“The Federal Business Revolution”. Parte prima: i percorsi attuativi della “grande” riforma della Pubblica Amministrazione
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
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4. Il dirigente-manager: il nuovo “padroncino imprenditore” nell’impresa
del business pubblico
La riforma del pubblico impiego avvicina anche il settore
della dirigenza a quello dei dirigenti privati.
Il vecchio tipo di rapporto di pubblico impiego, basato su
gerarchie e formalità, su ruoli assicurati dal giudice amministrativo è ora
sostituito da un modello diverso, basato sulla cosiddetta “flessibilità” e
“mobilità” e verso un’idea dell’azienda -Stato come impresa della “Federal
Business Revolution”.
L’art.51 bis della legge 142/90 stabilisce la possibilità
per i comuni con più di 15.000 abitanti, di nominare un direttore generale che
deve sovrintendere la gestione del comune cercando di raggiungere i migliori
livelli di efficienza e efficacia. Infatti la legge 127/97 recita: “10. Dopo l’articolo
51 della legge 8 giugno 1990, n. 142, è inserito il seguente:
Art. 51-bis - Bassanini bis - (Direttore generale).
1. Il sindaco nei comuni con popolazione superiore ai 15.000
abitanti e il presidente della provincia, previa deliberazione della giunta
comunale o provinciale, possono nominare un direttore generale, al di fuori
della dotazione organica e con contratto a tempo determinato, e secondo criteri
stabiliti dal regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi, che
provvede ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di
governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente
della provincia, e che sovrintende alla gestione dell’ente, perseguendo
livelli ottimali di efficacia ed efficienza. Compete in particolare al direttore
generale la predisposizione del piano dettagliato di obiettivi previsto dalla
lettera a) del comma 2 dell’articolo 40 del decreto legislativo 25 febbraio
1995, n. 77, nonchè la proposta di piano esecutivo di gestione previsto dall’articolo
11 del predetto decreto legislativo n. 77 del 1995. A tali fini, al direttore
generale rispondono, nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti
dell’ente, ad eccezione del segretario del comune e della provincia.
2. Il direttore generale è revocato dal sindaco o dal
presidente della provincia, previa deliberazione della giunta comunale o
provinciale. La durata dell’incarico non può eccedere quella del mandato del
sindaco o del presidente della provincia.
3. Nei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti è
consentito procedere alla nomina del direttore generale previa stipula di
convenzione tra comuni le cui popolazioni assommate raggiungano i 15.000
abitanti. In tal caso il direttore generale dovrà provvedere anche alla
gestione coordinata o unitaria dei servizi tra i comuni interessati...”
Ora il nuovo art.22 della legge 142 del 1990 stabilisce che
“Gli enti locali, nell’esercizio delle funzioni di loro competenza,
provvedono ad organizzare i servizi pubblici, o segmenti di esse, con le
modalità di cui al presente articolo, ove il relativo svolgimento in regime di
concorrenza non assicuri la regolarità, la continuità, l’accessibilità, la
economicità e la qualità dell’erogazione in condizioni di uguaglianza...”. [1]
Ed allora è lecito chiedersi quali nuove funzioni specifiche
deve avere in generale il dirigente dell’impresa-Stato?
Gli art. 16 e 17 del d.lgs.n.29/93 stabiliscono la distribuzione dei compiti
e delle funzioni, sia dei dirigenti degli uffici dirigenziali generali sia di
quelli degli altri uffici dirigenziali [2]. Si stabilisce, tra
l’altro, che ai dirigenti spetta la responsabilità della gestione in modo
totale, comprendendo anche il potere di utilizzare provvedimenti amministrativi
non espressamente riservati agli organi politici. I dirigenti possono fare delle
proposte all’organo politico anche attraverso l’adozione di programmi e
piani definiti dal Ministro. Quest’ultimo, infatti, controlla l’operato dei
dirigenti attraverso nuclei di valutazione composti da esperti tecnici; il
Ministro comunque non può revocare o riformare le azioni proposte dai dirigenti
se non in caso di annullamenti dovuti a motivi di legittimità o di annullamento
straordinario. Vi è inoltre una ulteriore forma di controllo degli atti dei
dirigenti, ossia quella esercitata dal Parlamento sull’attività del governo,
dalla Magistratura (in merito alla legittimità) e dalla Corte dei Conti
(controllo della contabilità pubblica).
Il dirigente statale, in sostanza, diventa nei rapporti con il personale come
il datore di lavoro dei rapporti privati, un nuovo dirigente-manager con il
ruolo di padroncino-imprenditore. Infatti, [3] in sostanza, mentre i politici emanano gli atti normativi,
definiscono gli obiettivi, i programmi, e hanno la possibilità di fare delle
nomine ed assegnare degli incarichi, i dirigenti amministrativi dovranno gestire
il personale stimolandolo e coordinandolo al meglio ed inoltre hanno il compito
di gestire finanziariamente, tecnicamente e amministrativamente organizzando le
risorse umane e le strutture, anche attraverso una regolazione delle spese nell’ambito
delle risorse economiche attribuite; i dirigenti devono anche organizzare gli
uffici le attività di controllo e i rapporti con i sindacati. Si vede, in
questo senso, chiaramente il ruolo fondamentale da parte del dirigente-manager
soprattutto nello svolgere nuove funzioni di controllo coercitivo nei confronti
del personale, con logiche di gestione di rilevanza imprenditoriale in una
complessiva impresa del business pubblico. Infatti anche l’efficienza di un
dirigente si valuta in funzione del fatto che riesca o meno a raggiungere il
massimo risultato, con la migliore produttività e la massima efficienza.
Inoltre al dirigente amministrativo è richiesta anche, la
“giusta economicità dell’azione.....La PA ed i suoi dirigenti, che ne
effettuano il decision taking, sono insomma tenuti ex lege, ossia in base a
regole immodificabili e tendenzialmente permanenti, allo svolgimento di
attività legittime, eque e aperte alla partecipazione, che pervengano, quindi,
alla giusta efficacia” [4].
Tutto ciò è la conferma di affidare le funzioni pubbliche
ad una figura di manager che risponda ad una logica di mercato e ad una logica
di profitto incentrata sul taglio degli stipendi e taglio dell’occupazione,
quindi riduzione del costo del lavoro, politiche di efficienza e di
produttività privatistica all’interno della PA con agenzie che cominciano ad
essere delle “sottoaziende” private ancora compresenti nella struttura
pubblica, ma che poi dovranno sostituire interamente la struttura pubblica. Le
attività dello Stato vengono suddivise in missioni di business, cioè l’insieme
delle missioni dei ministeri costituisce i compiti dello Stato che sostituiscono
il ruolo di regolatore dei conflitti, come sovranità che dovvrebbe essere al di
sopra delle parti, per regolare conflitti che in una società normalmente sono
in essere; cioè uno Stato che dovrebbe fungere da regolatore per mettere
davanti gli interessi dei più bisognosi, dei meno abbienti, dei lavoratori
salvaguardando le fasce emarginate, quelle fasce marginali che appunto il
mercato non può assolutamente soddisfare. Oggi si supera questo tipo di logica
e si entra in un contesto assolutamente privatistico; le missioni allora sono
dei compiti che vengono a coordinare delle funzioni, che sono funzioni però di
uno Stato che si fa parte e non sopra le parti. Siamo, cioè, al passaggio dal
“Welfare State”, cioè lo Stato che doveva fare gli interessi anche dei più
deboli e quindi si doveva occupare anche delle politiche di benessere, al “Profit
State”, cioè lo Stato che non è più regolatore, non è più sopra le parti,
ma diventa la lunga mano della Confindustria, la lunga mano degli interessi del
grande capitale, la lunga mano degli interessi finanziari di questo Paese e dei
grandi gruppi di potere economico-finanziario internazionali. Quando si comincia
a parlare di missioni con potere di vigilanza che rispettino dei criteri di
bilancio comparati alla logica di mercato, allora significa che si è fatta una
scelta o si sta facendo una scelta all’interno della PA, che è quella del
profitto, delle compatibilità di mercato.
5. Privatizzazioni centrali e locali: la “Federal Busienss Revolution”
invade il sociale
Nell’ottica della trasformazione della PA si è visto che
le nuove normative prevedono la dismissione da parte dello Stato di una grande
parte di imprese pubbliche che gestivano in precedenza la maggior parte dei
settori di grande interesse collettivo (acqua, elettricità, trasporti, sanità,
istruzione, ecc.), anche a carattere di servizi pubblici locali.
Va innanzitutto ricordato che il programma di
privatizzazioni [5] prende definitiva forma nel nostro Paese negli anni ’80 e si
realizza seguendo tipologie diverse, soprattutto per tentare di rispondere a
logiche macro di politica-economica a connotati di liberismo puro, e a logiche
micro legate a modalità produttive e finalità gestionali adatte al tipo di
azienda considerata.
In Italia, a differenza degli altri paesi europei, non è
stata promulgata inizialmente alcuna legge, né si è svolto alcun tipo di
dibattito politico o sindacale sul processo di privatizzazione. Questa
situazione ha permesso ai grandi gruppi privati di diventare i maggiori
acquirenti delle imprese da cedere ed ha relegato i piccoli risparmiatori al
ruolo di spettatori ai margini del processo di privatizzazione.
Per quanto concerne i servizi pubblici a livello locale
(ci si riferisce al trasporto, alla luce, al gas, ai rifiuti urbani, alla
sanità, alla gestione di parchi e giardini), va ricordato che la formula di
solito adottata nel passaggio dalla gestione pubblica a quella privata, è stata
quella dell’appalto ad imprese private. Sono stati, cioè, affidati i compiti
di erogazione dei servizi ad aziende private che vengono direttamente o
indirettamente finanziate dall’autorità locale, la quale si riserva di
operare solo una sorta di controllo e di direzione dei lavori.
Lo stimolo alle privatizzazioni é stato - soprattutto negli
ultimi dieci anni - la necessità di risanare le finanze pubbliche, anche a
seguito delle pressioni derivarti dai processo di unificazione europea, e dei
conseguenti parametri di Maastricht di vero “soffocamento di ogni
compatibilità sociale”.
Il primo grande smobilizzo di attività nel sistema delle
Partecipazioni Statali si è avuto negli anni ’80 con oltre 70 casi di
dismissione dei principali enti di gestione (39 attribuibili all’IRI, 15 all’EFIM
e 21 all’ENI). Nel triennio successivo (1986-89) si rafforzano le tendenze
decisionali più di natura politica che di necessità economico-gestionale, in
modo da iniziare a coinvolgere nel processo di privatizzazione aziende e marchi
simbolo dell’economia italiana, coinvolgendo nei processi di cessione tutti e
tre i maggiori enti di gestione (IRI, ENI, EFIM).
Negli anni ’90 si è verificato in Italia il vero e proprio
processo di privatizzazione con l’intento di ridimensionare la presenza
pubblica nell’intero sistema produttivo del Paese. Le azioni del Governo di
questi anni confermano la volontà di attuare un programma completo di
dismissione delle aziende pubbliche per risolvere i problemi produttivi ed
economici dell’Italia.
Questo processo si è avviato in concomitanza alla
costituzione del Mercato Unico Europeo (1992). Gli intensi processi di
globalizzazione dell’economia a livello mondiale hanno portato il nostro Paese
a cercare una ipotetica soluzione dei problemi della concorrenza internazionale
con la cessione ai privati di interi settori di attività, ritenuti
inefficienti, con l’obiettivo di risanare in questo modo una situazione ormai
compromessa.
È a partire dal 1990 con la costituzione di una Commissione
Ministeriale (Commissione Scogamiglio), seguita poi da altri programmi di
Governo (Governo Andreotti 1991) che si è dato l’avvio a una serie di
interventi legislativi atti a delineare un programma di privatizzazione delle
imprese pubbliche.
[1] Cfr.
A. Quadro Curzio, M. Fortis (a cura di),”Le liberalizzazioni ...”, op. cit.,
pag.44.
[2] Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n.
29
Razionalizzazione dell’organizzazione delle Amministrazioni Pubbliche
e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego:
Art. 16 - Funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali
1. I dirigenti di uffici dirigenziali generali, comunque denominati, nell’ambito
di quanto stabilito dall’articolo 3 esercitano, fra gli altri, i seguenti
compiti e poteri:
a) formulano proposte ed esprimono pareri al Ministro, nelle materie di sua
competenza;
b) curano l’attuazione dei piani, programmi e direttive generali definite
dal Ministro e attribuiscono ai dirigenti gli incarichi e la responsabilità di
specifici progetti e gestioni; definiscono gli obiettivi che i dirigenti devono
perseguire e attribuiscono le conseguenti risorse umane, finanziarie e
materiali;
c) adottano gli atti relativi all’organizzazione degli uffici di livello
dirigenziale non generale;
d) adottano gli atti e i provvedimenti amministrativi ed esercitano i poteri
di spesa e quelli di acquisizione delle entrate rientranti nella competenza dei
propri uffici, salvo quelli delegati ai dirigenti;
e) dirigono, coordinano e controllano l’attività dei dirigenti e dei
responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con potere sostitutivo in
caso di inerzia, e propongono l’adozione, nei confronti dei dirigenti, delle
misure previste dall’articolo 21;
f) hanno il potere di conciliare e di transigere, fermo restando quanto
disposto dall’articolo 12, comma 1, della legge 3 aprile 1979, n. 103;
g) richiedono direttamente pareri agli organi consultivi dell’amministrazione
e rispondono ai rilievi degli organi di controllo sugli atti di competenza;
h) svolgono le attività di organizzazione e gestione del personale e di
gestione dei rapporti sindacali e di lavoro;
i) decidono sui ricorsi gerarchici contro gli atti e i provvedimenti
amministrativi non definitivi dei dirigenti;
l) curano i rapporti con gli uffici dell’Unione Europea e
degli organismi internazionali nelle materie di competenza secondo le specifiche
direttive dell’organo di direzione politica, sempreché tali rapporti non
siano espressamente affidati ad apposito ufficio o organo.
[3] L’art.4 della legge 59/97 -
Bassanini 1.decreta infatti: “Anche al fine di conformare le disposizioni del
decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, alle
disposizioni della presente legge e di coordinarle con i decreti legislativi
emanati ai sensi del presente capo, ulteriori disposizioni integrative e
correttive al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive
modificazioni, possono essere emanate entro il 31 dicembre 1997. A tal fine il
Governo, in sede di adozione dei decreti legislativi, si attiene ai princìpi
contenuti negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ai criteri direttivi di cui
all’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, a partire dal principio
della separazione tra compiti e responsabilità di direzione politica e compiti
e responsabilità di direzione delle amministrazioni, nonchè, ad integrazione,
sostituzione o modifica degli stessi ai seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) completare l’integrazione della disciplina del lavoro
pubblico con quella del lavoro privato e la conseguente estensione al lavoro
pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di
lavoro privato nell’impresa; estendere il regime di diritto privato del
rapporto di lavoro anche ai dirigenti generali ed equiparati delle
amministrazioni pubbliche, mantenendo ferme le altre esclusioni di cui all’articolo
2, commi 4 e 5, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29;
b) prevedere per i dirigenti, compresi quelli di cui alla
lettera a), l’istituzione di un ruolo unico interministeriale presso la
Presidenza del Consiglio dei ministri, articolato in modo da garantire la
necessaria specificità tecnica;
c) semplificare e rendere più spedite le procedure di
contrattazione collettiva; riordinare e potenziare l’Agenzia per la
Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (ARAN) cui è conferita
la rappresentanza negoziale delle amministrazioni interessate ai fini della
sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali, anche consentendo forme di
associazione tra amministrazioni, ai fini dell’esercizio del potere di
indirizzo e direttiva all’ARAN per i contratti dei rispettivi comparti;
d) prevedere che i decreti legislativi e la contrattazione
possano distinguere la disciplina relativa ai dirigenti da quella concernente le
specifiche tipologie professionali, fatto salvo quanto previsto per la dirigenza
del ruolo sanitario di cui all’articolo 15 del decreto legislativo 30 dicembre
1992, n. 502, e successive modificazioni, e stabiliscano altresì una distinta
disciplina per gli altri dipendenti pubblici che svolgano qualificate attività
professionali, implicanti l’iscrizione ad albi, oppure tecnico-scientifiche e
di ricerca;...”.
[4] Cfr. S. Russo, “Il management amministrativo...”,
op. cit., pag.185, 186.
[5] Cfr. in tema di privatizzazioni i numeri di Proteo 1/1998 e
2/1998.