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Trasformazioni sociali e diritto

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Arturo Salerni
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Associazione Progetto Diritti; Membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo

Laura De Rose
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Avvocato, Ass. Progetto Diritti

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Il lavoro, le regole, i diritti, i referendum

Arturo Salerni

Laura De Rose

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7. Ed ora il 21 maggio

L’insiemedellequestioni sottoposte al corpo elettorale evidenzia la gravità dell’attacco a fondamentali conquiste sociali e democratiche (il diritto alla reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato, il diritto alla rappresentanza politica, l’indipendenza della magistratura). E’ una battaglia su più fronti che non si può perdere.

L’ipotesi che - sulla base della precedente esperienza del 18 aprile 1999, quando il corpo elettorale fece mancare il quorum necessario per la validità del referendum - appare più realistica, per evitare le pesanti lacerazioni al tessuto sociale e democratico del nostro paese che la vittoria delle ipotesi referendarie sicuramente determinerebbe, stà nel ripercorrere la strada della diserzione delle urne, perché in tal caso l’astensionismo cronico (ed in particolare il comportamento astensionista che in occasione delle prove referendarie è solitamente più elevato che negli appuntamenti delle elezioni politiche o del primo turno delle elezioni amministrative) si sommerebbe alle forze contrarie alla vittoria dei promotori del referendum (ed in particolare allo schieramento crescente dei fautori del sistema elettorale alla tedesca, ovvero del sistema proporzionale con sbarramento, ed a coloro che intendono contrastare la deriva iperliberista che ha oggi il suo cavallo di battaglia nell’abrogazione dell’art.18).

Al momento in cui chiudiamo quest’intervento il formarsi degli schieramenti tra coloro che si oppongono ai referendari è ancora confusa, anche perché la presenza di quesiti che investono diverse questioni determina la non coincidenza degli schieramenti contrari al SI (basti pensare ai liberisti proporzionalisti, ampiamente presenti nel centro-destra, o a coloro che pur essendo contrari all’abrogazione dell’art.18 militano negli stessi partiti degli iper-maggioritaristi Veltroni e Fini).

Sino ad ora solo una forte componente del sindacalismo di base ha preso decisamente posizione per la diserzione delle urne.

 

8. Effetti dell’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori

Gli effetti che l’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori provocherebbe sulla disciplina dei licenziamenti non sono di facile individuazione, in quanto tale norma trova applicazione in una pluralità di ipotesi, alcune espressamente individuate dalla norma stessa, altre previste da norme diverse, altre ancora ricondotte nel suo ambito a seguito dell’intervento dei giudici.

Prima di tentare un’analisi delle possibili conseguenze dell’abrogazione, è opportuno illustrare brevemente le due forme di tutela attualmente previste in caso di licenziamento invalido.

Come è noto, l’art.18 ha predisposto una tutela particolarmente intensa - cosiddetta tutela reale - in caso di licenziamento invalido per i lavoratori dipendenti da organizzazioni produttive che superino il limite dimensionale individuato dalla norma stessa. In forza di tale tutela, il lavoratore ha diritto: a) alla reintegrazione nel posto di lavoro (1° comma) b) al risarcimento del danno subito, attraverso “un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione” e comunque non inferiore a cinque mensilità (comma 4°) c) al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione (comma 4°). La norma prevede la possibilità per il lavoratore che non intenda riprendere servizio di chiedere un’indennità in sostituzione della reintegrazione, la cui misura viene fissata in quindici mensilità di retribuzione (comma 5).

L’attuale quadro normativo prevede poi una tutela meno intensa - c.d. obbligatoria - che opera in caso di licenziamento invalido intimato a lavoratori di organizzazioni produttive che non raggiungono i limiti dimensionali individuati dall’art.18, nonché a lavoratori dipendenti dalle c.d. organizzazioni di tendenza senza fini di lucro. La norma di riferimento è l’art.8 della L. 604/66, che prevede l’obbligo per il datore di lavoro di riassumere il lavoratore licenziato o, in alternativa, di corrispondergli un’indennità (sostitutiva della riassunzione) di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Per capire cosa comporterebbe l’abrogazione della c.d. tutela reale è opportuno procedere considerando le varie ipotesi di licenziamento rispetto alle quali opera attualmente tale tutela.

La prima ipotesi è quella del licenziamento ingiustificato. La legge consente il licenziamento solo qualora ricorra una giusta causa o un giustificato motivo, soggettivo od oggettivo (art.1 L. 604/66). Attualmente, nel caso in cui venga accertata l’assenza di questo presupposto del licenziamento, il licenziamento stesso viene annullato, e, se ricorre il requisito dimensionale (dell’unità produttiva o dell’impresa) individuato dall’art.18, il lavoratore ha diritto alla tutela “forte” (reintegrazione e risarcimento del danno). In caso contrario - imprese minori e organizzazioni di tendenza - il lavoratore ha diritto alla sola tutela obbligatoria.

L’abrogazione dell’art.18 dovrebbe comportare l’applicazione della tutela minore in tutti i casi di licenziamento ingiustificato. In realtà dal punto di vista tecnico la soluzione si scontra con il dato letterale della legge, in quanto l’ambito di applicazione della tutela obbligatoria è definito in positivo dall’art.2 della L. 108/90, e non “ in negativo” rispetto all’ambito di applicazione dell’art.18. Ma è ovvio che una soluzione che lasciasse privo di tutela proprio il lavoratore delle organizzazioni produttive maggiori sarebbe inaccettabile.

La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza che ha deciso l’ammissibilità del referendum, ha affermato che “resterebbe comunque operante (...) la tutela obbligatoria (...) la cui tendenziale generalità deve essere sottolineata”.

Più complesso capire cosa succederebbe rispetto ad un’altra ipotesi di invalidità del licenziamento, ossia quella determinata da vizi formali o di procedimento. Occorre distinguere l’ipotesi del licenziamento non disciplinare da quella del licenziamento disciplinare.

Quanto al licenziamento non disciplinare, la L. 604/66 (art.2) stabilisce che il licenziamento intimato senza osservare le modalità prescritte dalla legge è inefficace. Attualmente, nelle imprese di dimensioni maggiori, anche questa ipotesi dà luogo all’applicazione della tutela reale, e ciò in base all’espresso disposto dell’art.18. In caso di abrogazione, si può ipotizzare che troverebbe applicazione la soluzione valida per le imprese cui si applica la tutela obbligatoria, che è la seguente. Secondo la giurisprudenza dominante, l’inefficacia va intesa nel senso che il licenziamento non produce la risoluzione del rapporto di lavoro, che dunque prosegue. Tuttavia, il lavoratore non ha a disposizione che i rimedi di diritto comune: non ha cioè diritto al minimo di cinque mensilità individuato dall’art.18, né può chiedere l’indennità di quindici mensilità in luogo della continuazione del rapporto.

Quanto al licenziamento disciplinare intimato senza il rispetto della procedura disposta dall’art.7 dello Statuto dei Lavoratori, attualmente la giurisprudenza lo qualifica nullo e, pur in assenza di una disposizione di legge in questo senso, ritiene applicabile la tutela reale (sempre ricorrendo il limite dimensionale).

Deve ritenersi che in caso di abrogazione troverebbe applicazione la tutela obbligatoria, considerato che attualmente la stessa trova applicazione, per la stessa ipotesi, con riferimento alle imprese minori (anche qui si tratta di una soluzione elaborata dalla giurisprudenza).

Deve poi considerarsi l’ipotesi del licenziamento discriminatorio. Attualmente, il licenziamento diretto a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, o determinato dall’intento di discriminare un lavoratore in ragione della affiliazione o attività sindacale dello stesso, è nullo (art.15 Statuto dei lavoratori).

La legge considera applicabile in ogni caso la tutela reale disposta dall’art. 18, senza che rilevino le dimensioni dell’organizzazione, né la sua natura, ed anche nel caso di rapporti in cui è ammessa la libera recedibilità (art. 3 L. 108/90).

In caso di abrogazione dell’art.18 il licenziamento discriminatorio continuerebbe ad essere nullo, e pertanto incapace di produrre la risoluzione del rapporto, ma anche qui verrebbe meno la specificità della tutela attuale, che consente al lavoratore di non proseguire il rapporto e di conseguire un’indennità di importo significativo in luogo della riassunzione. Possibilità di evidente importanza nell’ipotesi del licenziamento discriminatorio, essendo facilmente immaginabile che il lavoratore possa non voler continuare il rapporto con un datore che lo ha licenziato per ragioni di discriminazione (si pensi in particolare a ciò che può avvenire nell’ambito di una piccola impresa).

Due ultimi profili. Uno attiene alla possibilità, attualmente prevista dall’art.18, che il giudice disponga la provvisoria reintegrazione del lavoratore licenziato in corso di giudizio, allorché si tratti di dirigente delle rappresentanze sindacali aziendali (comma 7), all’evidente scopo di garantirne la presenza sul posto di lavoro. Anche questa garanzia sarebbe eliminata in caso di abrogazione.

L’altro riguarda l’effetto riflesso che l’abrogazione avrebbe sulla disciplina dei licenziamenti collettivi. L’art.18 è infatti richiamato dalla L. 223/91 (art.5, comma 3), che stabilisce l’applicabilità della tutela reale in caso di inefficacia (mancata osservanza della forma scritta o violazione delle procedure) o annullabilità (violazione dei criteri di scelta) del provvedimento di messa in mobilità.

Che succederebbe in caso di abrogazione? Troverebbe applicazione la tutela di diritto comune per l’inefficacia e la tutela obbligatoria per l’annullabilità?

In conclusione, due sono le considerazioni fondamentali che devono farsi in ordine alla situazione che conseguirebbe all’abrogazione dell’art.18. In primo luogo, essa comporterebbe la possibilità, anche per le organizzazioni di maggiori dimensioni, di licenziare illegittimamente, con la sola conseguenza di dover corrispondere al lavoratore un’indennità (quella attualmente prevista dall’art.8 L.604/66) in caso di mancata riassunzione. Considerato l’importo di tale indennità, è evidente che la corresponsione della stessa non costituirebbe un grande problema per le imprese maggiori, che godrebbero così di fatto della libertà di licenziare. Del resto, non c’è dubbio che anche oggi la tutela obbligatoria non è altro che “un modo di essere della libera recedibilità”.

In secondo luogo, nelle ipotesi più gravi di licenziamento, come per esempio nel licenziamento discriminatorio, resterebbe l’impossibilità per il licenziamento di produrre effetti, in quanto la legge continuerebbe a sancirne la nullità, ma il lavoratore godrebbe di una tutela diversa da quella attuale. In particolare, come detto, non potrebbe chiedere la corresponsione delle quindici mensilità in luogo della prosecuzione del rapporto. Il che, in molti casi, significherebbe la costrizione a dimettersi per non continuare a lavorare in condizioni impossibili.

Una pagina tutta da indagare è invece quella relativa agli effetti che l’abrogazione dell’art.18 della legge 300/1970 determinerebbe nell’ambito del rapporto di lavoro con le Pubbliche Amministrazioni, in considerazione dell’avvenuto processo di privatizzazione e delegificazione del rapporto di pubblico impiego portato avanti a partire dal Decreto Legislativo n.29 del 1993. Certo è che in ogni casi anche su questo versante si aprirebbero spazi pericolosissimi.