempre
di più verso una crisi di legittimità del sistema politico, che oggi si è
trasformata in un serio problema per la borghesia nella sua ricerca di una
formula politica stabile di dominazione. Il dispiegarsi di tale antagonismo può
avere delle conseguenze importanti per la lotta di classe che si sta
sviluppando.
Quarto, all’interno della crescente mobilitazione
sociale vi è stato fino ad ora un grande assente, la classe operaia e le sue
organizzazioni; dal momento che non vi è stata una partecipazione al processo
precedente l’insurrezione attraverso i cinque scioperi generali degli ultimi
due anni, e attraverso l’acuirsi delle lotte difensive dei lavoratori statali,
la classe operaia non ha potuto assumere un ruolo protagonista nell’esplosione
popolare. Ciò ha indebolito la sua posizione lasciando il passo ai settori medi
urbani che hanno obiettivi molto limitati.
In ogni caso, è sorta tutta una serie di fenomeni che
indicano una crescita della politicizzazione della popolazione. Può darsi che
il più visibile di tutti siano le assemblee di base di quartiere che già
formano parte della esperienza popolare. Esse sicuramente si ripeteranno, come
è stato dimostrato dalla riattualizzazione costante delle forme di lotta
sviluppate negli anni ’90, fenomeno tipico prima di ogni forte ripresa della
lotta di classe.
[1] Sono tipiche la
‘giornata continua’ e la ‘giornata modulizzata’. Nel primo caso si
fissano i limiti della giornata settimanale (per esempio, tra le 6 della mattina
del lunedì e le 13 del pomeriggio di sabato) e si obbligano i lavoratori a
essere disponibili fino a 4 ore dopo l’orario stabilito nel contratto in caso
di qualsiasi eventualità che ciò richieda. Nell’altro caso, si fissa una
giornata mensile e si lascia indefinito il carico orario giornaliero,
specificando che le giornate possono essere di durata diversa.
[2] Iñigo Carrera, N. - Cotarelo, M.
(1997): “Las formas que toma la lucha social en la Argentina actual”, Cuadernos
del Sur, nª 25.
[3] Dinerstein, Ana (1998): “Desocupados
en lucha, contradicción en movimiento”, Cuadernos del Sur, nª 26.
[4] I “cacerolazos”
furono incoraggiati dall’Alleanza durante gli ultimi anni del governo di
Menem. I suoi protagonisti furono quasi esclusivamente i settori medi urbani di
Buenos Aires.
[5] In una
triplice modo: il commercio internazionale, data la differenza di produttività
provocata dalle differenze tecnologiche; le rimesse di divise dei capitali
oligopolistici a quelli associati; e i pagamenti di servizi finanziari da parte
degli Stati periferici indebitati.