Stato, regioni e autonomie locali: il trasferimento delle funzioni legislative ed amministrative tra norme ordinarie e Costituzione
Arturo Salerni
Nel precedente numero di Proteo abbiamo passato in
rassegna sia pure in termini generali gli interventi - anche in corso di
approvazione - di modifica costituzionale e sul piano della legislazione
ordinaria nell’ambito del complesso tema della ripartizione delle funzioni tra
Stato, Regioni ed Autonomie Locali. |
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Riforma costituzionale e mondo del lavoro
Abbiamo illustrato alcuni elementi della proposta di legge
costituzionale di modifica al titolo quinto della Costituzione. Quella proposta
è stata approvata - in seconda deliberazione, con la maggioranza dei suoi
componenti - dal Senato della Repubblica nella seduta dell’8 marzo 2001.
L’art. 138 della Costituzione detta le regole per il
procedimento di revisione costituzionale.
Il meccanismo previsto è il seguente: “Le leggi di
revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da
ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre
mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera
nella seconda votazione.
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando,
entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei
membri di una camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La
legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla
maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata
nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei
suoi componenti”.
Orbene, non essendosi raggiunto il quorum previsto dal terzo
comma dell’art. 138 (e cioè i due terzi dei componenti di entrambe le camere)
ed a seguito della richiesta proveniente sia dalla maggioranza che dall’opposizione,
si andrà al referendum confermativo. E cioè la modifica costituzionale sarà
promulgata solo se approvata dalla maggioranza dei voti validi degli elettori,
indipendentemente dal numero di coloro che si recheranno alle urne.
Il 13 maggio 2001 si terranno le elezioni politiche, ed in un
primo momento si era ritenuto (da parte degli esponenti dei diversi schieramenti
politici) che la data del referendum confermativo potesse coincidere con quella
prevista per il rinnovo delle Camere. Tale ipotesi è successivamente svanita,
ma il confronto referendario è inevitabile.
Nella vicenda si è peraltro inserita la nota polemica sul
referendum consultivo chiesto in tema di trasferimento di funzioni dallo Stato,
nel campo della sanità e dell’istruzione oltreché della polizia locale,
dalla Regione Lombardia, e questa polemica rischia di far perdere di vista
(inserendola nell’ambito di uno scontro elettorale) la vera natura dello
scontro in atto. [1]
La necessità di affrontare le urne e la consultazione
popolare sulla questione della modifica del rapporto tra lo Stato, le Regioni e
le autonomie locali ci costringe a riflettere sulla portata ed il senso della
modifica introdotta nell’ultimo scorcio della XIII legislatura: si conoscono
le posizioni (pur sempre mutevoli) assunte dai partiti, ma spesso le reazioni
sono dettate più da esigenze contingenti di natura politico-elettorale che da
una reale valutazione di che cosa è in gioco e di cosa si sta mettendo in
campo.
Va notato che in un incontro recente [2] alcuni
esponenti di primo piano del centro-sinistra, ovvero dello schieramento che ha
fatto approvare la riforma, hanno sostenuto che la modifica costituzionale in
effetti è stata un po’ affrettata e che i suoi contenuti andavano sicuramente
migliorati [3].
Si verifica sul federalismo ciò che si è determinato al
tempo della Commissione bicamerale istituita per cambiare la seconda parte della
Costituzione: un panorama sconfortante di spostamenti tattici, di balletti
frenetici, sullo sfondo di una concezione della vita democratica sempre meno
caratterizzata da effettiva rappresentanza degli interessi sociali e da reale
partecipazione popolare.
Anche in questo caso uno schieramento urla alla vittoria (sia
pure per pochi giorni o addirittura per poche ore) per il solo fatto di essersi
compattato e l’altro grida al colpo di mano, salvo il giorno dopo assumere la
posizione opposta.
Certo - anche con riferimento a questo scenario - alcune idee
di fondo legano i due grossi schieramenti politici del Paese.
Al di là di queste grida, il compito che la rivista si sta
assumendo (ed intende assumersi in futuro) è quello di indagare ciò che si
verifica nel sempre magmatico rapporto tra questione istituzionale e sfera
economico/sociale, tra le forme che assumono la politica e la rappresentanza
degli interessi e gli assetti complessivi della nostra formazione sociale, ed in
particolare quanto tale dialettica investa il mondo del lavoro (e le sue forme
giuridiche), avvertendo distintamente il senso di pericolo ingenerato da un
disinvolta valutazione delle problematiche relative alla fissazione ed allo
svolgimento delle regole democratiche e dei principi che dovrebbero comunque
informare il sistema politico nel suo complesso.
Compito di questo dossier è anche quello di ripercorrere la
vicenda del decentramento delle funzioni e di ciò che questo determina sotto il
profilo delle funzioni e delle attività di chi svolge il proprio lavoro alle
dipendenze della Pubblica Amministrazione.
Va peraltro fatto notare che, attraverso l’approvazione a
maggioranza della modifica costituzionale ed il mancato coinvolgimento dell’opposizione,
si viene a determinare un precedente pericolosissimo: da ora in poi ogni
schieramento politico maggioritario in Parlamento si sentirà di intervenire a
colpi di maggioranza sul testo costituzionale. Certamente non è possibile
prevedere quale sarà il possibile limite ad interventi di riforma
costituzionale, su quali parti della costituzione si interverrà, quanto dell’originario
assetto costituzionale risulterà modificato o stravolto, sia sul piano dell’affermazione
dei diritti che sul piano dei rapporti tra i diversi organi costituzionali e del
loro funzionamento.
2. Ritorniamo al testo approvato dal Parlamento: esso
costituirà inevitabilmente il punto di riferimento non solo della necessaria
prossima elaborazione degli Statuti regionali (prevista dalla legge
costituzionale n.1 del 1999 [4]) ma
anche della normativa ordinaria in tema di decentramento delle funzioni.
Ma non solo: tutti dobbiamo avere la piena consapevolezza che
ove ratificata - la recente modifica della Costituzione comporta il fatto che
in gran parte delle materie la competenza legislativa passa, in via esclusiva o
in via concorrente, alle regioni (siano esse a statuto ordinario o a statuto
speciale) [5].
Lo Stato nella riforma - infatti - è solo una delle entità
che compongono la Repubblica (insieme a Comuni, Province, Regioni e Città
metropolitane), ed i suoi compiti sul piano legislativo sono limitati ed
espressamente indicati, senza alcuna funzione che lo collochi in posizione
sovraordinata rispetto alle altre entità che fanno parte della Repubblica.
Se ci soffermiamo sulle questioni attinenti le politiche
sociali e del lavoro - richiamando sotto tale profilo l’elencazione
integralmente riportata nel primo numero di questo dossier [6] con riferimento alla nuova formulazione dell’art. 117 della Costituzione
ci accorgiamo che la previdenza sociale rientra nelle materie di esclusiva
competenza legislativa dello Stato (lett. o) mentre la “previdenza
complementare ed integrativa” rientra nella cosiddetta legislazione
concorrente, ovvero in quel campo in cui la potestà legislativa spetta alla
Regione “salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali,
riservata alla legislazione dello Stato”.
Certo occorrerà tempo ed impegno interpretativo per
distinguere, ad esempio, sul rapporto tra la potestà legislativa esclusiva
dello Stato in materia di previdenza sociale, e potestà legislativa dello Stato
per la fissazione dei principi fondamentali e potestà legislativa delle Regioni
per la materia della previdenza complementare ed integrativa.
Non possiamo fare a meno di immaginare una serie costante di
conflitti avanti la Corte Costituzionale, organo al quale lo Stato può
rivolgersi quando ritiene che una legge regionale ecceda la competenza della
Regione così come la Regione “quando ritenga che una legge o un atto
avente valore di legge dello Stato o di un’altra Regione leda la sua sfera di
competenza” (art. 127 della Costituzione, nella nuova formulazione).
Ma andiamo ancora avanti: ciò che appare veramente
incredibile si è realizzato.
La competenza legislativa in tema di “tutela e sicurezza
del lavoro” passa alle Regioni, salvo che per la determinazione
dei principi fondamentali (laddove, a mente del terzo comma dell’art. 117
della Costituzione “riformata”, la potestà resta riservata al
Parlamento nazionale).
Se è evidente cosa si intende per “sicurezza” del
lavoro, ovvero la materia oggi compiutamente disciplinata dal Decreto
legislativo 626 del 1994 in attuazione di una direttiva comunitaria, più
complesso diventa definire con certezza cosa debba essere compreso nel termine
“tutela” del lavoro. Si consideri infatti che l’”ordinamento
civile” rientra nell’attribuzione esclusiva della legislazione statale
(art. 117, secondo comma, lettera l).
Oltre a prevedere anche in questo caso una messe infinita di
ricorsi all’organo di giustizia costituzionale competente a decidere nell’ipotesi
in cui Stato e Regione contendano tra loro in ordine a chi spetti la competenza
a legiferare rispetto ad una o ad altro aspetto della legislazione lavoristica,
quello che si avvia è un processo di progressiva frantumazione della normativa
sul lavoro, un’onda che investe il concetto stesso di contrattazione
collettiva nazionale di lavoro nella direzione evidente della introduzione di
“gabbie salariali”.
Non si tratta di ordinaria amministrazione, si tratta di un
rivolgimento che rischia di essere decisivo: chi stabilirà concretamente la
disciplina dei licenziamenti (le cause di legittima risoluzione del rapporto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato e le conseguenze dell’accertamento
dell’illegittimità dei licenziamenti), del diritto di sciopero, dei lavori
atipici o a termine? Ed uno spezzettamento delle discipline determinerà anche
un mutamento delle condizioni contrattuali e dei minimi retributivi?
Insomma - se ben guardiamo la configurazione del nuovo testo
dell’art. 117 della Costituzione - ci accorgiamo che mentre i principi
fondamentali della normativa a tutela del lavoro vengono attributi alla
legislazione dello Stato tutta la legislazione di dettaglio resta affidata alle
Regioni.
Torniamo allora alla questione dei licenziamenti (ovvero ad
una materia su cui ci si è confrontati nel recente passato in occasione della
tornata referendaria del maggio 2000): potrebbe stabilirsi in sede di
determinazione dei principi fondamentali - ovvero nell’ambito della potestà
legislativa dello Stato - che il licenziamento non può avvenire senza giusta
causa o giustificato motivo e che al licenziamento che difetta di tali
presupposti (cioè il licenziamento illegittimo) debba seguire necessariamente
una sanzione. La legge regionale si troverebbe così nella condizione di
scegliere quale sia la conseguenza del licenziamento illegittimo: se la tutela
obbligatoria (ovvero la monetizzazione del licenziamento illegittimo) o se
invece la tutela reale (cioè la reintegrazione del lavoratore ingiustamente
licenziato nel proprio posto di lavoro). Ed ancora nell’ambito della tutela
obbligatoria le possibilità possono varia da una minima determinazione del
risarcimento del danno (una mensilità) a conseguenze dai contenuti economici
molto più rilevanti.
E noi dobbiamo porre questo ragionamento in uno scenario più
vasto, anzi nello spirito e nella filosofia che informano l’intero intervento
sul titolo quinto della parte seconda della Costituzione: ovvero la logica della
concorrenza tra ambiti territoriali.
Utilizzare la normativa sul lavoro (e la presenza di un
numero minore di garanzie in favore dei lavoratori dipendenti) quale elemento
differenziale tra diverse aree, nel senso di rendere più appetibile l’investimento
in taluni territori, in cui la legge regionale sancisce l’esistenza di minore
rigidità (per esempio sugli ingressi o sui licenziamenti) diventa uno scenario
assolutamente credibile ed addirittura di possibile immediata realizzazione.
Più statuti dei lavoratori, aree geografiche con un sempre
più ridotto nocciolo di diritti per i dipendenti e per i loro sindacati, in una
spirale costantemente al ribasso. Differenziazione delle condizioni normative (e
delle disposizioni in tema di sicurezza dei lavoratori) quale presupposto per
una diversificazione anche dei minimi salariali.
Diverse normative regionali e differenti contratti
collettivi: questo è ciò che può accadere nel caso in cui il referendum
popolare avesse come esito l’approvazione della riforma.
E quanto potrebbe incidere, anche sul piano della
appetibilità dei territori, nel senso di promuovere investimenti di capitali
una differenziazione della normativa sugli scioperi, non solo limitata ai
pubblici servizi?
E quanto ancora una differente disciplina - sia nel settore
pubblico che nel settore privato - delle regole in tema di rappresentatività e
rappresentanza sindacale?
[1] Avverso tale referendum peraltro Progetto Diritti ed altre
associazioni hanno promosso un ricorso avanti al Tribunale Amministrativo
Regionale della Lombardia.
[2] Tenutosi a Roma il
2.4.2001 e di cui da notizia un articolo del Manifesto del 3.4.2001.
[3] Si tratta - secondo quanto indicato dall’articolo del Manifesto di
cui alla nota 2 - di D’Alema, Bassanini e del Ministro Loiero.
[4] Riforma della quale si è ampiamente trattato nella
prima parte di questo dossier (Proteo 3, 2000 - pagine 38 e seguenti).
[5] Regioni a statuto speciale - ai sensi dell’art. 116 della
Costituzione - sono la Valle d’Aosta, la Sicilia, la Sardegna, il Trentino
Alto Adige ed il Friuli Venezia Giulia, cui “sono attribuite forme e
condizioni speciali di autonomia secondo statuti speciali adottati con leggi
costituzionali”.
[6] Proteo 3/2000, pag.
40.