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Per la critica del capitalismo

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Ernesto Screpanti
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Professore, Università di Siena

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Valore e sfruttamento: un approccio controfattuale

Ernesto Screpanti

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Due paradossi

La teoria è logicamente incoerente se applicata a un modo di produzione capitalistico. In un sistema che si trova in equilibrio concorrenziale, le merci si scambiano a prezzi di produzione che garantiscono un saggio di profitto uniforme. Per determinare i prezzi di produzione, dunque, non basta conoscere la tecnica produttiva. È necessario conoscere anche il saggio di profitto o quello di salario.

In generale, se il saggio di profitto è positivo, i prezzi di produzione non coincidono coi valori-lavoro. Inoltre nessuno dei rapporti tra variabili aggregate, misurate in valori-lavoro, coincide con il rapporto tra le stesse variabili misurate in prezzi di produzione. In particolare il saggio di plusvalore non coincide col rapporto profitti-salari. I prezzi di produzione coincidono coi valori-lavoro solo nel caso in cui saggio di profitto è zero.

Marx riteneva che esistesse un algoritmo matematico capace di trasformare i valori-lavoro in prezzi di produzione in modo tale che il saggio di plusvalore aggregato restasse invariato nel passaggio dalla misura in valori-lavoro a quella in prezzi di produzione, così che il saggio di plusvalore fosse comunque uguale al rapporto profitti-salari. In tal modo poteva continuare a trattare il profitto come evidenza immediata del pluslavoro. Ma è stato dimostrato che, quale che sia l’algoritmo usato nella trasformazione, si ottiene sempre un risultato paradossale: in un’economia in cui si producono diverse merci il saggio di sfruttamento resta invariato nella trasformazione dei valori-lavoro in prezzi se e solo se non c’è sfruttamento.

Né si può ripiegare sulla tesi secondo cui non è necessario che il saggio di sfruttamento in valori-lavoro sia uguale a quello in prezzi. Infatti, poniamo che il secondo sia superiore al primo. È possibile misurare il monte salari in modo da farlo coincidere con il valore della forza lavoro. Ma allora il plusvalore in prezzi sarebbe superiore al plusvalore in valori-lavoro. Ne deriva che esisterebbe una parte di profitto che non è stata prodotta dal pluslavoro. Così risulterebbe che possa esserci profitto senza sfruttamento! Comunque la si rigiri, è evidente che la teoria del valore-lavoro fa un pessimo servizio alla teoria dello sfruttamento.

La ragione di questa difficoltà è che i valori-lavoro esprimono rapporti puramente tecnici e astraggono dalle relazioni tra classi sociali. Come ho già osservato, è sufficiente conoscere la tecnica produttiva per determinare i valori-lavoro. Non è necessario sapere nulla sull’assetto istituzionale che regola la produzione, sulle classi sociali che si confrontano nel processo produttivo, sul modo in cui le classi si spartiscono il reddito. Non è necessario nemmeno sapere che si tratta di una economia capitalistica, di un’economia in cui una classe guadagna un profitto e un’altra un salario. Contrariamente ai prezzi di produzione, i valori-lavoro non variano al variare dei rapporti tra classi sociali, ad esempio al variare della distribuzione del reddito. Il valore è un rapporto sociale, secondo Marx (1964, I, p. 106n), “un rapporto tra persone [...] celato nel guscio di un rapporto tra cose”. Dunque dovrebbe esprimere i rapporti sociali e variare col loro cambiamento. Invece i valori-lavoro sono insensibili ai rapporti sociali. Marx appare consapevole di questa proprietà dei valori-lavoro, del fatto che la loro definizione presuppone l’astrazione dall’assetto sociale e istituzionale del capitalismo. Infatti, proprio nel capitolo in cui costruisce la teoria del valore-lavoro, dichiara esplicitamente di astrarre dal salario: “La categoria del salario del lavoro non esiste in genere ancora, a questo grado della nostra esposizione” (Marx, 1964, I, p. 76n). E in una lettera a Engels del 13 gennaio 1859 dichiara altrettanto esplicitamente che astrae dal capitale: “questi fascicoli non contengono ancora nulla sul capitale, ma soltanto due capitoli: 1) La merce, 2) Il denaro” (Marx, 1969, p. 219). “Questi fascicoli” sono quelli di Per la critica dell’economia politica, e contengono la prima versione della teoria del valore che verrà poi ripresentata nel primo capitolo del Capitale.

Emerge qui un paradosso metodologico che è ancora più grave di quello analitico che ho mostrato sopra, del quale peraltro costituisce la causa. Per fondare una teoria dello sfruttamento che è una teoria delle relazioni sociali, si usa una teoria del valore che astrae dalle relazioni sociali (Screpanti, 1993).

Come giustificare gli assiomi marxiani?

Sia che il saggio di sfruttamento venga misurato in valori-lavoro, sia che venga misurato in prezzi, resta vero che esiste sfruttamento perché la produttività del lavoro è maggiore del salario. Questo, in poche parole, dice la teoria marxiana: il salario è minore della produttività del lavoro. Ma dal punto di vista “filosofico” l’assioma della sostanza del valore vuole dire molto di più. Afferma, tra l’altro, che il contributo produttivo del lavoro coincide con la produttività media del lavoro. Quindi sostiene che solo il lavoro produce plusvalore. Ora, un assioma è vero per assunzione. Si suppone che la verità che afferma sia evidente e che non abbia bisogno di essere dimostrata. Un assioma rappresenta un presupposto metafisico sulla base del quale altre proposizioni possono essere dimostrate vere. Dunque, è proprio così evidente l’assioma della sostanza del valore?

Perché il contributo del lavoro dovrebbe coincidere con la produttività media? Qualcuno potrebbe preferire postulare che esso coincida con la produttività marginale, cioè con quella del meno produttivo dei lavoratori occupati. E sulla base di tale nuovo assioma sarebbe facile dimostrare che dei lavoratori remunerati con un salario uguale alla produttività marginale del lavoro non risulterebbero essere sfruttati, anche se il profitto fosse positivo. In altri termini l’“evidenza” dell’assioma marxiano deve essere corroborata con qualche argomento convincente. Se un assioma non ha bisogno di essere dimostrato, deve però comunque essere “giustificato”. Postulare che il contributo produttivo del lavoro coincide con la produttività media equivale ad assumere che gli altri requisiti produttivi, i beni capitali e le risorse naturali, non danno alcun contributo. Come può essere giustificata una tale tesi?

Una strategia spesso seguita per rispondere a questa domanda è basata sull’osservazione che il capitale stesso è prodotto dal lavoro, cosicché il suo contributo produttivo si risolve in un contributo del lavoro (Elster, 1978, pp. 10-11). Tale strategia però può solo servire per sostenere che la remunerazione del contributo del capitale, supponendo che un tale contributo esista, deve essere pagata ai lavoratori. Non può servire a dimostrare che il capitale non dà contributi produttivi. Ma è evidente che quella remunerazione dovrebbe affluire ai lavoratori che legittimamente possiedono il capitale, ad esempio perché lo hanno accumulato effettuando dei risparmi, non a quelli che lo hanno prodotto (Van Parijs, 1995). I lavoratori che posseggono del capitale sarebbero dei capitalisti e verrebbero remunerati con un plusvalore corrispondente al suo contributo produttivo. Nel qual caso il salario non potrebbe coincidere con la produttività media del lavoro.

Un’altra strategia mira a giustificare l’assioma facendo ricorso all’argomento secondo cui il contributo produttivo del capitale non dovrebbe essere pagato ai capitalisti, anche se la sua proprietà fosse stata acquisita solo con il lavoro e il risparmio. Si ammette l’esistenza di un contributo produttivo del capitale in termini di produttività reale. Tuttavia il fatto che il capitale non sia remunerato implica che in termini di valore solo il lavoro dà un contributo produttivo. Ma perché il contributo del capitale in termini reali non dovrebbe essere remunerato? La ragione sarebbe che i beni capitali sono stati prodotti per mezzo di risorse naturali che, presumibilmente in forza di un qualche diritto naturale, appartengono all’umanità in quanto tale e non possono essere appropriate privatamente (Cohen, 1983, pp. 316-317; 1986, pp. 87-90). Ora, le risorse naturali dovrebbero includere i talenti naturali. È ammissibile che gli individui si approprino privatamente delle proprie dotazioni personali? Se la risposta a questa domanda è positiva, allora non si può sfuggire alla conclusione che i beni capitali prodotti mediante l’uso dei talenti personali sono posseduti legittimamente e quindi devono essere remunerati. Se la risposta è negativa, allora si deve concludere che neanche il lavoro vivo ha diritto di essere pagato secondo il proprio contributo produttivo, dal momento che questo consiste in un flusso di servizi scaturenti da dotazioni di risorse personali.

Marx ad ogni modo ha messo bene in chiaro che anche la terra e il capitale contribuiscono alla produzione delle merci [1]. Ma ha insistito sull’idea che solo il lavoro produce nuovo valore, solo esso è sostanza di valore. La sua strategia per giustificare l’assioma della sostanza del valore fu molto semplice: postulò l’assioma della grandezza del valore. Ovviamente, se è la creazione di valori-lavoro che conta, piuttosto che la produzione di beni fisici, e se la grandezza del valore coincide con una quantità di lavoro contenuto, l’assioma della sostanza del valore sembra piuttosto pacifico: poiché la produttività del lavoro è uguale a 1, cioè il valore prodotto con un’ora di lavoro equivale a un’ora di lavoro, sembra evidente che solo il lavoro può aver prodotto quel valore. Ma allora l’attenzione si sposta sull’assioma della grandezza del valore: qual è l’evidenza che tale grandezza coincide col lavoro contenuto? Dopo tutto una misura è una convenzione.

Marx in realtà riteneva che la misura in lavoro contenuto fosse qualcosa di più di una semplice convenzione. Pensava che fosse l’unica misura in grado di esprimere la sostanza del valore, di esprimerla in modo tale da spingere l’analisi dello sfruttamento al di là delle apparenze dei prezzi. Ma è chiaro che quella in lavoro contenuto può essere intesa come la misura autentica della grandezza del valore, e non come una convenzione contabile o un espediente euristico, solo se il lavoro è sostanza del valore. Così l’assioma della grandezza del valore acquista rilevanza ontologica proprio in quanto è sostenuto da quello della sostanza del valore.

In altri termini i due assiomi si sostengono l’un l’altro. Si può credere che la misura della grandezza del valore in lavoro contenuto rivela la sostanza del valore poiché si assume che il lavoro è “sostanza valorificante”. D’altra parte sembra che si possa far passare quest’assunzione come un semplice riconoscimento dell’evidenza perché si postula che la grandezza del valore sia misurata in lavoro contenuto. Ha senso tutto ciò? Il punto è che, se la misura in valori-lavoro avesse senso, sia pure solo a livello aggregato, le apparenze degli scambi effettuati in base ai prezzi non dovrebbero contraddire la sostanza del valore-lavoro, anche se contribuissero ad offuscarla. Invece, come ho mostrato nel paragrafo precedente, la contraddicono. Dunque la teoria è basata su due assiomi che si sostengono l’un l’altro, senza però che sia possibile giustificare né l’uno né l’altro. Sembra proprio non avere torto Sraffa, quando parla di “mistica del valore”.

 

2. Sfruttamento senza valori-lavoro Un controfattuale di classe

Ritengo che i lavoratori siano in grado di concepire un’alternativa ammissibile al capitalismo che giudicano migliore di esso. Ammissibile, nel senso che è realizzabile sulla base della dotazione delle risorse e delle tecniche in uso nell’economia capitalistica di riferimento, e solo cambiandone le istituzioni e la distribuzione del reddito. Migliore, nel senso che i lavoratori vivrebbero meglio in essa che nel capitalismo.

Chiamerò “Utopia” la migliore di tutte le alternative ammissibili. [2] I lavoratori, per definizione, si appropriano dell’intero prodotto netto in Utopia, cosicché il loro reddito medio coincide con la produttività media del lavoro. Potrebbero così pensare che, se possono aumentare il proprio reddito passando in Utopia e continuando a produrre come prima e con le stesse tecniche di prima, allora non è per ragioni tecniche che guadagnano meno della propria produttività nel capitalismo, ma solo a causa dell’assetto istituzionale. Potrebbero convincersi che, se possono appropriarsi di tutto il prodotto solo cambiando le istituzioni ed abolendo la classe dei capitalisti, vuol dire che non hanno bisogno dei capitalisti per produrre e quindi che tutto ciò che è prodotto lo producono loro. In altri termini, potrebbero pensare che il loro contributo produttivo coincide con ciò che guadagnano e producono in Utopia, visto che ciò che producono lì lo possono produrre ovunque, date le tecniche. Poi, confrontando il mondo capitalistico con Utopia i lavoratori si accorgono che nel primo essi stanno peggio perché il salario è più basso della propria produttività, e si sentono per ciò sfruttati nel capitalismo.

Il riferimento controfattuale [3] all’Utopia sembra un po’ intellettualistico e fantasioso, sembra allontanarci da quel sano richiamo al mondo concreto a cui ci ha abituato il primo capitolo de Il capitale. In realtà il ragionamento controfattuale è esperienza quotidiana di tutti noi. Ricorriamo ai controfattuali ogni volta che ci domandiamo se il prezzo di un prodotto non è troppo alto rispetto a uno che consideriamo, sia pur vagamente, come “equo”, o una pensione o un salario non sono troppo bassi. Ricorre a ragionamenti controfattuali l’operaio che valuta la misura dello sfruttamento e del benessere sociale dal tipo di automobili che ha il padrone e dall’inutilità della sua vita: sarei meno sfruttato se il valore di quella Ferrari si risolvesse in salari, e staremmo tutti molto meglio se quel porco volesse lavorare invece di trastullarsi col gioco in borsa.

La teoria che presento qui non è altro che una formalizzazione di questo tipo di argomentazione. L’idea dello sfruttamento implica un giudizio sulla destinazione del prodotto del lavoro. Il ragionamento controfattuale rinvia alla convinzione che una destinazione diversa da quella vigente nel capitalismo è ammissibile. La persuasione che è possibile migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, senza dover necessariamente cambiare le tecniche in uso, è tutt’uno con quella secondo cui il profitto non remunera il contributo produttivo di alcunché. Sostengo che, a dispetto di ogni egemonia ideologica del capitale, queste idee, convinzioni, persuasioni sono componenti vitali del senso comune che esprime la condizione operaia contemporanea.

L’assunzione di un punto di vista di classe, piuttosto che di uno basato su una metafisica universale, orienta la filosofia marxista verso una rifondazione non essenzialista delle teorie del valore e dello sfruttamento.

Nel caso della teoria del valore, il punto di vista di classe consente di partire da assiomi che non assumono il significato di proposizioni relative all’essenza di qualcosa. Il problema di quale sia la sostanza del valore, o di chi lo “crei”, non si pone nemmeno. Infatti si tratta di prendere sul serio la tesi marxiana secondo cui il valore è una relazione sociale - prenderla sul serio, cioè, intendendola nel senso che il valore è soltanto una relazione sociale, che non c’è nessuna essenza dietro le relazioni sociali. Ci sono solo dei rapporti di produzione e di mercato, di lotta, di potere e di divisione del lavoro, attraverso cui gli agenti sociali producono e si spartiscono i beni. Questi rapporti non stanno dietro le relazioni sociali: essi sono le relazioni sociali.

Inoltre l’assunzione di un punto di vista di classe fornirà una giustificazione sensata all’assioma che fonda la teoria dello sfruttamento. Non sarà una giustificazione del tipo richiesto dall’assioma della sostanza del valore. D’altronde non c’è bisogno di far coincidere il plusvalore col pluslavoro per sostenere la tesi dello sfruttamento. Né sarà una giustificazione empirista del tipo che sostiene che la cosa è evidente alla luce di una semplice osservazione della realtà. Una giustificazione del genere non è convincente perché non c’è dato empirico che possa essere raccolto e interpretato senza far riferimento a una teoria e a un punto di vista. Non sarà infine una giustificazione di tipo etico, del tipo cioè che presuppone una universale filosofia della giustizia. Un tale approccio lo rifiuto perché mi sembra che nessuna onesta filosofia della giustizia può essere formulata ponendosi al “di sopra delle parti”.


[1] Data una tecnica produttiva che usa terra, lavoro e mezzi di produzione secondo determinati coefficienti tecnici, non è possibile ottenere nessuna merce senza usare terra e capitale. Dunque questi requisiti produttivi sono necessari all’attività lavorativa e contribuiscono alla produzione. Il problema è: quanto contribuiscono alla produzione del prodotto netto? La distinzione del prodotto netto da quello lordo rinvia a un sistema di contabilità e quindi presuppone una teoria del valore: il prodotto netto è il valore che nel processo produttivo viene aggiunto a quello delle anticipazioni tecnicamente necessarie. L’idea marxiana che il capitale contribuisca alla produzione delle merci non ha niente a che vedere con quella marginalista, secondo cui esso dà un contributo produttivo alla creazione del valore aggiunto.

[2] Non è la migliore di tutte le alternative possibili. L’ammissibilità, come l’ho definita qui, implica che le tecniche siano le stesse che vengono usate nell’economia capitalistica di riferimento. Va da se che in un mondo governato dai lavoratori cambierebbero radicalmente sia il modo di produrre che le cose da produrre. Ma la definizione di un’alternativa di questo tipo non è necessaria per sostenere il ragionamento con cui intendo giustificare la tesi dello sfruttamento.

[3] Un approccio del genere è stato sviluppato, tra gli altri, da Roemer (1982), ma in una direzione sostanzialmente diversa da quella seguita qui. Roemer, ad esempio, dà molta importanza alla distribuzione dei diritti di proprietà, che io invece ignoro del tutto. Per delle valutazioni critiche della teoria di Roemer vedi Petri (1989) e Reiman (1989).

Per quanto è a mia conoscenza, il primo a proporre un’interpretazione della teoria marxiana del valore-lavoro e dello sfruttamento in termini controfattuali fu Croce (1927), il quale però aveva la pretesa, secondo me erronea, che Marx stesso ragionasse in quei termini. Anche Bellofiore (2000) propone un uso controfattuale della teoria del valore-lavoro pretendendo di attribuire tale uso a Marx. Un interessante approccio controfattuale proposto da Petri (1989, p. 233) mostra che il pluslavoro si risolve in profitti solo per motivi istituzionali e non per motivi tecnici.