Federalismo, sistema elettorale e privatizzazione del pubblico impiego
Antonio Di Stasi
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1. Premessa
La domanda degli effetti della riforma dello Stato e del
cambiamento del sistema politico sul diritto del lavoro è una domanda classica.
Come altrettanto classica è la risposta, affermativa, e cioè della stretta
connessione tra i cambiamenti istituzionali e politici ed un diritto che
regolamenta rapporti di altissimo contenuto sociale.
E se tale conclusione è generalmente condivisa in ogni dove,
ciò è tanto più vero in Italia (MARIUCCI, 1999) dove il sindacato democratico
rinasce, a lotta di liberazione non ancora conclusa, come proiezione diretta del
sistema dei partiti tanto da influenzarne le sue vicende per diversi decenni
(dal patto di Roma del 1944, alla Cgil unitaria istituita per accordo tra le
correnti sindacati della Dc, del Pci, del Psi, per passare alla rottura tra i
partiti che si proietta automaticamente nella scissione sindacale del 1948, alle
discussioni sul tema del sindacato come cinghia di trasmissione) fino a quando
il sindacato da una posizione di subordinazione passa a quella attività che
molto felicemente viene sintetizzata di “supplenza sindacale” rispetto ai
partiti negli anni sessanta/settanta, per giungere al legame stretto tra Governi
di solidarietà nazionale e politica sindacale dei sacrifici, prologo della
concertazione sociale e della negoziazione triangolare
Governo-sindacato-impresa.
E’ fin troppo ovvio ed evidente come a tutti questi
passaggi siano correlati aumenti o restringimenti di diritti che incidono sulla
stessa regolamentazione del rapporto di lavoro e quindi sulla funzione e natura
del diritto del lavoro in senso lato.
La fase espansiva del diritto del lavoro è concisa con l’attuazione
dei principi fondamentali della costituzione di inequivoca ispirazione sociale,
laddove il sistema economico capitalistico viene temperato da un insieme di
principi sociali, se non socialisti, sull’onda di quella rivoluzione “promessa”
alle forze comuniste e socialiste in cambio, nel 1945/48, dell’accettazione di
una rivoluzione “mancata”, secondo la celebre ricostruzione del Calamandrei.
In estrema sintesi si è assistito ad una estensione di diritti e benessere,
frutto evidente di una distribuzione in senso solidaristico della ricchezza, man
mano che i partiti politici espressione della classe lavoratrice aumentavano di
peso ed influenza anche a livello di governo.
2. Verso una “decostituzionalizzazione” senza
costituente ?
A partire dai primi anni ‘90, con la scoperta, giudiziaria,
della corruzione del sistema, il ceto politico, anche di partiti di
origine operaia, pensa di affrontare la crisi non ricercando le patologie, per
curarle, all’interno del sistema quanto all’esterno e questo sul
presupposto che il sistema corruttivo è insito nella stessa forma di Stato e
nel sistema elettorale proporzionale.
A ciò si aggiungono spinte in senso federalistico, se non
autonomistico, che portano a ripensare ad un diverso rapporto tra Stato centrale
e poteri - soprattutto economici - di aree del nord Italia.
A partire dal 1992 si può rilevare una netta discontinuità,
se non altro sotto il profilo della scomparsa dei tradizionali partiti, che,
seppur in modo inferiore negli ultimi tempi, avevano assunto la veste di
organizzazioni partecipate di proposta e consenso, con l’avvio di una serie di
riforme istituzionali prima fra tutte quella che segna il passaggio da un
sistema elettorale proporzionale ad uno maggioritario, ma, più in generale “su
tutte le materie dando vita ad una vicenda complessa di spinte e controspinte
soprattutto agite dai poteri forti e che non trovano espressione in una
dialettica parlamentare” (COTTURRI, 1998) né nella società o attraverso un
diretto mandato popolare per una costituente.
La stessa riforma del decentramento di poteri, pensata in
senso regionalista e partecipativo dal costituente, si traduce in un cambio di
modello con la previsione di un sistema federale, maggioritario e presidenziale
dove il confronto e il compromesso lasciano il campo a decisioni unilaterali di
stampo autoritario di Sindaci e Presidenti che ritengono di avere la
legittimazione a far ciò a seguito di una investitura diretta da parte della
maggioranza (ma, molte volte, semplicemente relativa) del corpo elettorale.
Si è assistito, in altri termini, ad uno stravolgimento dei
principi fondativi del patto costituente senza neanche una riscrittura della
carta costituzionale. Come noto, infatti, la commissione bicamerale, istituita
con legge costituzionale n. 1 del 24 gennaio 1997, ha sì consegnato al
parlamento una proposta di revisione della parte II della Costituzione, ma, dopo
che la camera dei deputati aveva già approvato alcuni articoli in materia di
federalismo, l’ iter della proposta si è bloccato a causa della
dissociazione di esponenti parlamentari che inizialmente avevano condiviso lo
spirito della riforma (PASQUINO, 1999).
Sotto altro profilo è poi di per sé significativo che molti
interventi normativi che hanno inciso su fondamentali regolamentazioni e
rapporti si sono avuti con decreti legislativi e cioè ad opera del Governo su
deleghe del parlamento non sempre, tra l’altro, rispettate appieno.
In questo quadro, e coerentemente alla revisione della forma
Stato, del principio maggioritario e del federalismo, pure a seguito di deleghe
legislative al Governo, si attua la c.d. privatizzazione del pubblico impiego.
3. La privatizzazione del rapporto di lavoro
Nella mente dei riformatori del sistema, una “diversa”
amministrazione pubblica non può essere gestita con regole burocratiche,
formaliste e complesse, individuando uno dei punti critici nella
regolamentazione del rapporto di lavoro che, avvenendo per atti amministrativi,
poco si presta a compiti e funzioni del prospettato modo “nuovo” di
governare l’ente pubblico.
Consequenzialmente, quindi, si afferma che il rapporto di
lavoro deve essere gestito in termini manageriali e così sfuggire ai meccanismi
conciliativi tra ceto impiegatizio e apparato politico che storicamente è dato
ravvisare nel pubblico impiego. L’efficienza della pubblica amministrazione
deve passare, si spiega, attraverso una gestione del rapporto di lavoro
secondo canoni di gerarchia e di responsabilità in cui la figura del dirigente
diventa centrale e non più cinghia di trasmissione o parvenu del
politico.
In questo senso un ruolo importante viene ad assumere l’estensione
delle regole del diritto privato con lo smantellamento del tradizionale sistema
di sicurezza del lavoratore pubblico inteso sotto il duplice profilo
della inesigibilità di una produttività sufficiente e della garanzia del
mantenimento del posto di lavoro “a vita”.
Ma la privatizzazione, ed è il senso per cui si procede alla
c.d. seconda privatizzazione, è completa solo se si privatizza non soltanto la
gestione del rapporto di lavoro, bensì anche la organizzazione amministrativa.
E così attraverso la distinzione tra macro organizzazione e
“bassa” organizzazione e la privatizzazione anche di figure apicali
inizialmente escluse si privatizza lo stesso atto amministrativo di
organizzazione.
Infatti, secondo una nuova lettura dell’art. 97 della
Costituzione la riserva alla fonte legislativa della organizzazione
amministrativa viene intesa come riserva relativa, con la conseguenza che la
fonte primaria della legge vincola solo le determinazioni inerenti alla
configurazione organizzativa degli apparati pubblici (principi organizzativi,
organi, risorse) e non alla c.d. “bassa organizzazione” che si riflette
nella gestione dei rapporti di lavoro.
In un certo senso, per dirla con la corte costituzionale, il
regime privatistico diventa funzionale al buon andamento della pubblica
amministrazione.
Si viene cioè a verificare una situazione prima rilevata in
senso generale e cioè che la riforma sostanziale, quasi l’inversione delle
regole fino allora ritenute immodificabili, avviene non attraverso una revisione
costituzionale, ma attraverso una lettura del medesimo dato letterale attraverso
una interpretazione che giunge a risultati praticamente opposti a quella
tradizionale.
Tutto ciò, e cioè la mancata modifica del quadro
costituzionale, produce contraddizioni, spinte di segno opposto in quanto la
giurisprudenza, soprattutto costituzionale, ha difficoltà a non rilevare, su
singole questioni che vengono portate al suo sindacato, una non rispondenza tra
nuove previsioni legislative e costituzione formale.
4. Due questioni paradigmatiche: accesso e riserva di legge (nazionale)
Senza qui voler dar conto in modo compiuto ed esauriente
della giurisprudenza, in particolare, della Corte Costituzionale, sulla
ammissibilità e legittimità della privatizzazione del pubblico impiego, alla
luce degli artt. 97 e 98 Cost., occorre però segnalare, a modo indicativo,
alcune resistenze giurisprudenziali al “nuovo” modo di governare l’amministrazione
pubblica.
In particolar modo esemplificative e paradigmatiche diventano
da un lato le decisioni sull’accesso al pubblico impiego e sulla progressione
di carriera, dall’altro sui poteri legislativi delle regioni in materia di
determinazione, attraverso la loro potestà legislativa, di quello che potremmo
definire un “diritto del lavoro federalista”.
Con la sentenza n. 1 del 1999 (Si può leggere in Il
Lavoro nelle pubbliche amministrazioni,, 1999, p. 119) la Corte
Costituzionale riafferma la non ammissibilità di deroghe al regime del concorso
pubblico non solo per l’accesso al pubblico impiego, ma anche per il passaggio
da parte di chi è già dipendente ad una fascia funzionale superiore sulla
considerazione che il concorso interno, oltre a reintrodurre surrettiziamente il
modello delle carriere, viola il principio di buon andamento della pubblica
amministrazione ed arreca grave pregiudizio allo stesso principio dell’efficienza.
Non può non sfuggire come una tale riaffermazione del
principio costituzionale contenuto nell’ art. 97, salvo i casi in cui si sia
in presenza di circostanze peculiari ed eccezionali, ponga problemi sia in
ordine al nuovo sistema di classificazione del personale (v. CCNL Sanità, ma
anche Autonomie locali) che prevede un sistema di inquadramento in aree
(richiamando per certi versi il sistema delle carriere come riconosciuto da
SGARBI, 1999), e sia in ordine alla normativa dettata per gli enti locali: si
pensi all’ art. 6, comma 12, della legge n. 127 del 1997, che ha riconosciuto
a tali pubbliche amministrazioni la possibilità di fare ricorso allo strumento
del concorso interno per particolari profili e figure professionali
caratterizzati da una professionalità acquisita esclusivamente all’interno
dell’ente purché sia in grado di autofinanziare la riorganizzazione del
proprio assetto professionale (anche in questo caso è evidentissima la spinta
federalista).
In verità, però, la contraddizione maggiore si rileva con
riferimento alla nomina ed agli incarichi dirigenziali. E’ noto, infatti, che
in alcune Amministrazioni è possibile costituire rapporti di lavoro per
svolgere funzioni dirigenziali senza svolgere alcun concorso pubblico, ma anzi
sulla base di una opzione di scelta rimessa alla stessa istanza politica. Da un
lato si propone un armamentario logico e giuridico che giustifica la riserva
dell’accesso attraverso il concorso pubblico, dall’altro si riconosce la
possibilità da parte del politico di assumere i massimi dirigenti, si pensi ai
Direttori generali negli Enti locali (MARIUCCI, 1997), ma anche ai dirigenti
statali, attraverso meccanismi di scelta tipicamente privati e discrezionali.
E’ facile notare che se il concorso pubblico è requisito
di accesso per le categorie esecutive (dai tecnici ai semplici impiegati) sulla
considerazione di dover garantire il buon funzionamento e l’imparzialità
della pubblica amministrazione, diventa contraddittorio rendere superfluo il
pubblico concorso per la nomina dei veri funzionari pubblici, quelli
cioè di livello apicale a cui si riconoscono i poteri di determinazione dell’Ente
o della Amministrazione.
In fondo già oggi per recuperare uno spazio di imparzialità
si ricorre da un lato alla accentuazione della separazione organizzativa, cioè
la costruzione di luoghi in cui funzioni pubbliche sono per definizione
sottratte all’indirizzo politico (sulla pacifica considerazione che “politica
è parzialità”), dall’altro alla affermazione e alla realizzazione del
principio di distinzione. Ma, come sottolineato dalla scienza amministrativa,
dalla operatività di questo principio deriva una nuova interpretazione del
principio dell’imparzialità: se prima l’imparzialità veniva considerata un
risultato dell’azione amministrativa ed era valutata solo in rapporto agli
atti, ora deve essere caratteristica anche strutturale dell’amministrazione
nel senso che l’organizzazione amministrativa deve seguire delle regole che la
improntino all’imparzialità. Il principio della distinzione, distinguendo tra
atti di indirizzo e atti di gestione, muta la prospettiva nella considerazione
del principio di imparzialità in quanto la concretizzazione di esso non dipende
più solo dall’attività della dirigenza, ma anche dall’atto di indirizzo
politico (MERLONI, 2000).
Sempre, poi, con riferimento alla privatizzabilità, o
meno, dell’accesso al pubblico impiego, ma anche ai limiti della
legislazione regionale (nel caso in considerazione per di più a statuto
speciale) rispetto a quella statale in tema di determinazione delle regole per i
pubblici impiegati, si segnala, come contrastante la tendenza reale
rispetto ai vincoli formali contenuti nella costituzione, una decisione della
Corte Costituzionale (è la n.141 del 1999 ricapitolata in Rivista giuridica
del lavoro, 1999, pag. 435) che ha ritenuto costituzionalmente illegittima
la previsione di procedure concorsuali, previste da legge della Regione Sicilia,
nella parte in cui dispone che sia totalmente rimessa a una impresa privata l’espletamento
delle prove concorsuali e le operazioni di valutazione, soggette a un controllo ex
post dell’Amministrazione soltanto nei limiti dei candidati selezionati
nella misura del doppio dei posti messi a concorso.
Una riaffermazione, questa, della potestà legislativa
esclusiva in capo allo Stato che si incontra anche in altre decisioni della
Corte Costituzionale, come quella che dichiara illegittime le leggi regionali
che disciplinano il rapporto di lavoro a tempo parziale dei dipendenti pubblici
per le regioni Veneto e Lombardia, in cui si afferma che la disciplina del
part-time è parte fondamentale del processo di revisione del pubblico impiego
attraverso la c.d. privatizzazione del rapporto e quindi che la previsione di
ambiti di applicabilità ai diversi profili professionali, della trasformazione
del rapporto e delle incompatibilità dei rapporti a tempo parziale dei
dipendenti pubblici costituiscono “principi fondamentali” rimessi alla
competenza della legislazione statale.
Viene così a scontrarsi, attraverso addirittura percorsi
logici alquanto curiosi, la ratio della privatizzazione del rapporto di lavoro
con quella del federalismo, del decentramento, della delegificazione e
de-amministrativizzazione. Da un lato si giustifica la privatizzazione del
rapporto di lavoro permettendo la sua gestione non per atti, ma attraverso gli
strumenti di un datore di lavoro privato sottraendo quindi anche gli atti di
organizzazione alla riserva di legge; dall’altro si opera non solo una
rilegificazione della competenza sulla gestione del rapporto di lavoro, ma si
dichiara incostituzionale la legge regionale nazionalizzando la competenza.
5. Le ricadute di una “nuova” dimensione del pubblico sul rapporto di
lavoro
L’attuale fase, con le contraddizioni appena accennate, non
può non considerarsi come di transizione. Da un modello di stato sociale si sta
passando ad una radicale diversa concezione della funzione pubblica, verso un
nuovo sistema che si esprime non soltanto attraverso il federalismo, l’introduzione
di regole privatistiche all’interno della pubblica amministrazione, ma anche
attraverso la diminuzione di compiti e funzioni pubbliche in un ottica di
privatizzazione anche dei servizi pubblici. Sembra cioè avvertirsi, seppur per
strappi e percorsi non uniformi, che una ridiscussione dei compiti e finalità a
cui deve attendere l’amministrazione pubblica.
In questo senso si avverte maggiormente la diversità di un
tale modello di Stato da quello prefigurato dal costituente: se si riconoscesse
il primato dell’impresa sugli interessi collettivi e sociali, piegando questi
alle esigenze di quella, non sarebbe più possibile porre a fondamento dell’amministrazione
il principio dell’imparzialità della pubblica amministrazione così come
pensata dal costituente proprio a garanzia della non predominanza di un
interesse sull’altro.
Per assurdo, se la logica di mercato non dovesse più trovare
un limite nell’interesse sociale, pensato come interesse autonomo e
contrapposto all’iniziativa economica privata, ma se l’iniziativa economica
privata venisse sussunta al suo interno, e l’interesse sociale coincidesse con
la attività economica liberista, andrebbe, inevitabilmente riletto anche il
principio di imparzialità dell’amministrazione nel senso che quella che una
volta veniva considerata come parzialità diventa oggi l’imparzialità. In
altri termini l’amministrazione non sarebbe più principe e giudice di diversi
interessi, ma servitore di un interesse perché si correla, e diventa tutt’uno,
l’interesse pubblico con l’interesse allo svolgimento della libera
iniziativa economica: il primato del privato sul pubblico e non viceversa.
Lo studioso del diritto del lavoro, allora, non può che
concludere che in una prospettiva del genere, in cui non occorrerebbero garanzie
di imparzialità pubblica, intesa nel senso della costituzione del ‘48 tutt’ora
vigente, la specialità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche
amministrazioni perderebbe ragion di esistere.
Diverrebbe, invece, altrettanto giustificabile il diritto del
politico eletto secondo una logica ed un meccanismo maggioritario di scegliersi
il funzionario pubblico ricercandolo attraverso sistemi privatistici e sulla
base di criteri discrezionali, ma funzionali ai suoi obiettivi: solo così si
avrebbe la garanzia di una rispondenza dell’appartato amministrativo agli
obiettivi dell’istanza politica che ha ricevuto l’investitura elettorale in
un sistema fondato sul maggioritario.
Un passaggio che, senza tema di smentite, diverrebbe epocale:
si passerebbe da uno Stato che riconosce la libertà di impresa, ma che la
limita e anzi la sottordina al primato dell’interesse sociale con tutte le
conseguenti esigenze di pubblicità, trasparenza e imparzialità attraverso
anche il formalismo, ad uno Stato che si fa garante dell’economia privata,
riducendo il suo ruolo pubblico e sottordinandolo a quello privato: non vi
sarebbe cittadinanza per logiche di contemperamento tra poteri, ma la prevalenza
di quello scelto con sistema maggioritario dagli elettori. Diverrebbe norma l’applicazione
anche all’amministrazione pubblica di regole privatistiche, così come
diverrebbero giustificabili parzialità e discrezionalità.
E allora non vi è chi non veda che anche la c.d. seconda
privatizzazione del pubblico impiego non può che essere una tappa e non un
arrivo (CARINCI, 2000) dovendosi, nell’ottica privatistica “de-amministrativizzare
più e meglio non essendo sufficiente configurare poteri e atti privatistici per
la combinazione delle risorse umane e materiali, quando poi il bene prodotto è
e rimane un provvedimento amministrativo, come tale soggetto a controlli e
sindacati capaci di segnarne e ritardarne l’efficacia”.
Si prospetta, in altri termini, l’adesione alla lezione
proveniente dai paesi d’oltremanica e cioè che occorre procedere nella
risalita della privatizzazione da valle a monte, dalla gestione all’organizzazione,
dalla organizzazione alla attività.
In questa prospettiva il modello dello Spoil system
americano, per cui la classe funzionariale pubblica si precarizza e lega le sue
sorti a quella del politico, diventa una conseguenza tecnica, ma che resta però
successiva e strettamente dipendente ad una scelta ideologica diversa da quella
che fecero i padri della nostra Costituzione.
Bibliografia
AA.VV., Il federalismo preso sul serio, Bologna,
Il Mulino, 1996
BALANDI, Pubblico, privato e principio di
sussidiarietà nel sistema del welfare state, in Rivista giuridica del
lavoro, 1998, p. 213
CARINCI, La riforma del pubblico impiego, in Rivista
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COTTURRI, Dalla bicamerale al parlamento, in Quale
Stato, 1998, n. 1, p. 340
D’ANTONA, Diritto del lavoro di fine secolo: una
crisi di identità?, in Rivista giuridica del lavoro, 1998, p. 311
MARIUCCI, Ragionamenti sul diritto del lavoro della
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MARIUCCI, Federalismo e pubblico impiego, in Lav.
inf., 15 maggio 1997, n. 9
MERLONI, Principio di distinzione tra politica ed
amministrazione, in AA.VV., Organizzazione, pubblico impiego e
giurisdizione dopo le riforme, Maggioli, Rimini, 2000, p. 85
MONTINI, Il nuovo ordinamento professionale dei
pubblici dipendenti alla lcue della sentenza n. 1/1999 della Corte
costituzionale, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 1999,
p. 129
PASQUINO, Autopsia della Bicamerale, in Hine e
Vassallo (a cura di), Politica in Italia, Bologna, Il Mulino, 1999
SGARBI, Un concorso interno alle finanze sospettato
di violare l’art. 97 della Costituzione, in Il lavoro nelle pubbliche
amministrazioni, 1998, p. 889
ZOPPOLI, Il lavoro pubblico negli anni novanta,
Torino, Giappichelli, 1998