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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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“The Federal Business Revolution”. Parte prima: i percorsi attuativi della “grande” riforma della Pubblica Amministrazione
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Sergio Cararo

 

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“The Federal Business Revolution”. Parte prima: i percorsi attuativi della “grande” riforma della Pubblica Amministrazione

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

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4. Il dirigente-manager: il nuovo “padroncino imprenditore” nell’impresa del business pubblico

 

La riforma del pubblico impiego avvicina anche il settore della dirigenza a quello dei dirigenti privati.

Il vecchio tipo di rapporto di pubblico impiego, basato su gerarchie e formalità, su ruoli assicurati dal giudice amministrativo è ora sostituito da un modello diverso, basato sulla cosiddetta “flessibilità” e “mobilità” e verso un’idea dell’azienda -Stato come impresa della “Federal Business Revolution”.

L’art.51 bis della legge 142/90 stabilisce la possibilità per i comuni con più di 15.000 abitanti, di nominare un direttore generale che deve sovrintendere la gestione del comune cercando di raggiungere i migliori livelli di efficienza e efficacia. Infatti la legge 127/97 recita: “10. Dopo l’articolo 51 della legge 8 giugno 1990, n. 142, è inserito il seguente:

Art. 51-bis - Bassanini bis - (Direttore generale).

1. Il sindaco nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti e il presidente della provincia, previa deliberazione della giunta comunale o provinciale, possono nominare un direttore generale, al di fuori della dotazione organica e con contratto a tempo determinato, e secondo criteri stabiliti dal regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi, che provvede ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della provincia, e che sovrintende alla gestione dell’ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza. Compete in particolare al direttore generale la predisposizione del piano dettagliato di obiettivi previsto dalla lettera a) del comma 2 dell’articolo 40 del decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77, nonchè la proposta di piano esecutivo di gestione previsto dall’articolo 11 del predetto decreto legislativo n. 77 del 1995. A tali fini, al direttore generale rispondono, nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti dell’ente, ad eccezione del segretario del comune e della provincia.

2. Il direttore generale è revocato dal sindaco o dal presidente della provincia, previa deliberazione della giunta comunale o provinciale. La durata dell’incarico non può eccedere quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia.

3. Nei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti è consentito procedere alla nomina del direttore generale previa stipula di convenzione tra comuni le cui popolazioni assommate raggiungano i 15.000 abitanti. In tal caso il direttore generale dovrà provvedere anche alla gestione coordinata o unitaria dei servizi tra i comuni interessati...”

Ora il nuovo art.22 della legge 142 del 1990 stabilisce che “Gli enti locali, nell’esercizio delle funzioni di loro competenza, provvedono ad organizzare i servizi pubblici, o segmenti di esse, con le modalità di cui al presente articolo, ove il relativo svolgimento in regime di concorrenza non assicuri la regolarità, la continuità, l’accessibilità, la economicità e la qualità dell’erogazione in condizioni di uguaglianza...”. [1]

Ed allora è lecito chiedersi quali nuove funzioni specifiche deve avere in generale il dirigente dell’impresa-Stato?

Gli art. 16 e 17 del d.lgs.n.29/93 stabiliscono la distribuzione dei compiti e delle funzioni, sia dei dirigenti degli uffici dirigenziali generali sia di quelli degli altri uffici dirigenziali [2]. Si stabilisce, tra l’altro, che ai dirigenti spetta la responsabilità della gestione in modo totale, comprendendo anche il potere di utilizzare provvedimenti amministrativi non espressamente riservati agli organi politici. I dirigenti possono fare delle proposte all’organo politico anche attraverso l’adozione di programmi e piani definiti dal Ministro. Quest’ultimo, infatti, controlla l’operato dei dirigenti attraverso nuclei di valutazione composti da esperti tecnici; il Ministro comunque non può revocare o riformare le azioni proposte dai dirigenti se non in caso di annullamenti dovuti a motivi di legittimità o di annullamento straordinario. Vi è inoltre una ulteriore forma di controllo degli atti dei dirigenti, ossia quella esercitata dal Parlamento sull’attività del governo, dalla Magistratura (in merito alla legittimità) e dalla Corte dei Conti (controllo della contabilità pubblica).

Il dirigente statale, in sostanza, diventa nei rapporti con il personale come il datore di lavoro dei rapporti privati, un nuovo dirigente-manager con il ruolo di padroncino-imprenditore. Infatti, [3] in sostanza, mentre i politici emanano gli atti normativi, definiscono gli obiettivi, i programmi, e hanno la possibilità di fare delle nomine ed assegnare degli incarichi, i dirigenti amministrativi dovranno gestire il personale stimolandolo e coordinandolo al meglio ed inoltre hanno il compito di gestire finanziariamente, tecnicamente e amministrativamente organizzando le risorse umane e le strutture, anche attraverso una regolazione delle spese nell’ambito delle risorse economiche attribuite; i dirigenti devono anche organizzare gli uffici le attività di controllo e i rapporti con i sindacati. Si vede, in questo senso, chiaramente il ruolo fondamentale da parte del dirigente-manager soprattutto nello svolgere nuove funzioni di controllo coercitivo nei confronti del personale, con logiche di gestione di rilevanza imprenditoriale in una complessiva impresa del business pubblico. Infatti anche l’efficienza di un dirigente si valuta in funzione del fatto che riesca o meno a raggiungere il massimo risultato, con la migliore produttività e la massima efficienza.

Inoltre al dirigente amministrativo è richiesta anche, la “giusta economicità dell’azione.....La PA ed i suoi dirigenti, che ne effettuano il decision taking, sono insomma tenuti ex lege, ossia in base a regole immodificabili e tendenzialmente permanenti, allo svolgimento di attività legittime, eque e aperte alla partecipazione, che pervengano, quindi, alla giusta efficacia” [4].

Tutto ciò è la conferma di affidare le funzioni pubbliche ad una figura di manager che risponda ad una logica di mercato e ad una logica di profitto incentrata sul taglio degli stipendi e taglio dell’occupazione, quindi riduzione del costo del lavoro, politiche di efficienza e di produttività privatistica all’interno della PA con agenzie che cominciano ad essere delle “sottoaziende” private ancora compresenti nella struttura pubblica, ma che poi dovranno sostituire interamente la struttura pubblica. Le attività dello Stato vengono suddivise in missioni di business, cioè l’insieme delle missioni dei ministeri costituisce i compiti dello Stato che sostituiscono il ruolo di regolatore dei conflitti, come sovranità che dovvrebbe essere al di sopra delle parti, per regolare conflitti che in una società normalmente sono in essere; cioè uno Stato che dovrebbe fungere da regolatore per mettere davanti gli interessi dei più bisognosi, dei meno abbienti, dei lavoratori salvaguardando le fasce emarginate, quelle fasce marginali che appunto il mercato non può assolutamente soddisfare. Oggi si supera questo tipo di logica e si entra in un contesto assolutamente privatistico; le missioni allora sono dei compiti che vengono a coordinare delle funzioni, che sono funzioni però di uno Stato che si fa parte e non sopra le parti. Siamo, cioè, al passaggio dal “Welfare State”, cioè lo Stato che doveva fare gli interessi anche dei più deboli e quindi si doveva occupare anche delle politiche di benessere, al “Profit State”, cioè lo Stato che non è più regolatore, non è più sopra le parti, ma diventa la lunga mano della Confindustria, la lunga mano degli interessi del grande capitale, la lunga mano degli interessi finanziari di questo Paese e dei grandi gruppi di potere economico-finanziario internazionali. Quando si comincia a parlare di missioni con potere di vigilanza che rispettino dei criteri di bilancio comparati alla logica di mercato, allora significa che si è fatta una scelta o si sta facendo una scelta all’interno della PA, che è quella del profitto, delle compatibilità di mercato.

 

 

5. Privatizzazioni centrali e locali: la “Federal Busienss Revolution” invade il sociale

 

Nell’ottica della trasformazione della PA si è visto che le nuove normative prevedono la dismissione da parte dello Stato di una grande parte di imprese pubbliche che gestivano in precedenza la maggior parte dei settori di grande interesse collettivo (acqua, elettricità, trasporti, sanità, istruzione, ecc.), anche a carattere di servizi pubblici locali.

Va innanzitutto ricordato che il programma di privatizzazioni [5] prende definitiva forma nel nostro Paese negli anni ’80 e si realizza seguendo tipologie diverse, soprattutto per tentare di rispondere a logiche macro di politica-economica a connotati di liberismo puro, e a logiche micro legate a modalità produttive e finalità gestionali adatte al tipo di azienda considerata.

In Italia, a differenza degli altri paesi europei, non è stata promulgata inizialmente alcuna legge, né si è svolto alcun tipo di dibattito politico o sindacale sul processo di privatizzazione. Questa situazione ha permesso ai grandi gruppi privati di diventare i maggiori acquirenti delle imprese da cedere ed ha relegato i piccoli risparmiatori al ruolo di spettatori ai margini del processo di privatizzazione.

Per quanto concerne i servizi pubblici a livello locale (ci si riferisce al trasporto, alla luce, al gas, ai rifiuti urbani, alla sanità, alla gestione di parchi e giardini), va ricordato che la formula di solito adottata nel passaggio dalla gestione pubblica a quella privata, è stata quella dell’appalto ad imprese private. Sono stati, cioè, affidati i compiti di erogazione dei servizi ad aziende private che vengono direttamente o indirettamente finanziate dall’autorità locale, la quale si riserva di operare solo una sorta di controllo e di direzione dei lavori.

Lo stimolo alle privatizzazioni é stato - soprattutto negli ultimi dieci anni - la necessità di risanare le finanze pubbliche, anche a seguito delle pressioni derivarti dai processo di unificazione europea, e dei conseguenti parametri di Maastricht di vero “soffocamento di ogni compatibilità sociale”.

Il primo grande smobilizzo di attività nel sistema delle Partecipazioni Statali si è avuto negli anni ’80 con oltre 70 casi di dismissione dei principali enti di gestione (39 attribuibili all’IRI, 15 all’EFIM e 21 all’ENI). Nel triennio successivo (1986-89) si rafforzano le tendenze decisionali più di natura politica che di necessità economico-gestionale, in modo da iniziare a coinvolgere nel processo di privatizzazione aziende e marchi simbolo dell’economia italiana, coinvolgendo nei processi di cessione tutti e tre i maggiori enti di gestione (IRI, ENI, EFIM).

Negli anni ’90 si è verificato in Italia il vero e proprio processo di privatizzazione con l’intento di ridimensionare la presenza pubblica nell’intero sistema produttivo del Paese. Le azioni del Governo di questi anni confermano la volontà di attuare un programma completo di dismissione delle aziende pubbliche per risolvere i problemi produttivi ed economici dell’Italia.

Questo processo si è avviato in concomitanza alla costituzione del Mercato Unico Europeo (1992). Gli intensi processi di globalizzazione dell’economia a livello mondiale hanno portato il nostro Paese a cercare una ipotetica soluzione dei problemi della concorrenza internazionale con la cessione ai privati di interi settori di attività, ritenuti inefficienti, con l’obiettivo di risanare in questo modo una situazione ormai compromessa.

È a partire dal 1990 con la costituzione di una Commissione Ministeriale (Commissione Scogamiglio), seguita poi da altri programmi di Governo (Governo Andreotti 1991) che si è dato l’avvio a una serie di interventi legislativi atti a delineare un programma di privatizzazione delle imprese pubbliche.


[1] Cfr. A. Quadro Curzio, M. Fortis (a cura di),”Le liberalizzazioni ...”, op. cit., pag.44.

[2] Decreto Legislativo 3 febbraio 1993, n. 29

Razionalizzazione dell’organizzazione delle Amministrazioni Pubbliche

e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego:

Art. 16 - Funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali

1. I dirigenti di uffici dirigenziali generali, comunque denominati, nell’ambito di quanto stabilito dall’articolo 3 esercitano, fra gli altri, i seguenti compiti e poteri:

a) formulano proposte ed esprimono pareri al Ministro, nelle materie di sua competenza;

b) curano l’attuazione dei piani, programmi e direttive generali definite dal Ministro e attribuiscono ai dirigenti gli incarichi e la responsabilità di specifici progetti e gestioni; definiscono gli obiettivi che i dirigenti devono perseguire e attribuiscono le conseguenti risorse umane, finanziarie e materiali;

c) adottano gli atti relativi all’organizzazione degli uffici di livello dirigenziale non generale;

d) adottano gli atti e i provvedimenti amministrativi ed esercitano i poteri di spesa e quelli di acquisizione delle entrate rientranti nella competenza dei propri uffici, salvo quelli delegati ai dirigenti;

e) dirigono, coordinano e controllano l’attività dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con potere sostitutivo in caso di inerzia, e propongono l’adozione, nei confronti dei dirigenti, delle misure previste dall’articolo 21;

f) hanno il potere di conciliare e di transigere, fermo restando quanto disposto dall’articolo 12, comma 1, della legge 3 aprile 1979, n. 103;

g) richiedono direttamente pareri agli organi consultivi dell’amministrazione e rispondono ai rilievi degli organi di controllo sugli atti di competenza;

h) svolgono le attività di organizzazione e gestione del personale e di gestione dei rapporti sindacali e di lavoro;

i) decidono sui ricorsi gerarchici contro gli atti e i provvedimenti amministrativi non definitivi dei dirigenti;

l) curano i rapporti con gli uffici dell’Unione Europea e degli organismi internazionali nelle materie di competenza secondo le specifiche direttive dell’organo di direzione politica, sempreché tali rapporti non siano espressamente affidati ad apposito ufficio o organo.

[3] L’art.4 della legge 59/97 - Bassanini 1.decreta infatti: “Anche al fine di conformare le disposizioni del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, alle disposizioni della presente legge e di coordinarle con i decreti legislativi emanati ai sensi del presente capo, ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, possono essere emanate entro il 31 dicembre 1997. A tal fine il Governo, in sede di adozione dei decreti legislativi, si attiene ai princìpi contenuti negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ai criteri direttivi di cui all’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, a partire dal principio della separazione tra compiti e responsabilità di direzione politica e compiti e responsabilità di direzione delle amministrazioni, nonchè, ad integrazione, sostituzione o modifica degli stessi ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato e la conseguente estensione al lavoro pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro privato nell’impresa; estendere il regime di diritto privato del rapporto di lavoro anche ai dirigenti generali ed equiparati delle amministrazioni pubbliche, mantenendo ferme le altre esclusioni di cui all’articolo 2, commi 4 e 5, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29;

b) prevedere per i dirigenti, compresi quelli di cui alla lettera a), l’istituzione di un ruolo unico interministeriale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, articolato in modo da garantire la necessaria specificità tecnica;

c) semplificare e rendere più spedite le procedure di contrattazione collettiva; riordinare e potenziare l’Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (ARAN) cui è conferita la rappresentanza negoziale delle amministrazioni interessate ai fini della sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali, anche consentendo forme di associazione tra amministrazioni, ai fini dell’esercizio del potere di indirizzo e direttiva all’ARAN per i contratti dei rispettivi comparti;

d) prevedere che i decreti legislativi e la contrattazione possano distinguere la disciplina relativa ai dirigenti da quella concernente le specifiche tipologie professionali, fatto salvo quanto previsto per la dirigenza del ruolo sanitario di cui all’articolo 15 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, e stabiliscano altresì una distinta disciplina per gli altri dipendenti pubblici che svolgano qualificate attività professionali, implicanti l’iscrizione ad albi, oppure tecnico-scientifiche e di ricerca;...”.

[4] Cfr. S. Russo, “Il management amministrativo...”, op. cit., pag.185, 186.

[5] Cfr. in tema di privatizzazioni i numeri di Proteo 1/1998 e 2/1998.