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Trasformazioni sociali e diritto

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Arturo Salerni
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Associazione Progetto Diritti; Membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo

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Stato, regioni e autonomie locali: il trasferimento delle funzioni legislative ed amministrative tra norme ordinarie e Costituzione

Arturo Salerni

Nel precedente numero di Proteo abbiamo passato in rassegna sia pure in termini generali gli interventi - anche in corso di approvazione - di modifica costituzionale e sul piano della legislazione ordinaria nell’ambito del complesso tema della ripartizione delle funzioni tra Stato, Regioni ed Autonomie Locali.

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Soglie più alte per il conferimento della sufficiente rappresentatività, riduzione del numero dei sindacati titolari dei diritti e per questa via (anche per questa via) riduzione del grado di conflittualità sociale.

Credo sia incontestabile che l’esistenza di una pluralità di condizioni normative, così come di tipologie contrattuali [1], determina un complessivo indebolimento delle possibilità di contrattazione delle condizioni giuridiche e retributive per l’intero mondo del lavoro dipendente.

Le false chimere del federalismo ad oltranza portano a costruire nelle regioni più ricche un immaginario per cui il mondo del lavoro (in termini indifferenziati), e cioè coloro che concorrono alla produzione di beni e servizi, nelle regioni più ricche del settentrione d’Italia liberandosi del fardello della redistribuzione territoriale degli introiti fiscali potrebbe usufruire di una consistente diminuzione del carico fiscale.

Un giovamento significativo quindi per le singole imprese ed i singoli lavoratori residenti nelle regioni economicamente più robuste tale da determinare un considerevole aumento dei redditi. Ciò evidentemente unito alla rottura dell’uniformità delle prestazioni sociali ed assistenziali, evidenziabile dal complesso delle disposizioni di modifica costituzionale, e dalla allocazione delle entrate fiscali in ragione delle loro aree di provenienza.

Ma sappiamo bene - per constatazione logica e per insegnamento della storia - che dare al padronato la possibilità di scegliere dove investire in relazione alle differenze esistenti in ragione del costo della manodopera, della rigidità di utilizzo della stessa, degli oneri derivanti dalla necessità di determinare dispositivi di sicurezza degli impianti significa determinare una spirale al ribasso (il cui livello minimo non è a priori individuabile) nelle condizioni di vita dei lavoratori subordinati ed un generale peggioramento delle normative poste a tutela del lavoro, in un clima di divisione sul piano politico e sindacale.

Sappiamo quanto la Confindustria abbia salutato con favore il percorso di modifica costituzionale ed istituzionale nella direzione del federalismo, e ciò non soltanto con riferimento alla devoluzione in favore della legislazione concorrente delle normative in tema di tutela e sicurezza del lavoro.

Il percorso che si è avviato - e rispetto al quale le forze di centrodestra ed i governi delle Regioni del Nord Italia chiedono un ulteriore approfondimento, una devolution più marcata [2] - determina la possibilità di muoversi nella jungla degli incentivi fiscali differenziati, dei patti territoriali di sviluppo gestiti autonomamente dalle regioni, delle “condizioni per lo sviluppo” che si traducono in agevolazioni di vario tipo (costo del lavoro, tipologie contrattuali, normative di carattere urbanistico, etc.), ma anche la gestione da parte delle Regioni e degli Enti Locali della politica delle grandi opere pubbliche compresi porti ed aeroporti, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, “ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi”.

È ovvio che la possibilità per i grandi gruppi economici di trattare con Regioni ed Enti Locali apre per le imprese possibilità diverse, anche sotto il profilo della forza contrattuale e della capacità di determinare le scelte degli organismi pubblici, rispetto a quelle offerte dal rapporto negoziale con lo Stato: basta immaginare il rapporto che potrebbe esistere tra una grande impresa multinazionale che promette un investimento notevole di capitali (con le conseguenze in termini di occupazione e di ricavi fiscali) ed una regione meridionale medio-piccola alla quale (sia pur nel rispetto dei principi fondamentali, la cui determinazione è riservata alla legislazione dello Stato) viene chiesto di introdurre modifiche in tema di tutela e sicurezza del lavoro in cambio di significativi investimenti.

3. Sul piano fiscale - per restare ad un’altra questione che, combinandosi con quelle trattate, assume rilievo centrale rispetto al ragionamento che si sta sviluppando - resta affidato alla legislazione esclusiva dello Stato il “sistema tributario e contabile dello Stato” unitamente alla materia della “perequazione delle risorse finanziarie” (art. 117, comma secondo lettera e), mentre si attribuisce alla legislazione concorrente la materia così descritta: “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica” (art. 117 Cost. terzo comma). Ovvero lo Stato avrà il potere legislativo esclusivo su sistema tributario e perequazione delle risorse finanziarie ed il potere legislativo per la determinazione dei principi fondamentali per ciò che concerne il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ma la potestà legislativa passa alle Regioni.

Anche qui un guazzabuglio di dimensioni notevoli, ma la direzione ed il senso di marcia sono al tempo stesso evidenti: valore interpretativo riveste in tal senso la nuova formulazione dell’art. 119 che conviene richiamare.

Innanzitutto il nuovo articolo 119 contiene il principio dell’attribuzione a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni di “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”. Ed ancora in esso si afferma che detti enti hanno risorse autonome e “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Essi “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio” e le risorse di cui dispongono consentono di “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”. Inoltre vi è il principio per cui lo Stato istituisce un fondo perequativo per i “territori con minore capacità fiscale per abitante” e destina risorse aggiuntive in favore di enti determinati per favorire lo sviluppo.

Ovvero abbiamo una attribuzione di sempre maggiori poteri sul piano della determinazione ed applicazione dei tributi in favore della Regione e degli Enti locali, da stabilirsi nel quadro di alcuni principi - per lo più attinenti alla funzione di coordinamento - la cui fissazione spetta alla potestà legislativa dello Stato.

Si tratta di una evidente rideterminazione delle funzioni e dei poteri, che significa non solo possibilità di differenziazione in relazione alle collocazioni territoriali dei carichi fiscali nei confronti dei cittadini e delle imprese, l’utilizzo articolato della leva fiscale con riguardo alla possibilità di attrarre capitali ed investimenti, ma anche la differenziazione delle capacità di spesa (e quindi anche di spesa riferibile alle prestazioni sociali) tra regione e regione.

Se consideriamo ancora quanto già argomentato nella prima parte del dossier in ordine alla spesa sociale (ed alla evidente articolazione dell’offerta scolastica sul piano territoriale, resa possibile dalle indicazioni contenute nella modifica costituzionale con riferimento alla voce “istruzione”, le cui norme generali sono solo apparentemente lasciate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, e dalla recente costruzione normativa dell’autonomia scolastica) vien fuori un quadro così variegato da rendere difficile - se non attraverso una ricerca più minuziosa e dettagliata da condurre nei prossimi mesi - anche un abbozzo del quadro normativo, della redistribuzione delle competenze e di ciò che sarà lo scenario dei diritti e della vita sociale nei diversi ambiti territoriali del nostro Paese.

E questo scenario va collegato al fatto che “un altro aspetto caratterizzante della riforma sta nell’ingresso trionfale del principio di sussidiarietà, sia in senso verticale che in senso orizzontale”  [3].

Sul piano della cosiddetta sussidiarietà in senso orizzontale, ovvero del principio contenuto nell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione (“Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”) va detto che la nuova formulazione non solo rende legittima (con qualche limitazione ricavabile da altri articoli della Costituzione) “la devoluzione ai privati di attività di interesse generale, ma addirittura obbliga gli enti pubblici a giustificare, in base al principio di sussidiarietà, l’assunzione in proprio di tali attività, giacché esse in principio, se i cittadini singoli e associati sono in grado di svolgerle, spettano a loro e non agli enti pubblici. Scuola, sanità, assistenza, previdenza, cultura e in generale tutti i servizi sociali vanno svolti anzitutto dai privati, e poi, solo se questi si dimostrano incapaci di assicurarli, possono essere assunti dagli enti pubblici. Le sole attività di interesse generali che non possono essere attribuite ai privati sono quelle che comportano poteri autoritativi, e cioè poteri di imposizione di obblighi e divieti: è da ritenere che, in forza della restante parte della Costituzione, solo atti dei poteri pubblici possano imporre obblighi e divieti. Tutta la prima parte della vigente Costituzione, per quanto riguarda i servizi sociali, diventa ufficialmente carta straccia (si pensi, per contrasto, alla formulazione dell’art. 33, secondo comma: “La Repubblica ...istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”, con cui, esattamente all’opposto di quanto dice il principio di sussidiarietà, lo Stato ha comunque l’obbligo di istituire scuole per tutti gli ordini e gradi). Nel migliore dei casi si assisterà a lotte furibonde nelle diverse sedi sulla opportunità o meno di affidare ai privati questo o quel servizio pubblico”. [4]

A questo punto la scadenza che coinvolgerà il paese non potrà che essere il referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione, la cui data di svolgimento non è dato conoscere al momento in cui quest’articolo va in stampa: le forze politiche e sociali saranno chiamate ad esprimersi sul complesso delle variazioni introdotte. Noi crediamo di poter fornire attraverso queste prime - e per forza di cose ancora superficiali - valutazioni alcuni elementi di valutazione, sul senso complessivo della riforma, sulle dinamiche ulteriori che essa può attivare, sui gravi pericoli che minacciano complessivamente il mondo del lavoro dipendente, le sue potenzialità di complessiva sindacalizzazione e vertenzialità, i gravi attacchi - ulteriori rispetto agli incisivi fendenti che già sono stati portati al welfare state
 che si profilano ai diritti sociali.

Altro elemento decisivo diventa l’adozione da parte delle Regioni dei propri statuti, così come previsto dalla legge costituzionale 1/1999: un vero e proprio potere costituente in capo all’ente regione, le cui competenze - specie legislative - risultano modificate ed arricchite (nel senso che abbiamo visto) ad esito della riforma costituzionale del 2001.

4. Ulteriore elemento di riflessione è quello relativo alla necessariamente crescente conflittualità tra Regioni ed autonomie locali dovuto anche ad una strutturazione delle norme tale da ingenerare solo confusione, sia in termini generali che con riguardo alle specifiche attribuzioni in determinate materie.

La regola generale è che le funzioni amministrative sono attribuire in generale ai Comuni. Cioè sono attribuite ai Comuni “tutte le funzioni amministrative, salvo quelle attribuite ad altri soggetti. Il problema naturalmente (tralasciando la sorpresa di un’attribuzione generale ai Comuni di tutte le funzioni amministrative, che costituirebbe un unicum nel mondo) è sapere chi ha il potere di sottrarre funzioni amministrative ai Comuni e attribuirle ad altri. Il primo comma dell’art. 118 si dimentica semplicemente di questo punto cruciale: usa la forma passiva (“le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato...”)”. [5]

Afferma Rescigno, nel commento alla riforma costituzionale apparso sulla “Rivista del manifesto”, che il secondo comma complica il problema arrivando a sostenere qualcosa che si colloca all’opposto di quanto sostenuto nel comma precedente. Infatti nel secondo comma dell’art. 118 si afferma: “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.

Quindi si parla, differenziandole, di funzioni amministrative proprie e funzioni conferite. Ma seguiamo ancora il ragionamento sviluppato da Rescigno, che evidenzia il panorama di caos istituzionale ed amministrativo che rischia di crearsi: “In primo luogo, per quanto riguarda i Comuni, si usa un nuovo aggettivo (“proprie” rispetto ad “attribuite”), e questo fa nascere il sospetto che si tratti di due cose diverse; in secondo luogo, nel primo comma le funzioni attribuite sono tutte meno quelle “conferite” (da qualcuno con un proprio atto, evidentemente, ance se non sappiamo ancora chi e come), mentre nel secondo comma si fa distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite di Province e Città metropolitane, cosicché per questi enti non tutte le funzioni amministrative sono conferite, in contraddizione col primo comma; in terzo luogo, quel che è più grave, le funzioni proprie spettano anche a Province e Città metropolitane, cosicché se le funzioni proprie dei Comuni sono le stesse di quelle chiamate “attribuite” nel primo comma, non è più vero che le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che siano conferite ad altri, giacché anche Province e Città metropolitane hanno funzioni “proprie-attribuite”; se invece le funzioni proprie sono diverse da quelle attribuite, non si capisce in che cosa consista la qualità di “proprie” rispetto ad “attribuite” e “conferite”; in quarto luogo, stabilito che le funzioni proprie spettano sia ai Comuni, sia alle Province sia alle Città metropolitane, se si dà alla parola “proprie” il significato “assunte per propria determinazione” (visto che non sono conferite), non si capisce come e chi riuscirà ad arbitrare i conflitti tra Comuni, Province e Città metropolitane che intendono attribuirsi la medesima funzione amministrativa da ciascuna considerata come propria”.


[1] Si veda sul punto il ragionamento contenuto nell’articolo “Tre percorsi, un obiettivo” di A. Salerni, in Proteo n. 0 dicembre 1997, pagg. 36 e seguenti.

[2] In tal senso si colloca l’iniziativa referendaria promossa dalla Regione Lombardia.

[3] Giuseppe Ugo Rescigno “Federalismo conflittuale - La riforma da riformare” in La rivista del manifesto, numero 16 aprile 2001, pag.16.

[4] G.U. Rescigno, ibidem.

[5] Ancora G.U. Rescigno nello scritto richiamato, pag. 17.