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La P.A. in crisi per la scelta tra necessità e timore del cambiamento

Augusto Ricci

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"C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico..."

Ruesti versi iniziali dell’Aquilone di G. Pascoli bene si addicono, a mio avviso, alla Pubblica Amministrazione (P.A.) in crisi; questo stato di crisi che, per così dire, si può considerare storica, e quindi "antica", se la consideriamo legata al suo rapporto conflittuale con il cittadino, assume oggi un "qualcosa di nuovo". Questo nuovo aspetto della crisi della P.A. nasce stavolta al suo interno ed è causata da un lato dalla esigenza di profondo cambiamento strutturale avvertito sempre più come urgente a tutti i suoi livelli, ma proprio tali caratteristiche d’urgenza, profondità ed avvertite da tutti suscitano un tale timore che questi finisce per paralizzare ancora di più le spinte al cambiamento, così che la P.A. finisce per funzionare come una struttura che più che gestire un servizio cerca di sopravvivere al quotidiano tentando con risposte "just in time" (ironia della sorte: questo modello torna ad essere lo strumento di sopravvivenza: per l’industria giapponese del dopoguerra e per la P.A. nella crisi della globalizzazione!) di sopravvivere ai bisogni dei cittadini ai quali non riesce più a dare risposte adeguate.

La Storia, dice G.B. Vico, è il "fatto", intendendo per esso l’"accaduto", cioè la cosa dalla quale non possiamo prescindere perchè "essendo stata", costituisce l’esistente con il quale comunque, bene o male, dobbiamo fare i conti.

In questa visione non possiamo perciò esimerci dal partire da un’analisi storica della P.A., non tanto perchè essa ci possa fornire i presagi per il futuro, ma perchè non possiamo capire il presente se non partiamo dal passato in una visione quanto più oggettiva possibile mantenendo sempre e comunque il "coraggio della memoria".

Parte Ia ".... anzi d’antico..." Cenni storici della P.A. in Italia

L’analisi storica che tenterò di fare vuole individuare ciò che costituisce, per me, l’antefatto di quello che è oggi la P.A. cercando, altresì, d’individuare se e come al suo interno, "in pectore", vi sono stati i semi dei problemi che oggi si palesano.

La P.A. italiana nasce nel 1861 con l’Unità d’Italia; fino ad allora lo Stivale, dal titolo di una bella canzone popolare di quegli anni, che si vedeva riflesso in una carta geografica con il vestito come quello di Arlecchino e ne chiedeva uno di un sol colore, aveva più Stati e, conseguemtemente, più P.A.: la sabauda, l’austro-ungarica, la borbonica, la Granducale, la pontificia etc. Con il momento unitario si ebbe l’estensione a tutta l’Italia di quella sabauda; la fase, necessaria da un punto di vista di "real politic" storica, della sua applicazione forzata su tante variegate realtà, creò subito inevitabili problemi vedi per es. le rivolte del Mezzogiorno ed il brigantaggio.

Non finì, però, mai di essere una fase transitoria e si configurò come l’estensione della struttura organizzativa di uno Stato vincitore e perciò, per definizione, considerato estraneo ed invasore.

La P.A. dell’epoca è, ovviamente quella del suo periodo storico: è l’espressione della gestione di uno Stato fortemente accentrato nella figura del Re, è pertanto non solo verticistica, come d’altronde anche la nascente visione sociologica, vedi Max Weber, non può che riconoscere, ma ha anche la caratteristica di essere costituita da un’organizzazione che non prevedeva nè le interconnessioni o comunicazioni di tipo orizzontali tra le sue varie strutture, poichè il coordinamento avveniva nell’unico punto d’incontro coincidente con il punto di partenza: il vertice, il Re, da cui partivano le direttive con l’unica direzionalità verso la popolazione, i sudditi, la vita dei quali era gestita dal "Pater bonus".

Azione pertanto solo centrifuga e, perciò, rispondente ai bisogni di popolazione avvertiti, se andava bene, in funzione di bisogni "presunti" per diminuire le tensioni sociali, o, quasi sempre, invece, derivanti dalla "Ragion di Stato".

Questo e la mancanza totale di comunicazione trasversale, non necessaria tra strutture così organizzate, costituiscono i "semi" dei problemi che la PA si troverà sempre più a fronteggiare poichè essi, cambiando i tempi e sotto la spinta di popolazioni che prendono coscienza dei propri bisogni, cresceranno e le radici che metteranno sempre più tenderanno a renderla inadeguata ed a generare la crisi, che riguardando solo il rapporto tra PA, da un lato, e cittadini, dall’altro, costituisce il "male antico".

Crisi che nel corso della Storia cresce proporzionalmente al grado di coscienza della popolazione che passa da uno stato di supina sudditanza ad uno sempre più consapevole di cittadino.

Questa visione centralistica ha fatto sì che la PA non abbia avvertito la necessità di adattarsi alle realtà locali, lo farà nel 1990 con le leggi sulle Autonomie locali, ma vedremo, anche qui, riaffiorare questo "male antico".

Una ulteriore problematica storica, tipicamente italiana che aggrava ed aggraverà nel tempo i problemi dei localismi, nasce dal fatto che nel nostro Paese il concetto di Nazione fa data, appunto, dal 1861, ma è stato imposto dall’"alto" e non nasce, come per es. nella Mittel-Europa v. Francia e Germania ed in Spagna, Inghilterra, Austria nel Medio Evo, per una identificazione in una casa regnante, che accentra attorno a sè l’identità di Stato-Nazione con una precisa cultura, lingua, confini. Identità di Nazione che nel bene, ma anche nel male, è stato il pabulum da cui queste nazioni han potuto fare le loro Rivoluzioni; la francese del 1789, l’Inghilterra quella industriale, la Spagna quella egemonistica delle guerre in Europa e l’invasione nel Nuovo Mondo, la Germania e l’Austria con la lotta per essere la Nazione egemone dei popoli di lingua tedesca che, con la vittoria della Grosse Deutsche rispetto alla Grosse -Osterreich, continua oggi con l’egemonia tedesca nell’economia europea. Concetto di Nazione che, rafforzato soprattutto per la Germania con il movimento idealistico - romantico dell’800 che si trasmette all’Italia anche per la spinta della Rivoluzione francese, pur trasformata dall’impresa Napoleonica, e determina la spinta all’Unità, cavalcata dalla Casa Piemontese.

In Italia il sentimento di nazione unitaria, avvertito all’epoca, fu vero movimento popolare, per lo meno nel numero, solo nel meridione che seguì entusiasta Garibaldi ma fu momento effimero, terminato a Teano.

Il Re sabaudo divenne il Re d’Italia, ma citando una parte per il tutto, la, oggi ridente, località calabrese chiamata Guardia Piemontese, la dice tutta su come fu in realtà quello che era stato auspicato come momento non tanto libertario, quanto realizzativo del senso di appartenenza alla Nazione
 Italia Unita. Una occasione storica persa? Chissà, personalmente penso di sì, anche se la ragione storica non poteva esere diversa.

Certo è che la P.A., struttura che gestisce il funzionamento dello Stato dell’Italia unita fu, ovviamente, quella piemontese, così diversa dalle espressioni locali esistenti non tutte negative, vedi per es. quella Austro-Ungarica, dove lo stesso Imperatore Francesco Giuseppe era un attento, pignolo curatore amministrativo, o quella Borbonica che, checchè se ne dica, era molto più aderente alla realtà governata.

Un piccolo Stato, il Piemontese, ben organizzato e gestito può avere difficoltà se, d’improvviso, si trova a gestire una popolazione ed un territorio tanto più vasti e diversi.

Viene logico, in questi casi, e forse è anche l’unico modo efficace, applicare, inizialmente, il sistema abituale che si sa gestire e che fino a quel punto ha ben funzionato: perciò lo si impose.

Abbiamo visto come funzionava questo sistema: a caduta verticistica, dal Re, attraverso la P.A., fino ai sudditi, i quali oltretutto, specie in Italia, erano "abituati", loro malgrado, a frequenti cambiamenti di dominatori, tanto che si era, per così dire, assunta una filosofia spicciola di sopravvivenza come ben si può dedurre da un detto popolare del seicento che diceva: "Franza o Spagna, purchè se magna", cioè: fate come volete, non importa chi governi, ma lasciateci vivere.

L’Istituto monarchico si vedeva come l’unico inevitabile sistema di governo, addirittura d’investitura divina: occorre ricordare che se la testa di Re caduta che per prima un pò tutti noi ricordiamo è quella di Luigi XVI nella Rivoluzione Frencese, abbiamo anche quella di Carlo I Stuart d’Inghilterra che nel 1649, ad opera di Oliver Cronwell, fu giustiziato per salvare, si badi bene, l’Istituto Monarchico e non per abbatterlo. Non a caso Cronwell fu nominato Lord Protettore d’Inghilterra e dopo un breve, transitorio, periodo repubblicano, 1649-1660, la Monarchia Inglese fu più stabile di prima.

A "guastare" questo quadro stabile venne la rivoluzione industriale che operò una ventata veramente importante e che unita ai "sacri principi dell’89" (Libertà, - Fraternità - Uguaglianza) della Rivoluzione Francese, cominciano a far nascere la coscienza di cittadino in una struttura che prevedeva, e voleva, invece, solo sudditi.

A questo momento di evoluzione sociale profonda la P.A. tenta di adeguarsi creando nuovi istituti, ma la organizzazione rimane sempre uguale, continuando ad essere sempre un struttura gestionale dei bisogni dei governanti e non di quelli dei cittadini.

I profondi mutamenti della seconda metà dell’800 si evidenziano sia dalle guerre tra i vari Stati dovute alle spinte nazionalistiche tipiche dell’epoca, sia dai cambiameni nella società che vede nascere il fenomeno della folla, vedi gli studi di Le Bon, il nascere della Sociologia, v Max Weber, il momento aureo del Capitalismo, il cui termine è coniato nel 1842 con J.B. Richard, l’analisi di questo fenomeno e l’inizio dello studio metodologico dei bisogni dei cittadini, con Marx.

Come ricorda Luciano Barca [b]: "Marx, prima di parlare di lavoratore, ha parlato di persona umana e del rapporto della persona umana con la Natura" e, mi permetterei di aggiungere, ha anche focalizzato la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio di ciò che chiama merce, inquadrando come tale quella risorsa fino ad allora, per comodità, pensata immateriale (e perciò perchè mai doveva essere quantizzata?), che chiamiamo lavoro, che non essendo altro che energia della persona umana impiegata per la produzione di un bene o servizio può, e deve, essere quantizzata non fosse che per commensurarla e, perciò, per poterla valorizzare, (e non soltanto nel suo apetto economico).

Tanto che nei primi del Novecento abbiamo, per esempio le lotte agrarie ove i braccianti, (e per tali non s’indicava forse chi invece di persona era solo braccia?) e lo stesso accade per i lavoratori della nascente industria, i quali rivendicano il riconoscimento di basilari diritti che affondano nel soddisfacimento dei bisogni primari.

Senza aggiungere altro, che, per altro, esulerebbe da questo scritto, e potrebbe anche annoiare, sintetizzerei questo periodo citando, da un lato, la Sinfonia "Renana" di Shumann ove riecheggia il senso d’appagamento di un lavoro operoso e positivo: il moderno che avanza. Dall’altro lato il quadro, famoso, "La fiumana" di Pelizza de Volpedo nel quale la folla di lavoratori, che comincia ad unirsi sintetizza il passaggio da sudditi a cittadini, da strumenti passivi ad attori del cambiamento che prendono coscienza di sè.

Che c’entra la P.A. in tutto ciò?

In tutti questi cambiamenti epocali e con momenti di maggiore o minore apertura essa ha cercato di adeguarsi, ma sempre e soltanto modificando le modalità di azione, non la struttura che è continuata ad essere sempre quella verticale, verticistica, funzionale al sistema di governo e non ai bisogni dei cittadini che sono rimasti, nonostante i cambiamenti, considerati sudditi.

Come dice Luciano Barca [b] la P.A. ha operato sempre in regime di ’separazione’, cioè di chiusura nel proprio individualismo e non di ’distinzione’, termine che esprime un concetto comunitario che, comunque, recepisce le diversità.

Il cittadino non ha avuto mai altro stimolo, se non la obbligata necessità, a rivolgersi alla P.A., avvertendo sempre la estraneità di questa struttura nata invece per essere non solo il suo collegamento con la Società, ma anche la sua garante.

Come per la giurisprudenza di tipo latino il cittadino deve dimostrare la sua ’innocenza’, per es. il pagamento di una bolletta, od il vecchio pagamento di un bollo auto, anche se l’errore è della P.A. e non questa ha l’onere della prova della ’colpevolezza’ come per gli anglosassoni.

Così si spiega come ’nel sentir comune’, per esempio. ben dimostrato anche nella favolistica popolare, vedi Pinocchio, lo Stato, nel caso raffigurato nei Carabinieri, appare come un indifferente, distante, esecutore di azioni da cui, comunque, se và bene, è meglio non aver a che fare.

Alle mie figlie sin da piccole ho sempre detto: "se vi perdete od avete qualche problema e non ci sono mamma o papà, rivolgetevi a quei signori vestiti così, descrivendo la divisa, loro penseranno a riportarvi da noi".

Perchè non riesco ad affidarmi con la stessa fiducia alla P.A.?

Solo recentemente si stà tentando una sorta di rivoluzione copernicana: finiamo questa parte "antica"per avvicinarci all’attuale, ricordando ancora un punto nodale da tenere ben a memoria:

"L’errore fondamentale" secondo Guglielmo Giannini.

Quest’autore nel suo libro "La folla" descrive quello che, a suo avviso, costituisce l’errore fondamentale dei politici: questi sono eletti dal popolo e sono i suoi rappresentanti, i suoi ministri, il cui termine egli fà, giustamente, derivare dal latino: minister = servo: Essi sono perciò non tanto servi (nessuno può essere servo di nessuno!) quanto al servizio dei cittadini elettori come artefici della loro volontà.

L’errore fondamentale per Giannini è dato dal fatto che il politico eletto capovolge il concetto e considera suoi servi i cittadini ed utilizza la P.A., una struttura di gestione dello Stato, come lo strumento per realizzare ciò: da questo "peccato originale" deriva, a mio avviso, la crisi "antica" ancora così profondamente presente. È ’separazione’ secondo il concetto di Barca2.


[b] Luciano Barca Convegno Ambiente e lavoro: “Contraddizione ambientale e mercato del lavoro” da Proteo N° 3/ 2000 pag 8.

[b] Luciano Barca “Del capitalismo e dell’arte di costruire ponti”, Donzelli Editore Roma 18/2/2000.