Note sulla situazione argentina e l’origine del debito estero
Antonio Moscato
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1. La crisi argentina per molti aspetti è più profonda
e grave di quelle che negli ultimi anni hanno investito il Messico o il Brasile.
Preparata da un lungo declino, aggravatosi proprio nell’ultimo decennio in cui
le “cure da Cavallo” dell’omonimo mago della finanza da un quarto di
secolo al centro del potere economico avevano dato l’illusione di una
soluzione, ancorando il peso al dollaro e bloccando l’inflazione (ma anche la
competitività dei prodotti argentini), la crisi sociale era esplosa nel
corso di tutto il 2001 con una crescita impetuosa del movimento dei piqueteros,
i licenziati o disoccupati cronici che bloccavano le vie di comunicazione in
molte province e soprattutto nella cintura industriale di Buenos Aires.
Lo sprofondamento dell’economia negli ultimi mesi del 2001
non aveva sorpreso nessuno, la risposta popolare sì: non era facile immaginare
che centinaia di migliaia di persone scendessero in piazza sfidando lo stato d’assedio,
e assediando tutti i palazzi simbolo del potere.
La crisi politica, preannunciata da molti anni di
logoramento delle due formazioni maggiori (radicali e peronisti) che si
alternavano al potere o si accordavano tra loro in diversi momenti cruciali, era
aggravata dalla subalternità del possibile “terzo polo” di centrosinistra,
incapace di concepire altro che ritocchi alle misure antipopolari dei governi
centrale e provinciali, e si era manifestata clamorosamente nelle elezioni dell’ottobre
2001, in cui l’astensionismo (prevalentemente spontaneo, ma propagandato
attivamente sia dalla destra estrema, sia dalle Madri di Plaza de Mayo) ha
raggiunto punte altissime: 6.500.000 persone, pari al 26% dell’elettorato, non
sono andate alle urne, e altre 3.800.000 (pari al 21,1% dei votanti) hanno
annullato o lasciato in bianco la scheda.
Ad esempio la maggior parte dei senatori sono stati eletti
con percentuali inferiori al 20% (il candidato appoggiato dal presidente De la
Rúa, Terragno, solo con l’11%), grazie all’altissimo livello delle schede
bianche e nulle, e alla frammentazione delle liste (in maggioranza mimetizzate e
non riferite esplicitamente ai due grandi schieramenti). Fortemente votato un
personaggio dei fumetti, un papero che non avendo mani e tasche non può rubare...
Il settarismo ha impedito tuttavia un ruolo della pur
numerosa e vivace sinistra rivoluzionaria, che pur raccogliendo complessivamente
1.500.000 voti non è riuscita ad avere rappresentanti, tranne Luis Zamora e un
altro candidato della sua lista improvvisata.
La sfiducia espressa nei confronti di tutti gli esponenti dei
due raggruppamenti che hanno governato alternativamente o insieme l’Argentina
negli ultimi cinquanta anni (i radicali, anzi, erano andati al potere per la
prima volta nel lontano 1916) era evidente dunque fin da ottobre, ma non era
facile prevedere la forma dell’esplosione del 19-22 dicembre, che ha
portato alla cacciata prima del potentissimo Domingo Cavallo (sulla scena
politica fin dagli anni della dittatura, e che ha collaborato a molti dei
governi “democratici”), poi dello stesso presidente De la Rúa, senza che
nessuno (letteralmente nessuno) scendesse in piazza per difenderli. Anche altri
tre tentativi di trovare un presidente accettabile sono falliti, prima che
venisse riesumato Duhalde, prima collaboratore e poi rivale di Menem e sconfitto
da De la Rúa nelle elezioni del 1999.
Il colpo di grazia è venuto dall’inedita protesta dei ceti
medi urbani defraudati dal corralito (il blocco dei prelievi dai conti
correnti che tutti ormai avevano in dollari), mentre le grandi società
straniere e argentine erano state autorizzate a portare via milioni di dollari
subito prima dell’inevitabile svalutazione del peso. Erano colpiti duramente
in primo luogo coloro che non potevano più ritirare salario e pensione, e
neppure il più piccolo risparmio depositato in banca, ma anche molti piccoli
imprenditori e commercianti, che sono falliti a decine di migliaia.
Sono costoro che hanno dato corpo alle massicce
manifestazioni davanti al Palazzo presidenziale, alle banche e al Palazzo di
Giustizia. I primi morti, caduti in Plaza de Mayo e poi nei quartieri
dove i più disperati assaltavano i supermercati, non hanno fermato le
mobilitazioni. Quando nel quartiere periferico di Floresta un poliziotto
esasperato ha ucciso in un bar tre giovani inermi che commentavano la
repressione, la popolazione della zona ha trasformato il punto in cui erano
caduti in un vero e proprio luogo di culto della memoria dei tre. Quel
poliziotto, ma anche i massimi dirigenti che avevano ordinato di sparare davanti
alla Casa rosada, sono stati arrestati e processati, con una forte
emozione in un paese che aveva visto tanti delitti del potere impuniti.
Dopo più di tre mesi il movimento regge, perché il governo
è paralizzato e i veri responsabili dei crimini economici, gli organismi
internazionali che hanno distrutto il paese, rifiutano di contribuire al
risanamento, o pretendono di dettare ancora le condizioni. Sempre più spesso la
parola d’ordine “piqueteros, cacerolas, la lucha es una sola”
avanzata da tutte le organizzazioni della sinistra viene accolta superando le
molte diffidenze reciproche (del ceto medio verso i “violenti” dei blocchi
stradali, dei proletari dei picchetti nei confronti della piccola borghesia che
in passato aveva votato radicale o peronista e accettato le ricette economiche
di Cavallo).
L’inesperienza delle nuove leve “incazzate” nei primi
tempi aveva fatto più volte riproporre il divieto di partecipazione ai raduni
con bandiere di organizzazione, e aveva anche portato a qualche flessione della
partecipazione popolare alle iniziative centrali, per timore di provocazioni, ma
soprattutto per il permanere del riflesso condizionato ereditato dal periodo
immediatamente successivo alla caduta della dittatura, con la teoria dei “due
demoni”, che attribuiva pari responsabilità ai militari e ai gruppi
rivoluzionari degli anni Settanta.
Della sinistra rivoluzionaria per un quarto di secolo il “pensiero
unico” ha ricordato soprattutto gli errori (che a volte ci furono, ma non
erano però stati la causa della repressione, e al massimo fornirono
qualche pretesto aggiuntivo a un esercito feroce e abituato da più di un secolo
a sparare sul popolo), mentre era stata dimenticata la generosa partecipazione
delle stesse organizzazioni armate alle lotte operaie e popolari. Queste d’altra
parte non rappresentavano la totalità della sinistra; e anche i partiti che
criticavano aspramente la guerriglia furono ugualmente spazzati via e sterminati
dai militari, solo perché avevano avuto un ruolo nelle lotte della classe
operaia della prima metà degli anni Settanta.
Perfino molti militanti del PCA, la cui dirigenza ebbe un
ruolo vergognoso (insieme e non solo al rimorchio dell’URSS, che non ruppe mai
i rapporti con la dittatura, analogamente a quel che fece la Cina con Pinochet),
furono assassinati dalle squadre della morte. Ciò non assolve il partito, e
anzi ne aggrava le responsabilità, anche se ora ha cominciato una seria
autocritica.
Oggi la sinistra rivoluzionaria, pur se ancora divisa e con
rigurgiti settari, ha un grande spazio aperto davanti a sé: le sue parole d’ordine
sul rifiuto del debito, la confisca senza indennizzo delle multinazionali e di
tutte le imprese private che hanno saccheggiato il paese, la riduzione del
carico fiscale su lavoratori e fasce basse dello stesso ceto medio, la riduzione
delle tariffe dei servizi possibile solo grazie a una severa tassazione dei
capitali, ecc., sono sempre più condivise a livello di massa, radicali e
giustizialisti (peronisti) sono fuori gioco, mentre le formazioni di
centrosinistra sono state travolte dalla loro subalternità ai due maggiori
raggruppamenti responsabili della bancarotta dello Stato e della svendita delle
risorse nazionali. Quanto ai sindacati, la CGT peronista gode dello stesso
discredito dei politicanti, mentre la CTA e la CCC, nate come confederazioni
alternative e combattive (la seconda è di derivazione maoista) hanno scelto il
compromesso con De la Rúa prima, poi con i suoi effimeri successori, e ora con
Duhalde, in cambio dell’elemosina di un pugno di “piani lavoro”. I due
dirigenti del settore disoccupati della CTA D’Elia, e della CC Alderete hanno
finito per rompere il fronte dei piqueteros.
Finora tuttavia non si è riusciti a trovare una forma di
unità d’azione della sinistra che consenta di rendere visibile un’alternativa
politica (tanto più necessaria se le elezioni fossero davvero anticipate come
inizialmente è stato chiesto nelle manifestazioni di piazza).
I più lucidi propongono una strutturazione del movimento,
fin qui gestito in forma assembleare, attraverso l’elezione di delegati dei
comitati di quartiere. Non sarebbero certo ancora i soviet, ma probabilmente si
ridurrebbero le possibilità di manipolazioni da parte di chi controlla i
microfoni nelle grandi assemblee dei piqueteros, o in quella domenicale
del Parque Centenario (che per giunta riunisce solo una parte dei
militanti di Buenos Aires ed è ben lontana dall’apparire e soprattutto dal
poter essere veramente una direzione riconosciuta a livello nazionale).
Si tratta di una strada lunga e complessa, che va imboccata
quanto prima: Duhalde ha già approfittato di qualche flessione della
partecipazione alle troppo ripetitive assemblee settimanali e ai cacerolazos
per organizzare qualche pullman di “sostenitori” reclutati nella feccia
della provincia che lo aveva eletto governatore in ottobre.
E, nell’ombra, anche se screditatissimi, perché tutti
hanno capito che il saccheggio dell’Argentina è stato avviato proprio da
loro, ma non privi di mezzi potentissimi (forniti anche dalla nostra industria
bellica!) rimangono i generali che hanno cominciato la loro carriera sterminando
la parte migliore della gioventù del paese.
2. Quando il 23 marzo 1976 le Forze armate destituirono
la presidente Isabelita Perón con un colpo di Stato “incruento” (nel senso
che al governo uscente non fu torto un capello, mentre in realtà cominciava
subito lo sterminio della sinistra vera o presunta), il debito estero argentino
raggiungeva appena gli 8 miliardi di dollari. Quando agli inizi del 1983, come
contraccolpo dell’insensata guerra delle Malvine (costata cara a un esercito
validissimo contro i civili inermi e inetto contro un avversario esterno), il
regime militare dovette lasciare il posto ai civili, il debito era salito a 44
miliardi di dollari.
La logica di quella politica era in primo luogo l’arricchimento
personale dei membri della casta militare grazie alle commissioni pagate dalle
grandi banche internazionali, ma anche un rilevante aumento delle importazioni
(specialmente l’acquisto di armi sofisticate). Inoltre la politica di apertura
economica agli investimenti stranieri e l’indebitamento consentivano alla
dittatura militare di migliorare la sua immagine internazionale presso i
principali paesi industrializzati, che chiudevano volentieri gli occhi di fronte
al regime di terrore instaurato dal regime, un così buon cliente. Gli Stati
Uniti poi erano molto soddisfatti della fine del nazionalismo argentino, e
soprattutto dei tentativi di decollo di un’industria nazionale iniziati sotto
il regime peronista.
A dirigere l’economia argentina, tuttavia, dopo il 1983
rimasero gli stessi uomini che l’avevano guidata per conto dei militari: Juan
Martinez de Hoz, Guillermo Klein, e l’eterno Domingo Cavallo (che sotto la
giunta militare era presidente del Banco Central), che rappresentavano un’ottima
garanzia per i creditori.
Ad esempio Guillermo Walter Klein, segretario di Stato per il
coordinamento e la programmazione economica sotto i militari, nel 1976
rappresentava una banca svedese, la Scandinavian Enskilda Bank, qualche anno
dopo ben 22 banche; durante la guerra con la Gran Bretagna per le Malvine era
stato designato procuratore a Buenos Aires anche della società anonima
britannica Barclays Bank Limited, tra i principali creditori del debito pubblico
e privato argentino, e rimase rappresentante delle stesse banche sotto il
governo del radicale Alfonsín. La biografia di Cavallo è altrettanto
significativa, ma più nota: vogliamo tuttavia ricordare le tre lauree honoris
causa concessegli da prestigiose università italiane, ultima quella di
Bologna, che sottolineava l’esemplare saldatura tra teoria economica e
capacità di guidare un paese.
Grazie a questa stretta integrazione tra governi argentini e
multinazionali, rappresentata ottimamente dalla nomina a ministri dell’economia
di rappresentanti dei creditori, il debito si è ulteriormente accresciuto negli
anni successivi, senza che la maggior parte di nuovi crediti entrassero in
Argentina. Come nel caso dell’Egitto del XIX secolo descritto da Rosa
Luxemburg, a un certo punto ogni nuovo credito serviva esclusivamente a
rimborsare i creditori, anche se questi si erano ripagati ad usura di quel che
avevano dato. Nel 2000 il debito era infatti arrivato a circa 160 miliardi di
dollari (venti volte quello che il paese doveva all’inizio della dittatura),
mentre il servizio pagato (ammortamento più interessi) aveva raggiunto ben 212
miliardi.
Uno dei meccanismi avviati sotto la dittatura e poi
proseguiti e accelerati dai governi radicali o peronisti è stata l’assunzione
del debito privato dei capitalisti da parte dello Stato, nonostante molti di
questi indebitamenti nascondessero una fuga di capitali all’estero, che la
stessa Banca Mondiale valutava intorno ai 21 miliardi di dollari per il solo
periodo 1980-1982. Anche le imprese pubbliche, alcune fiorentissime, erano state
spinte dalla dittatura a indebitarsi. Ad esempio YPF (Yacimentos Petrolíferos
Fiscales, l’azienda di Stato per il petrolio) fu costretta a indebitarsi
nonostante avesse risorse sufficienti per il proprio sviluppo. Nel marzo 1976 il
suo debito era fisiologico, 372 milioni di dollari, alla fine della dittatura si
era moltiplicato per 16, raggiungendo (6 miliardi di dollari). Inoltre era stata
costretta a far raffinare il suo petrolio da Esso e Shell, la produttività era
aumentata dell’80% ma il personale era stato ridotto da 47.000 a 34.000
lavoratori. Nel 1982 l’intero attivo della società era pignorato per debiti.
Le privatizzazioni avviate sotto Alfonsin e proseguite con
maggiore slancio sotto Menem, nel 1990-1992, hanno liquidato gran parte del
patrimonio nazionale, con una perdita valutata a 60 miliardi di dollari. Menem
prese a pretesto l’indebitamento delle aziende pubbliche argentine per
giustificarne la vendita, ma la cattiva situazione finanziaria era dovuta alla
politica di indebitamento forzato imposto dalle autorità economiche della
dittatura. Menem aveva affidato la valutazione del valore di YPF alla banca
nordamericana Merril Lynch, che ridusse deliberatamente al 30% le riserve
petrolifere disponibili, per sminuire il valore di YPF. Una volta realizzata la
privatizzazione, la parte delle riserve occultate riemerse nei conti. Gli
operatori finanziari che avevano comprato a basso prezzo le azioni dell’impresa
riuscirono a ricavare guadagni favolosi grazie all’aumento della quotazione in
borsa delle azioni YPF. Un’operazione del genere consente di menare vanto
ideologicamente della superiorità del privato sul pubblico. La stessa banca è
stata incaricata dal presidente brasiliano Fernando Henrique Cardoso di
valutare, nel 1997, la principale società pubblica brasiliana, la Vale do Río
Doce, una società mineraria, ed è stata accusata da numerosi parlamentari
brasiliani di avere sottovalutato del 75% le riserve di minerali dell’impresa.
A parte YPF (venduta alla multinazionale petrolifera spagnola
Repsol nel 1999), è stata liquidata un’altra perla argentina: si tratta dell’impresa
Aerolineas Argentinas (venduta alla compagnia aerea spagnola Iberia). I Boeing
707 che facevano parte della sua flotta sono stati venduti simbolicamente a 1
dollaro (1,54 $, per la precisione!). A qualche anno di distanza, sono ancora in
servizio nelle linee della compagnia privatizzata, ma Aerolineas deve pagare un
“leasing” per servirsene. Nel 2001 Aerolineas Argentinas, proprietà di
Iberia, era sull’orlo del fallimento per colpa dei nuovi proprietari. La
privatizzazione di Aerolineas è un caso paradigmatico.
Un altro scandalo: i prestiti per cifre favolose contratti
con i banchieri statunitensi o europei sono stati immediatamente ricollocati
come depositi nelle loro stesse banche o in altre competitive. L’83% di tali
riserve è stato depositato nel 1979 in istituti bancari fuori dal paese. Le
riserve sono aumentate fino a 10.138 milioni di dollari e i depositi nelle
banche estere hanno ragg
iunto gli 8.410 milioni di dollari.
Un esempio di connivenza tra una banca privata statunitense e
la dittatura argentina: tra il luglio e il novembre del 1976, la Chase Manhattan
Bank ha ricevuto mensilmente depositi di 22 milioni di dollari (cifre che poi
sono aumentate ulteriormente), ricavando un interesse del 5,5% in quel periodo
e, allo stesso ritmo, la Banca Centrale argentina ha acceso prestiti presso la
stessa banca degli Stati Uniti, la Chase Manhattan Bank, a un interesse dell’8,75%.
Sinteticamente: il contribuente argentino paga il debito
contratto dalle filiali delle multinazionali con le rispettive case madri o con
le banche internazionali. Legittimo il sospetto che le multinazionali in
questione abbiano creato un debito delle rispettive filiali argentine attraverso
un semplice gioco di contratti. I poteri pubblici argentini non dispongono di
alcuno strumento di controllo, e anche quando li hanno avuti si sono guardati
bene dall’usarli.
E il Fondo Monetario Internazionale (sotto la dittatura e
dopo, a coordinarne l’attività c’era lo stesso uomo, di origine italiana,
Dante Simone)? E la Banca Mondiale? Hanno mai esercitato il minimo controllo
sulla destinazione dei crediti? Ovviamente no, tanto più quando questi non
entravano neppure in Argentina, ma tornavano, moltiplicati, al punto di
partenza.
Allora FMI e BM sono organizzazioni criminali, o perlomeno
complici di crimini? È difficile sostenere il contrario. Ma non sono
organizzazioni dell’ONU? Certo, ma come stupirsene? L’ONU nel corso di più
di mezzo secolo ha avallato crimini terribili compiuti dagli Stati imperialisti
o loro complici, e abbandonato popoli come quello palestinese o quello curdo.
Piuttosto sarebbe meglio ricordare che a prendere le
decisioni nel FMI e nella BM non sono misteriosi appartenenti a una specie di
“Banda Bassotti”, ma i rispettabili rappresentanti dei sette paesi che
detengono la maggioranza del pacchetto azionario e quindi a norma di statuto
anche dei voti: Stati Uniti, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Canada
e ... Italia.
Lo ricordiamo perché troppi compagni dimenticano le nostre
responsabilità nei crimini economici commessi dall’imperialismo (appunto non
solo nordamericano) in gran parte del mondo, e che generano crisi sociali e
quindi correnti migratorie. E oltre a queste responsabilità collettive, assunte
dai nostri governi (anche di centrosinistra), ci sono quelle di singoli
capitalisti italiani.
Abbiamo parlato delle incursioni di imprese spagnole in
Argentina, ma subito dopo queste (e prima di quelle degli Stati Uniti, vengono
tante imprese italiane: dalla Telecom alla Todini a Benetton (che si è comprato
per poco gran parte della Patagonia). Non lo dimentichiamo mai, ed anzi mettiamo
nel conto dei nostri nemici di classe anche la distruzione dell’economia di un
paese che aveva raggiunto una grande prosperità e che aveva accolto milioni e
milioni di italiani. [1]
Luis Zamora
Luis Zamora ha militato in diverse formazioni della
sinistra rivoluzionaria trotskista. Era stato eletto deputato nel 1989
in Izquierda Unida, ed era stato uno dei principali dirigenti del MAS,
ma nel 1997 aveva presentato un severo bilancio della sua esperienza e
per anni era parso lontano da ogni impegno politico organizzato. Nel
giugno 2001, con non più di una cinquantina di compagni, aveva promosso
una formazione dal nome Autodeterminación y libertad, che, senza
nessun appoggio di partiti, senza una sede, aveva raccolto in poco tempo
le firme necessarie per presentare una lista nel collegio di Buenos
Aires; pur boicottata da gran parte della sinistra settaria, essa ha
avuto un certo successo nelle elezioni di ottobre, ottenendo 140.000
voti, pari a quasi l’11% dei votanti in quel collegio, e due deputati
(Zamora e José “Cuero” Roselli).
Luis Zamora oggi è bene accolto nei cacerolazos e
nelle assemblee dei piqueteros, che pure ripetono unanimemente lo
slogan “Que se vayan todos” (“se ne vadano tutti”,
sottintendendo deputati e senatori, ma anche i membri della corrotta
Corte suprema). Evidentemente per lui fanno eccezione, anche se qualcuno
obietta che potrebbe aumentare la sua popolarità e al tempo stesso
accentuare il discredito del Congresso offrendo le proprie dimissioni al
movimento. |
[1] Le schede e le tabelle dell’articolo sono tratte da un
saggio di Eric Toussaint finora inedito in Italia, Argentina: ¿El eslabón
más débil de la cadena mundial de la deuda?, dal quale l’Autore ha
tratto anche la quasi totalità dei dati della seconda parte dell’articolo.