La P.A. in crisi per la scelta tra necessità e timore del cambiamento

Augusto Ricci

"C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico..."

Ruesti versi iniziali dell’Aquilone di G. Pascoli bene si addicono, a mio avviso, alla Pubblica Amministrazione (P.A.) in crisi; questo stato di crisi che, per così dire, si può considerare storica, e quindi "antica", se la consideriamo legata al suo rapporto conflittuale con il cittadino, assume oggi un "qualcosa di nuovo". Questo nuovo aspetto della crisi della P.A. nasce stavolta al suo interno ed è causata da un lato dalla esigenza di profondo cambiamento strutturale avvertito sempre più come urgente a tutti i suoi livelli, ma proprio tali caratteristiche d’urgenza, profondità ed avvertite da tutti suscitano un tale timore che questi finisce per paralizzare ancora di più le spinte al cambiamento, così che la P.A. finisce per funzionare come una struttura che più che gestire un servizio cerca di sopravvivere al quotidiano tentando con risposte "just in time" (ironia della sorte: questo modello torna ad essere lo strumento di sopravvivenza: per l’industria giapponese del dopoguerra e per la P.A. nella crisi della globalizzazione!) di sopravvivere ai bisogni dei cittadini ai quali non riesce più a dare risposte adeguate.

La Storia, dice G.B. Vico, è il "fatto", intendendo per esso l’"accaduto", cioè la cosa dalla quale non possiamo prescindere perchè "essendo stata", costituisce l’esistente con il quale comunque, bene o male, dobbiamo fare i conti.

In questa visione non possiamo perciò esimerci dal partire da un’analisi storica della P.A., non tanto perchè essa ci possa fornire i presagi per il futuro, ma perchè non possiamo capire il presente se non partiamo dal passato in una visione quanto più oggettiva possibile mantenendo sempre e comunque il "coraggio della memoria".

Parte Ia ".... anzi d’antico..." Cenni storici della P.A. in Italia

L’analisi storica che tenterò di fare vuole individuare ciò che costituisce, per me, l’antefatto di quello che è oggi la P.A. cercando, altresì, d’individuare se e come al suo interno, "in pectore", vi sono stati i semi dei problemi che oggi si palesano.

La P.A. italiana nasce nel 1861 con l’Unità d’Italia; fino ad allora lo Stivale, dal titolo di una bella canzone popolare di quegli anni, che si vedeva riflesso in una carta geografica con il vestito come quello di Arlecchino e ne chiedeva uno di un sol colore, aveva più Stati e, conseguemtemente, più P.A.: la sabauda, l’austro-ungarica, la borbonica, la Granducale, la pontificia etc. Con il momento unitario si ebbe l’estensione a tutta l’Italia di quella sabauda; la fase, necessaria da un punto di vista di "real politic" storica, della sua applicazione forzata su tante variegate realtà, creò subito inevitabili problemi vedi per es. le rivolte del Mezzogiorno ed il brigantaggio.

Non finì, però, mai di essere una fase transitoria e si configurò come l’estensione della struttura organizzativa di uno Stato vincitore e perciò, per definizione, considerato estraneo ed invasore.

La P.A. dell’epoca è, ovviamente quella del suo periodo storico: è l’espressione della gestione di uno Stato fortemente accentrato nella figura del Re, è pertanto non solo verticistica, come d’altronde anche la nascente visione sociologica, vedi Max Weber, non può che riconoscere, ma ha anche la caratteristica di essere costituita da un’organizzazione che non prevedeva nè le interconnessioni o comunicazioni di tipo orizzontali tra le sue varie strutture, poichè il coordinamento avveniva nell’unico punto d’incontro coincidente con il punto di partenza: il vertice, il Re, da cui partivano le direttive con l’unica direzionalità verso la popolazione, i sudditi, la vita dei quali era gestita dal "Pater bonus".

Azione pertanto solo centrifuga e, perciò, rispondente ai bisogni di popolazione avvertiti, se andava bene, in funzione di bisogni "presunti" per diminuire le tensioni sociali, o, quasi sempre, invece, derivanti dalla "Ragion di Stato".

Questo e la mancanza totale di comunicazione trasversale, non necessaria tra strutture così organizzate, costituiscono i "semi" dei problemi che la PA si troverà sempre più a fronteggiare poichè essi, cambiando i tempi e sotto la spinta di popolazioni che prendono coscienza dei propri bisogni, cresceranno e le radici che metteranno sempre più tenderanno a renderla inadeguata ed a generare la crisi, che riguardando solo il rapporto tra PA, da un lato, e cittadini, dall’altro, costituisce il "male antico".

Crisi che nel corso della Storia cresce proporzionalmente al grado di coscienza della popolazione che passa da uno stato di supina sudditanza ad uno sempre più consapevole di cittadino.

Questa visione centralistica ha fatto sì che la PA non abbia avvertito la necessità di adattarsi alle realtà locali, lo farà nel 1990 con le leggi sulle Autonomie locali, ma vedremo, anche qui, riaffiorare questo "male antico".

Una ulteriore problematica storica, tipicamente italiana che aggrava ed aggraverà nel tempo i problemi dei localismi, nasce dal fatto che nel nostro Paese il concetto di Nazione fa data, appunto, dal 1861, ma è stato imposto dall’"alto" e non nasce, come per es. nella Mittel-Europa v. Francia e Germania ed in Spagna, Inghilterra, Austria nel Medio Evo, per una identificazione in una casa regnante, che accentra attorno a sè l’identità di Stato-Nazione con una precisa cultura, lingua, confini. Identità di Nazione che nel bene, ma anche nel male, è stato il pabulum da cui queste nazioni han potuto fare le loro Rivoluzioni; la francese del 1789, l’Inghilterra quella industriale, la Spagna quella egemonistica delle guerre in Europa e l’invasione nel Nuovo Mondo, la Germania e l’Austria con la lotta per essere la Nazione egemone dei popoli di lingua tedesca che, con la vittoria della Grosse Deutsche rispetto alla Grosse -Osterreich, continua oggi con l’egemonia tedesca nell’economia europea. Concetto di Nazione che, rafforzato soprattutto per la Germania con il movimento idealistico - romantico dell’800 che si trasmette all’Italia anche per la spinta della Rivoluzione francese, pur trasformata dall’impresa Napoleonica, e determina la spinta all’Unità, cavalcata dalla Casa Piemontese.

In Italia il sentimento di nazione unitaria, avvertito all’epoca, fu vero movimento popolare, per lo meno nel numero, solo nel meridione che seguì entusiasta Garibaldi ma fu momento effimero, terminato a Teano.

Il Re sabaudo divenne il Re d’Italia, ma citando una parte per il tutto, la, oggi ridente, località calabrese chiamata Guardia Piemontese, la dice tutta su come fu in realtà quello che era stato auspicato come momento non tanto libertario, quanto realizzativo del senso di appartenenza alla Nazione
 Italia Unita. Una occasione storica persa? Chissà, personalmente penso di sì, anche se la ragione storica non poteva esere diversa.

Certo è che la P.A., struttura che gestisce il funzionamento dello Stato dell’Italia unita fu, ovviamente, quella piemontese, così diversa dalle espressioni locali esistenti non tutte negative, vedi per es. quella Austro-Ungarica, dove lo stesso Imperatore Francesco Giuseppe era un attento, pignolo curatore amministrativo, o quella Borbonica che, checchè se ne dica, era molto più aderente alla realtà governata.

Un piccolo Stato, il Piemontese, ben organizzato e gestito può avere difficoltà se, d’improvviso, si trova a gestire una popolazione ed un territorio tanto più vasti e diversi.

Viene logico, in questi casi, e forse è anche l’unico modo efficace, applicare, inizialmente, il sistema abituale che si sa gestire e che fino a quel punto ha ben funzionato: perciò lo si impose.

Abbiamo visto come funzionava questo sistema: a caduta verticistica, dal Re, attraverso la P.A., fino ai sudditi, i quali oltretutto, specie in Italia, erano "abituati", loro malgrado, a frequenti cambiamenti di dominatori, tanto che si era, per così dire, assunta una filosofia spicciola di sopravvivenza come ben si può dedurre da un detto popolare del seicento che diceva: "Franza o Spagna, purchè se magna", cioè: fate come volete, non importa chi governi, ma lasciateci vivere.

L’Istituto monarchico si vedeva come l’unico inevitabile sistema di governo, addirittura d’investitura divina: occorre ricordare che se la testa di Re caduta che per prima un pò tutti noi ricordiamo è quella di Luigi XVI nella Rivoluzione Frencese, abbiamo anche quella di Carlo I Stuart d’Inghilterra che nel 1649, ad opera di Oliver Cronwell, fu giustiziato per salvare, si badi bene, l’Istituto Monarchico e non per abbatterlo. Non a caso Cronwell fu nominato Lord Protettore d’Inghilterra e dopo un breve, transitorio, periodo repubblicano, 1649-1660, la Monarchia Inglese fu più stabile di prima.

A "guastare" questo quadro stabile venne la rivoluzione industriale che operò una ventata veramente importante e che unita ai "sacri principi dell’89" (Libertà, - Fraternità - Uguaglianza) della Rivoluzione Francese, cominciano a far nascere la coscienza di cittadino in una struttura che prevedeva, e voleva, invece, solo sudditi.

A questo momento di evoluzione sociale profonda la P.A. tenta di adeguarsi creando nuovi istituti, ma la organizzazione rimane sempre uguale, continuando ad essere sempre un struttura gestionale dei bisogni dei governanti e non di quelli dei cittadini.

I profondi mutamenti della seconda metà dell’800 si evidenziano sia dalle guerre tra i vari Stati dovute alle spinte nazionalistiche tipiche dell’epoca, sia dai cambiameni nella società che vede nascere il fenomeno della folla, vedi gli studi di Le Bon, il nascere della Sociologia, v Max Weber, il momento aureo del Capitalismo, il cui termine è coniato nel 1842 con J.B. Richard, l’analisi di questo fenomeno e l’inizio dello studio metodologico dei bisogni dei cittadini, con Marx.

Come ricorda Luciano Barca [b]: "Marx, prima di parlare di lavoratore, ha parlato di persona umana e del rapporto della persona umana con la Natura" e, mi permetterei di aggiungere, ha anche focalizzato la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio di ciò che chiama merce, inquadrando come tale quella risorsa fino ad allora, per comodità, pensata immateriale (e perciò perchè mai doveva essere quantizzata?), che chiamiamo lavoro, che non essendo altro che energia della persona umana impiegata per la produzione di un bene o servizio può, e deve, essere quantizzata non fosse che per commensurarla e, perciò, per poterla valorizzare, (e non soltanto nel suo apetto economico).

Tanto che nei primi del Novecento abbiamo, per esempio le lotte agrarie ove i braccianti, (e per tali non s’indicava forse chi invece di persona era solo braccia?) e lo stesso accade per i lavoratori della nascente industria, i quali rivendicano il riconoscimento di basilari diritti che affondano nel soddisfacimento dei bisogni primari.

Senza aggiungere altro, che, per altro, esulerebbe da questo scritto, e potrebbe anche annoiare, sintetizzerei questo periodo citando, da un lato, la Sinfonia "Renana" di Shumann ove riecheggia il senso d’appagamento di un lavoro operoso e positivo: il moderno che avanza. Dall’altro lato il quadro, famoso, "La fiumana" di Pelizza de Volpedo nel quale la folla di lavoratori, che comincia ad unirsi sintetizza il passaggio da sudditi a cittadini, da strumenti passivi ad attori del cambiamento che prendono coscienza di sè.

Che c’entra la P.A. in tutto ciò?

In tutti questi cambiamenti epocali e con momenti di maggiore o minore apertura essa ha cercato di adeguarsi, ma sempre e soltanto modificando le modalità di azione, non la struttura che è continuata ad essere sempre quella verticale, verticistica, funzionale al sistema di governo e non ai bisogni dei cittadini che sono rimasti, nonostante i cambiamenti, considerati sudditi.

Come dice Luciano Barca [b] la P.A. ha operato sempre in regime di ’separazione’, cioè di chiusura nel proprio individualismo e non di ’distinzione’, termine che esprime un concetto comunitario che, comunque, recepisce le diversità.

Il cittadino non ha avuto mai altro stimolo, se non la obbligata necessità, a rivolgersi alla P.A., avvertendo sempre la estraneità di questa struttura nata invece per essere non solo il suo collegamento con la Società, ma anche la sua garante.

Come per la giurisprudenza di tipo latino il cittadino deve dimostrare la sua ’innocenza’, per es. il pagamento di una bolletta, od il vecchio pagamento di un bollo auto, anche se l’errore è della P.A. e non questa ha l’onere della prova della ’colpevolezza’ come per gli anglosassoni.

Così si spiega come ’nel sentir comune’, per esempio. ben dimostrato anche nella favolistica popolare, vedi Pinocchio, lo Stato, nel caso raffigurato nei Carabinieri, appare come un indifferente, distante, esecutore di azioni da cui, comunque, se và bene, è meglio non aver a che fare.

Alle mie figlie sin da piccole ho sempre detto: "se vi perdete od avete qualche problema e non ci sono mamma o papà, rivolgetevi a quei signori vestiti così, descrivendo la divisa, loro penseranno a riportarvi da noi".

Perchè non riesco ad affidarmi con la stessa fiducia alla P.A.?

Solo recentemente si stà tentando una sorta di rivoluzione copernicana: finiamo questa parte "antica"per avvicinarci all’attuale, ricordando ancora un punto nodale da tenere ben a memoria:

"L’errore fondamentale" secondo Guglielmo Giannini.

Quest’autore nel suo libro "La folla" descrive quello che, a suo avviso, costituisce l’errore fondamentale dei politici: questi sono eletti dal popolo e sono i suoi rappresentanti, i suoi ministri, il cui termine egli fà, giustamente, derivare dal latino: minister = servo: Essi sono perciò non tanto servi (nessuno può essere servo di nessuno!) quanto al servizio dei cittadini elettori come artefici della loro volontà.

L’errore fondamentale per Giannini è dato dal fatto che il politico eletto capovolge il concetto e considera suoi servi i cittadini ed utilizza la P.A., una struttura di gestione dello Stato, come lo strumento per realizzare ciò: da questo "peccato originale" deriva, a mio avviso, la crisi "antica" ancora così profondamente presente. È ’separazione’ secondo il concetto di Barca2.-----

Parte Iia "C’è qualcosa di nuovo...", oggi nella P.A.

Su questa crisi, per cosi dire, insita nel genoma della P.A. oggi se ne aggiunge una nuova.

Dal 1989, che possiamo considerare la fine della III guerra mondiale, (la Storia, sempre la Storia!): il mondo cambia rapidamente, ogni volta che termina un conflitto s’impone lo "stile" della parte vincitrice, ed oggi il mondo intero si avvia sempre più velocemente verso la globalizzazione.

Questa, che non considero solo negativa, ha come caratteristica quella, da un lato, di accentuare le diffferenziazioni, rapidamente, tra i vari individui e strutture, e dall’altra di omogeineizzarle in una visione globalizzata e l’omologazione della Società e del pensiero è massima proprio nel momento della globalizzazione quando è massima la flessibilità e l’individualità!

Questo ossimoro, unione di concetti contrastanti, si può considerare positivo se si finalizzasse in una ’distinzione’, alla Barca, che valorizzi l’individualità quale espressione d’essere della "persona umana", v. Marx, ed altamente negativa, sempre alla Barca, se si vedessee, invece, come strumento di separazione.

La P.A., sempre considerata come lo strumento gestionale dello Stato, la quale ha lavorato finora per strutture separate ed autoreferenziate anche con la Legg 142 del 1990, sulle Autonomie locali, che pure costituisce un momento veramente innovativo, continua ad avere ancora un funzionamento scollegato tra le sue varie componenti.

L’autoreferenziamento è sempre consistito nel ’mandato’ delle Leggi ad avere quel determinato ruolo che lo Stato definisce per la singola struttura, la quale deve rendere conto del suo funzionamento solo al Potere committente e non ai bisogni del cittadino, a cominciare da quelli più elementari quali ad es. il linguaggio burocratico e l’informazione.

A questi problemi ci si adegua recentemente in maniera decisa con alcune Leggi, v. la 241/90, sui criteri di economicità, efficacia, D.L. 39/93 che con l’A.I.P.A. introduce l’informatica nella P.A., e con le cosidette Leggi Bassanini, v. la 59/97, la 127/97, D.L. 112/98, 191/98 etc ove le più popolarmente conosciute sono quelle sulla "trasparenza" e la semplificazione burocratica riguardante l’autocertificazione.

Leggi che operano un tentativo di capovolgimento copernicano, rispetto al passato, ma che hanno evidenziato quella che chiamo la "crisi nuova" della P.A.

L’esempio lo trovo, e lo abbiamo vissuto un pò tutti, con le autocertificazioni: una Legge dello Stato è stata recepita da alcune amministrazioni che chiedevano le autocertificazioni, mentre altre, nello stesso tempo, non le accettavano, così che, personalmente, m’è capitato di dover lottare con un’amministrazione, per es. l’Università, che non accettava autocertificati e con la Circoscrizione che, forte della Legge, non mi voleva rilasciare i certificati.

Io cittadino messo in mezzo e con la necessità delle scadenze, sono dovuto ricorrere alla forza pubblica per farmi, da un lato, rilasciare il certificato, e, dall’altro, per farmi accettare l’autocertificazione, che, comunque, avevano l’obbligo di accettarmi.

E non sono stato, purtroppo, il caso isolato come si evince dal fatto che lo stesso Ministro Bassanini ha dovuto invitare i cittadini, con inserzioni sui mass media, ad avvalersi dell’applicazione della Legge.

Come si fà a pensare alle Istituzioni quali gestori dei tuoi bisogni ed ad avere fiducia in esse quando si comportano in questo modo?

È più facile che ti prenda la "depressione da Istituzioni", e poi ci meravigliamo della disaffezione e dall’allontanamento dai modelli sociali, soprattutto da parte dei giovani che, essendo in formazione, non hanno punti di riferimento!

Con le citate Leggi comincia ad entrare nei "santuari" della P.A. il concetto della partecipazione, della trasparenza, del decentramento, un tentativo di dare risposta, in qualche modo, "just in time", per così dire, ai bisogni emergenti e s’introduce il concetto di managerialità (anche se questa è tradotta, nella pratica, più come un mantenimento dello "status quo" che nel concetto di imprenditore per la quale si era, forse, formulata): tutto ciò frantuma la struttura monolitica autoreferenziata che aveva solo il compito di gestire il mandato del Potere e sè stessa, ma non lo Stato sociale.

L’introduzione dell’autonomia, anche economica, dei centri di costo e del controllo degli outcomes, cioè dei risultati degli interventi che devono essere efficienti ed efficaci, creano, già da soli, elementi completamente nuovi nella gestione della P.A.

Elementi che vengono avvertiti come necessari per rispondere a bisogni che, a motivo della frantumazione delle basi sociali, non sono più inquadrabili in "categorie" che fino ad ora erano aumentate in numero, ma in maniera limitata nel tempo e nel modo, mentre ora nella società flessibililizzata sono divenuti particellizzati fino a divenire tanti quanti sono gli individui.

Pertanto la P.A. avverte l’urgenza del cambiamento dovendo ripondere ai bisogni quotidianamente emergenti, ma non avendo la mentalità d’impresa per es del "just in time", impiegata, però, come strumento per rispondere adeguatamente ad essi, tenta di adeguare sè stessa per mantenere l’omeostasi della sua struttura.

A proposito del "just in time": Ohno [b] "inventa" il toyotismo in un momento di crisi del Giappone post-guerra che deve rispondere con la qualità ad un mecato “particellizzato”, a costi bassi, senza grandi risorse economiche, contro concorrenti dotati di mezzi formidabili.

Le premesse per trasportare l’ohnismo nel sociale, cioè, il concetto d’impresa sociale, come strumento e non come fine!, trova suggestive similitudini.

Il monopolio bilaterale

In un sistema di mercato il cittadino e la P.A. costituiscono un esempio di monopolio bilaterale, termine che definisce un sistema nel quale c ’è un solo produttore od erogatore di servizi, in questo caso la P.A., ed un solo acquirente, nel nostro caso il cittadino.

Solo che il cittadino che, avendo votato i propri rappresentanti politici ai quali compete la gestione della cosa pubblica attraverso la P.A., costituisce, o dovrebbe costituire, il committente sociale della stessa P.A. ed avere il potere monopsonico, termine economico che definisce un mercato in cui c’è un singolo acquirente.

Questa situazione di committente e di monopsonista rendono, sulla carta, il cittadino fortissimo nei confronti della P.A..

In realtà, perdurando il "male antico", questa, strumento del Potere, considerando i cittadini quali sudditi inverte il processo, v. l’errore fondamentale di Giannini.

Tenta di adeguarsi, ma poichè vengono emanate sempre nuove Leggi o Norme nel tentativo di adeguarsi agli emergenti bisogni sempre più numerosi e “particellizzati” e poichè il mandato che si affida alle Direzioni operative sul territorio viene fornito " in generale" cioè espresso come solo mandato od è indicato il processo, ma non le procedure che lo rendono, poi, praticamente applicabili, finisce che le direzioni periferiche, quelle cioè operative, improvvisano l’interpretazione applicativa.

Si ha, di fatto, una flessibilità solo che è inversa: calata dall’alto per necessità della struttura e non nascente dai bisogni di popolazione.

Abbiamo così, comunque gli effetti della globalizzazione, ma non, almeno, gli aspetti positivi di risposta efficiente ed efficace!

La Direzione generale vive distaccata dalla realtà operativa in una fase più "politica", la Direzione periferica, più a contatto con i cittadini, vive il decentramento come un momento di distacco, "orfana" delle direttive del vertice, ed improvvisa la quotidianità, senza neanche essere mentalmente preparata al lavoro di gruppo (che non è la stessa cosa di creare gruppi di lavoro) ed organizzando staff o gruppi finalizzati non tanto alla risoluzione dei problemi, quanto all’"infinità del fare" del già citato L. Barca2: il far per il fare e non per risolvere i problemi che dovrebbero costituire l’alfa e l’omega della struttura stessa.

La piccola, fondamentale, Direzione periferica, non delegando, per timore di perdere potere in questo momento in cui vede un pò tutto modificarsi, finisce per esser soffocata dalla quotidianità, non solo, ma finisce anche, dopo un pò, per non da risposta nè a questa nè a rispondere alla sua funzione più precipua di direzione; se la prima è un’assunzione impropria di ruolo, finiamo per avere anche una "vacatio" di ruolo specifico.

Acefala la Direzione generale per distacco, bloccata la piccola Direzione per soffocamento da quotidianità, come si comportano gli operatori?

Sono stati coinvolti con l’attivazione di formazione ed aggiornamento, ma spesso quando andiamo a questi corsi non riconosciamo neanche la nostra struttura ove lavoriamo da tanti anni, perchè ce ne viene presentata una aulicizzata ed idealizzata lasciandoci, troppo spesso, il vuoto dell’inutilità di questa cosidetta formazione che sembra finalizzata più alla necessità di "aver fatto" (v. l’infinità del fare!) formazione o di mantenere le Unità di formazione piuttosto che finalizzata ai discenti, ma non ci dobbiamo meravigliare: è il solito "male antico" nel moderno.

I lavoratori vengono spinti all’attivazione personale: lo stipendio base può essere aumentato partecipando alle cosidette progettualità obiettive.

Sulla carta tutto bene, ma poichè, almeno in questa fase, gl’incentivi "calano a pioggia" e non sono, quasi mai, legati ad un reale obiettivo raggiunto, stiamo inculcando una reazione difensiva nel lavoratore che sempre più stà considerando il proprio stipendio come se fosse un reddito da cittadinanza, mentre i cosidetti compiti d’istituto vengono sempre più visti come attività che devono essre retribuite a parte con un momento economicamente incentivante.

Ancheperchè la partecipazione a tali progettualità và segnalata sulle "note caratteristiche" che, cacciate dalla porta, stanno rientrando dalla finestra chiamandosi ora "indice di produttività"

E che dire: con che spirito l’operatore deve lavorare, se la quota incentivante maggiore va sempre alla Direzione che partecipa, troppo spesso, per il solo fatto di esistere?

Mi torna in mente una frase di Sylos Labini [b], il quale a proposito della P. A. dice che essa pensa sempre che: "prima charitas, charitas mei est".

Gli operatori della P.A. costituiscono il front-line con i cittadini con i quali condividono i bisogni, essendo cittadini anch’essi con le stesse identiche necessità.

Ogni operatore essendo costretto a dare una risposta individualizzata al problema burocratico nella sua vita lavorativa quotidiana, ove gli capitasse d’imbattersi in un suo personale problema sa la "strada giusta" per risolverlo, ma solo se il problema è all’interno della struttura che conosce, mentre se il suo bisogno è competenza di altra amministrazione è consapevole che anche lì esiste una "strada giusta", ma che, stavolta, altri e non lui sa.

Allora diviene comprensibile, anche se mai giustificabile, il comportamento a volte scortese od apatico degli operatori della P.A.: "scaricano" sugli altri le tensioni che sentono in loro e non sono in grado di positivizzarle in un confronto dialettico per es. con l’amministrazione.

Il personale dello Stato, il classico impiegato, dovrebbe avere la possibilità di essere orgoglioso di svolgere una funzione così importante all’interno della struttura gestionale della Stato stesso. Se solo tutti noi ci riflettessimo e l’impiegato ne prendesse coscienza!

La sindrome del burn-out, il mobbing, la tensione sociale, la litigiosità del futile ogni momento crescente, in poche parole il profondo disagio sociale non è causato nè dalla "mucca pazza", nè dalle onde elettromagnetiche, o, per lo meno, non solo: l’isolamento entro il quale ciascuno viene sempre più sospinto ci costringe a difendere la nostra individualità per non scomparire nel nulla di una società massificata in cui, per altro, c’è l’esaltazione del personaggio, non importa se positivo o negativo, e dell’ "eroe". Il monadismo accentua però, per definizione, la differenza tra i singoli, ci accomunano solo le mode eteroindotte , per dirla alla Riesman [b], quasi sempre dal mercato, che ci sembrano far vivere un effimero, per motivo e durata, momento sociale.

Il considerarci sempre di più fortemente singoli imprenditori non ha però aspetti solo negativi, perchè come dice Huizinga ne "l’autunno del medio evo", citato da Riesman:... "con lo sviluppo dell’autocoscienza e dell’individualità la gente doveva assestarsi nel mondo in nuove forme".

"È meglio sbagliare con il partito che aver ragione da soli" (Berthold Brecht)

Se riusciremo a compiere il passaggio da individui chiusi in sè, ma che proprio per questo hanno preso coscienza di sè stessi, ed esprimere collettivamente i bisogni comuni, inizieremmo a compiere il passaggio da sudditi a cittadini.

La critica sociale costruttiva, ricordiamo sempre che lo Stato è costituito da tutti noi, e non è un’entità a sè stante, la collettivizzazione della richiesta di efficienza ed efficacia della P.A., oggi può apparire come un’idea giacobina (qualcuno ha detto, però, anche, che la vera rivoluzione è la normalità).

Pensiamoci un attimo: non è un’idea nè conservatrice, nè rivoluzionaria: se il concetto d’impresa generalizzata nella società è una realtà, altrettanto "normale" dovrebbe essere il passaggio da una forma, per così dire, classica di sindacato ad un’altra forma.

In fondo ci sono o si propongono vari modi di essere sindacato, v. ’d’industria’, ’d’impresa’, ma se si intende per tale una struttura di rappresentanza e tutela allora un sindacato di cittadini esprimerebbe e garantirebbe collettivamente i bisogni sociali e rappresenterebbe, a mio avviso, una sorta di trasversale trait d’union tra i singoli cittadini, i partiti politici, che comunque rimangono insostituibili espressioni democratiche, lo Stato e, conseguentemente, la P.A.

In questo modo, con una collettivizzazione partecipata, propositiva, e perciò, positivamente critica (ecco la critica sociale!) che ’aggiorni’ ’just in time’, un pò come i circoli di qualità [b], l’operato della strutture, pronte al recepimento, ai bisogni emergenti mi auguro che si possa provare a trovare una via di soluzione ai mali antichi e nuovi della P.A.

In fondo, in un Contratto Sociale non trova una giusta collocazione un sindacato sociale?

Sindacato che, attivando la sua specifica azione di tutela, diventa garante del corretto funzionamento del gestore, lo Stato, della volontà popolare; quindi non parte contro parte, ricordiamoci che siamo in un monopolio bilaterale, ma due modi diversi di un tutto unico, in un modello sociale ove le modifiche degli inevitabili cambiamenti si positivizzino in un confronto, instaurando la "cultura del dialogo", e non siano negativizzate nella "cultura dell’indifferenza" o nella "cultura del conflitto" che non conducono da nessuna parte e non convengono a nessuno.


[b] Luciano Barca Convegno Ambiente e lavoro: “Contraddizione ambientale e mercato del lavoro” da Proteo N° 3/ 2000 pag 8.

[b] Luciano Barca “Del capitalismo e dell’arte di costruire ponti”, Donzelli Editore Roma 18/2/2000.

[b] Ohno T. “L’esprit toyota” Ed. Masson Paris 1989.

[b] Dario Rei “Servizi sociali e politiche pubbliche”, Ed. N.I.S Roma 1994.

[b] David Riesman “La folla solitaria”, Ed Il mulino Bologna 1956.

[b] Giorgio Merli “I circoli di qualità”, Ed. Lavoro Roma 1986.