Due paradossi
La teoria è logicamente incoerente se applicata a un modo di
produzione capitalistico. In un sistema che si trova in equilibrio
concorrenziale, le merci si scambiano a prezzi di produzione che
garantiscono un saggio di profitto uniforme. Per determinare i prezzi di
produzione, dunque, non basta conoscere la tecnica produttiva. È necessario
conoscere anche il saggio di profitto o quello di salario.
In generale, se il saggio di profitto è positivo, i prezzi
di produzione non coincidono coi valori-lavoro. Inoltre nessuno dei rapporti tra
variabili aggregate, misurate in valori-lavoro, coincide con il rapporto tra le
stesse variabili misurate in prezzi di produzione. In particolare il saggio di
plusvalore non coincide col rapporto profitti-salari. I prezzi di produzione
coincidono coi valori-lavoro solo nel caso in cui saggio di profitto è zero.
Marx riteneva che esistesse un algoritmo matematico capace di
trasformare i valori-lavoro in prezzi di produzione in modo tale che il saggio
di plusvalore aggregato restasse invariato nel passaggio dalla misura in
valori-lavoro a quella in prezzi di produzione, così che il saggio di
plusvalore fosse comunque uguale al rapporto profitti-salari. In tal modo poteva
continuare a trattare il profitto come evidenza immediata del pluslavoro. Ma è
stato dimostrato che, quale che sia l’algoritmo usato nella trasformazione, si
ottiene sempre un risultato paradossale: in un’economia in cui si producono
diverse merci il saggio di sfruttamento resta invariato nella trasformazione dei
valori-lavoro in prezzi se e solo se non c’è sfruttamento.
Né si può ripiegare sulla tesi secondo cui non è
necessario che il saggio di sfruttamento in valori-lavoro sia uguale a quello in
prezzi. Infatti, poniamo che il secondo sia superiore al primo. È possibile
misurare il monte salari in modo da farlo coincidere con il valore della forza
lavoro. Ma allora il plusvalore in prezzi sarebbe superiore al plusvalore in
valori-lavoro. Ne deriva che esisterebbe una parte di profitto che non è stata
prodotta dal pluslavoro. Così risulterebbe che possa esserci profitto senza
sfruttamento! Comunque la si rigiri, è evidente che la teoria del valore-lavoro
fa un pessimo servizio alla teoria dello sfruttamento.
La ragione di questa difficoltà è che i valori-lavoro
esprimono rapporti puramente tecnici e astraggono dalle relazioni tra classi
sociali. Come ho già osservato, è sufficiente conoscere la tecnica produttiva
per determinare i valori-lavoro. Non è necessario sapere nulla sull’assetto
istituzionale che regola la produzione, sulle classi sociali che si confrontano
nel processo produttivo, sul modo in cui le classi si spartiscono il reddito.
Non è necessario nemmeno sapere che si tratta di una economia capitalistica, di
un’economia in cui una classe guadagna un profitto e un’altra un salario.
Contrariamente ai prezzi di produzione, i valori-lavoro non variano al variare
dei rapporti tra classi sociali, ad esempio al variare della distribuzione del
reddito. Il valore è un rapporto sociale, secondo Marx (1964, I, p. 106n), “un
rapporto tra persone [...] celato nel guscio di un rapporto tra cose”. Dunque
dovrebbe esprimere i rapporti sociali e variare col loro cambiamento. Invece i
valori-lavoro sono insensibili ai rapporti sociali. Marx appare consapevole di
questa proprietà dei valori-lavoro, del fatto che la loro definizione
presuppone l’astrazione dall’assetto sociale e istituzionale del
capitalismo. Infatti, proprio nel capitolo in cui costruisce la teoria del
valore-lavoro, dichiara esplicitamente di astrarre dal salario: “La categoria
del salario del lavoro non esiste in genere ancora, a questo grado della nostra
esposizione” (Marx, 1964, I, p. 76n). E in una lettera a Engels del 13 gennaio
1859 dichiara altrettanto esplicitamente che astrae dal capitale: “questi
fascicoli non contengono ancora nulla sul capitale, ma soltanto due
capitoli: 1) La merce, 2) Il denaro” (Marx, 1969, p. 219). “Questi
fascicoli” sono quelli di Per la critica dell’economia politica, e
contengono la prima versione della teoria del valore che verrà poi ripresentata
nel primo capitolo del Capitale.
Emerge qui un paradosso metodologico che è ancora più grave
di quello analitico che ho mostrato sopra, del quale peraltro costituisce la
causa. Per fondare una teoria dello sfruttamento che è una teoria delle
relazioni sociali, si usa una teoria del valore che astrae dalle relazioni
sociali (Screpanti, 1993).
Come giustificare gli assiomi marxiani?
Sia che il saggio di sfruttamento venga misurato in
valori-lavoro, sia che venga misurato in prezzi, resta vero che esiste
sfruttamento perché la produttività del lavoro è maggiore del salario.
Questo, in poche parole, dice la teoria marxiana: il salario è minore della
produttività del lavoro. Ma dal punto di vista “filosofico” l’assioma
della sostanza del valore vuole dire molto di più. Afferma, tra l’altro, che
il contributo produttivo del lavoro coincide con la produttività media del
lavoro. Quindi sostiene che solo il lavoro produce plusvalore. Ora, un assioma
è vero per assunzione. Si suppone che la verità che afferma sia evidente e che
non abbia bisogno di essere dimostrata. Un assioma rappresenta un presupposto
metafisico sulla base del quale altre proposizioni possono essere dimostrate
vere. Dunque, è proprio così evidente l’assioma della sostanza del valore?
Perché il contributo del lavoro dovrebbe coincidere con la
produttività media? Qualcuno potrebbe preferire postulare che esso
coincida con la produttività marginale, cioè con quella del meno
produttivo dei lavoratori occupati. E sulla base di tale nuovo assioma sarebbe
facile dimostrare che dei lavoratori remunerati con un salario uguale alla
produttività marginale del lavoro non risulterebbero essere sfruttati, anche se
il profitto fosse positivo. In altri termini l’“evidenza” dell’assioma
marxiano deve essere corroborata con qualche argomento convincente. Se un
assioma non ha bisogno di essere dimostrato, deve però comunque essere “giustificato”.
Postulare che il contributo produttivo del lavoro coincide con la produttività
media equivale ad assumere che gli altri requisiti produttivi, i beni capitali e
le risorse naturali, non danno alcun contributo. Come può essere giustificata
una tale tesi?
Una strategia spesso seguita per rispondere a questa domanda
è basata sull’osservazione che il capitale stesso è prodotto dal lavoro,
cosicché il suo contributo produttivo si risolve in un contributo del lavoro
(Elster, 1978, pp. 10-11). Tale strategia però può solo servire per sostenere
che la remunerazione del contributo del capitale, supponendo che un tale
contributo esista, deve essere pagata ai lavoratori. Non può servire a
dimostrare che il capitale non dà contributi produttivi. Ma è evidente che
quella remunerazione dovrebbe affluire ai lavoratori che legittimamente
possiedono il capitale, ad esempio perché lo hanno accumulato effettuando dei
risparmi, non a quelli che lo hanno prodotto (Van Parijs, 1995). I lavoratori
che posseggono del capitale sarebbero dei capitalisti e verrebbero remunerati
con un plusvalore corrispondente al suo contributo produttivo. Nel qual caso il
salario non potrebbe coincidere con la produttività media del lavoro.
Un’altra strategia mira a giustificare l’assioma facendo
ricorso all’argomento secondo cui il contributo produttivo del capitale non
dovrebbe essere pagato ai capitalisti, anche se la sua proprietà fosse stata
acquisita solo con il lavoro e il risparmio. Si ammette l’esistenza di un
contributo produttivo del capitale in termini di produttività reale.
Tuttavia il fatto che il capitale non sia remunerato implica che in termini
di valore solo il lavoro dà un contributo produttivo. Ma perché il
contributo del capitale in termini reali non dovrebbe essere remunerato? La
ragione sarebbe che i beni capitali sono stati prodotti per mezzo di risorse
naturali che, presumibilmente in forza di un qualche diritto naturale,
appartengono all’umanità in quanto tale e non possono essere appropriate
privatamente (Cohen, 1983, pp. 316-317; 1986, pp. 87-90). Ora, le risorse
naturali dovrebbero includere i talenti naturali. È ammissibile che gli
individui si approprino privatamente delle proprie dotazioni personali? Se la
risposta a questa domanda è positiva, allora non si può sfuggire alla
conclusione che i beni capitali prodotti mediante l’uso dei talenti personali
sono posseduti legittimamente e quindi devono essere remunerati. Se la risposta
è negativa, allora si deve concludere che neanche il lavoro vivo ha diritto di
essere pagato secondo il proprio contributo produttivo, dal momento che questo
consiste in un flusso di servizi scaturenti da dotazioni di risorse personali.
Marx ad ogni modo ha messo bene in chiaro che anche la terra
e il capitale contribuiscono alla produzione delle merci [1]. Ma ha insistito
sull’idea che solo il lavoro produce nuovo valore, solo esso è sostanza
di valore. La sua strategia per giustificare l’assioma della sostanza del
valore fu molto semplice: postulò l’assioma della grandezza del valore.
Ovviamente, se è la creazione di valori-lavoro che conta, piuttosto che la
produzione di beni fisici, e se la grandezza del valore coincide con una
quantità di lavoro contenuto, l’assioma della sostanza del valore sembra
piuttosto pacifico: poiché la produttività del lavoro è uguale a 1, cioè il
valore prodotto con un’ora di lavoro equivale a un’ora di lavoro, sembra
evidente che solo il lavoro può aver prodotto quel valore. Ma allora l’attenzione
si sposta sull’assioma della grandezza del valore: qual è l’evidenza che
tale grandezza coincide col lavoro contenuto? Dopo tutto una misura è una
convenzione.
Marx in realtà riteneva che la misura in lavoro contenuto
fosse qualcosa di più di una semplice convenzione. Pensava che fosse l’unica
misura in grado di esprimere la sostanza del valore, di esprimerla in modo tale
da spingere l’analisi dello sfruttamento al di là delle apparenze dei prezzi.
Ma è chiaro che quella in lavoro contenuto può essere intesa come la misura
autentica della grandezza del valore, e non come una convenzione contabile o un
espediente euristico, solo se il lavoro è sostanza del valore. Così l’assioma
della grandezza del valore acquista rilevanza ontologica proprio in quanto è
sostenuto da quello della sostanza del valore.
In altri termini i due assiomi si sostengono l’un l’altro.
Si può credere che la misura della grandezza del valore in lavoro contenuto
rivela la sostanza del valore poiché si assume che il lavoro è “sostanza
valorificante”. D’altra parte sembra che si possa far passare quest’assunzione
come un semplice riconoscimento dell’evidenza perché si postula che la
grandezza del valore sia misurata in lavoro contenuto. Ha senso tutto ciò? Il
punto è che, se la misura in valori-lavoro avesse senso, sia pure solo a
livello aggregato, le apparenze degli scambi effettuati in base ai prezzi non
dovrebbero contraddire la sostanza del valore-lavoro, anche se contribuissero ad
offuscarla. Invece, come ho mostrato nel paragrafo precedente, la contraddicono.
Dunque la teoria è basata su due assiomi che si sostengono l’un l’altro,
senza però che sia possibile giustificare né l’uno né l’altro. Sembra
proprio non avere torto Sraffa, quando parla di “mistica del valore”.
2. Sfruttamento senza valori-lavoro Un controfattuale di classe
Ritengo che i lavoratori siano in grado di concepire un’alternativa
ammissibile al capitalismo che giudicano migliore di esso.
Ammissibile, nel senso che è realizzabile sulla base della dotazione delle
risorse e delle tecniche in uso nell’economia capitalistica di riferimento, e
solo cambiandone le istituzioni e la distribuzione del reddito. Migliore, nel
senso che i lavoratori vivrebbero meglio in essa che nel capitalismo.
Chiamerò “Utopia” la migliore di tutte le alternative
ammissibili. [2] I lavoratori, per definizione, si appropriano dell’intero
prodotto netto in Utopia, cosicché il loro reddito medio coincide con la
produttività media del lavoro. Potrebbero così pensare che, se possono
aumentare il proprio reddito passando in Utopia e continuando a produrre come
prima e con le stesse tecniche di prima, allora non è per ragioni tecniche che
guadagnano meno della propria produttività nel capitalismo, ma solo a causa
dell’assetto istituzionale. Potrebbero convincersi che, se possono
appropriarsi di tutto il prodotto solo cambiando le istituzioni ed abolendo la
classe dei capitalisti, vuol dire che non hanno bisogno dei capitalisti per
produrre e quindi che tutto ciò che è prodotto lo producono loro. In altri
termini, potrebbero pensare che il loro contributo produttivo coincide con ciò
che guadagnano e producono in Utopia, visto che ciò che producono lì lo
possono produrre ovunque, date le tecniche. Poi, confrontando il mondo
capitalistico con Utopia i lavoratori si accorgono che nel primo essi stanno
peggio perché il salario è più basso della propria produttività, e si
sentono per ciò sfruttati nel capitalismo.
Il riferimento controfattuale [3] all’Utopia sembra un po’
intellettualistico e fantasioso, sembra allontanarci da quel sano richiamo al
mondo concreto a cui ci ha abituato il primo capitolo de Il capitale. In
realtà il ragionamento controfattuale è esperienza quotidiana di tutti noi.
Ricorriamo ai controfattuali ogni volta che ci domandiamo se il prezzo di un
prodotto non è troppo alto rispetto a uno che consideriamo, sia pur vagamente,
come “equo”, o una pensione o un salario non sono troppo bassi. Ricorre a
ragionamenti controfattuali l’operaio che valuta la misura dello sfruttamento
e del benessere sociale dal tipo di automobili che ha il padrone e dall’inutilità
della sua vita: sarei meno sfruttato se il valore di quella Ferrari si
risolvesse in salari, e staremmo tutti molto meglio se quel porco volesse
lavorare invece di trastullarsi col gioco in borsa.
La teoria che presento qui non è altro che una
formalizzazione di questo tipo di argomentazione. L’idea dello
sfruttamento implica un giudizio sulla destinazione del prodotto del lavoro. Il
ragionamento controfattuale rinvia alla convinzione che una destinazione
diversa da quella vigente nel capitalismo è ammissibile. La persuasione
che è possibile migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, senza dover
necessariamente cambiare le tecniche in uso, è tutt’uno con quella secondo
cui il profitto non remunera il contributo produttivo di alcunché. Sostengo
che, a dispetto di ogni egemonia ideologica del capitale, queste idee,
convinzioni, persuasioni sono componenti vitali del senso comune che esprime la
condizione operaia contemporanea.
L’assunzione di un punto di vista di classe, piuttosto che
di uno basato su una metafisica universale, orienta la filosofia marxista verso
una rifondazione non essenzialista delle teorie del valore e dello sfruttamento.
Nel caso della teoria del valore, il punto di vista di classe
consente di partire da assiomi che non assumono il significato di proposizioni
relative all’essenza di qualcosa. Il problema di quale sia la sostanza
del valore, o di chi lo “crei”, non si pone nemmeno. Infatti si tratta di
prendere sul serio la tesi marxiana secondo cui il valore è una relazione
sociale - prenderla sul serio, cioè, intendendola nel senso che il valore è soltanto
una relazione sociale, che non c’è nessuna essenza dietro le relazioni
sociali. Ci sono solo dei rapporti di produzione e di mercato, di lotta, di
potere e di divisione del lavoro, attraverso cui gli agenti sociali producono e
si spartiscono i beni. Questi rapporti non stanno dietro le relazioni
sociali: essi sono le relazioni sociali.
Inoltre l’assunzione di un punto di vista di classe
fornirà una giustificazione sensata all’assioma che fonda la teoria dello
sfruttamento. Non sarà una giustificazione del tipo richiesto dall’assioma
della sostanza del valore. D’altronde non c’è bisogno di far coincidere il
plusvalore col pluslavoro per sostenere la tesi dello sfruttamento. Né sarà
una giustificazione empirista del tipo che sostiene che la cosa è evidente alla
luce di una semplice osservazione della realtà. Una giustificazione del genere
non è convincente perché non c’è dato empirico che possa essere raccolto e
interpretato senza far riferimento a una teoria e a un punto di vista. Non sarà
infine una giustificazione di tipo etico, del tipo cioè che presuppone una
universale filosofia della giustizia. Un tale approccio lo rifiuto perché mi
sembra che nessuna onesta filosofia della giustizia può essere formulata
ponendosi al “di sopra delle parti”.
[1] Data una
tecnica produttiva che usa terra, lavoro e mezzi di produzione secondo
determinati coefficienti tecnici, non è possibile ottenere nessuna merce senza
usare terra e capitale. Dunque questi requisiti produttivi sono necessari all’attività
lavorativa e contribuiscono alla produzione. Il problema è: quanto
contribuiscono alla produzione del prodotto netto? La distinzione del prodotto
netto da quello lordo rinvia a un sistema di contabilità e quindi presuppone
una teoria del valore: il prodotto netto è il valore che nel processo
produttivo viene aggiunto a quello delle anticipazioni tecnicamente necessarie.
L’idea marxiana che il capitale contribuisca alla produzione delle merci non
ha niente a che vedere con quella marginalista, secondo cui esso dà un
contributo produttivo alla creazione del valore aggiunto.
[2] Non è la migliore di tutte le alternative possibili. L’ammissibilità,
come l’ho definita qui, implica che le tecniche siano le stesse che vengono
usate nell’economia capitalistica di riferimento. Va da se che in un mondo
governato dai lavoratori cambierebbero radicalmente sia il modo di produrre che
le cose da produrre. Ma la definizione di un’alternativa di questo tipo non è
necessaria per sostenere il ragionamento con cui intendo giustificare la tesi
dello sfruttamento.
[3] Un approccio del genere è stato sviluppato,
tra gli altri, da Roemer (1982), ma in una direzione sostanzialmente diversa da
quella seguita qui. Roemer, ad esempio, dà molta importanza alla distribuzione
dei diritti di proprietà, che io invece ignoro del tutto. Per delle valutazioni
critiche della teoria di Roemer vedi Petri (1989) e Reiman (1989).
Per quanto è a mia conoscenza, il primo a proporre un’interpretazione
della teoria marxiana del valore-lavoro e dello sfruttamento in termini
controfattuali fu Croce (1927), il quale però aveva la pretesa, secondo me
erronea, che Marx stesso ragionasse in quei termini. Anche Bellofiore (2000)
propone un uso controfattuale della teoria del valore-lavoro pretendendo di
attribuire tale uso a Marx. Un interessante approccio controfattuale proposto da
Petri (1989, p. 233) mostra che il pluslavoro si risolve in profitti solo per
motivi istituzionali e non per motivi tecnici.