4) Flessibilità del lavoro e quesiti referendari
Il secondo referendum sulle questioni del lavoro - non
ammesso dalla Corte Costituzionale - investiva in alcune parti il recente
decreto legislativo 469 del 23 dicembre 1997, recante “Conferimento alle
regioni e agli enti locali di funzioni e compiti in materia di mercato del
lavoro”, decreto emesso in attuazione delle previsioni contenute nella cd.
legge Bassanini (la numero 59 del 1997).
Esso nella sostanza mirava alla piena liberalizzazione
delle funzioni del collocamento della manodopera e ad eliminare alcuni
limiti posti dalla nuova normativa (che ha realizzato il definitivo superamento
della gestione necessariamente pubblica del collocamento) in ordine alla
regolamentazione dell’attività privata di mediazione tra domanda ed offerta
di lavoro (per esempio la previsione che l’attività di collocamento debba
essere esercitata a titolo gratuito nei confronti dei lavoratori). La Corte non
ha ritenuto di ammettere il quesito referendario “poiché con esso si
chiede l’abrogazione di più norme non omogenee tra loro, nei confronti delle
quali l’elettore deve essere lasciato libero di esprimere valutazioni autonome
e anche potenzialmente divergenti”.
Il referendum sull’abolizione dei vincoli relativi al
contratto di lavoro a tempo parziale (part-time), ovvero relativo all’abrogazione
di alcune norme contenute nell’art.5 della legge n. 863 del 1984 e successive
modificazioni (dell’89 e del 1996), è stato giudicato inammissibile dalla
Corte Costituzionale perché l’approvazione del quesito determinerebbe “l’eliminazione
pura e semplice della tutela contenuta nella vigente disciplina specifica del
rapporto di lavoro a tempo parziale, così da porre in essere una situazione
tale da far sorgere la responsabilità dello Stato italiano per inadempimento di
uno specifico obbligo comunitario”.
Per contrasto con la direttiva 1999/70/CE del Consiglio dell’Unione
Europea - ed in particolare perché la richiesta abrogazione “comporterebbe
non una mera modifica della tutela richiesta dalla direttiva, ma una radicale
carenza di garanzie in frontale contrasto con la lettera e lo spirito della
direttiva suddetta, che neppure nel suo contenuto minimo essenziale risulterebbe
più rispettata” - è stato dichiarato inammissibile il referendum per l’abrogazione
delle norme che regolano il rapporto a tempo determinato.
Si mirava, in particolare, a superare la previsione contenuta
nell’art.1 della legge 230 del 1962 per cui, salva una serie di eccezioni (che
i legislatori degli anni ottanta e degli anni novanta hanno aumentato a
dismisura), “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato”,
la possibilità di conversione di tale rapporto in rapporto di lavoro a tempo
indeterminato (per violazione delle condizioni previste dalla legge), e tutta
una serie di norme poste a tutela del lavoratore a tempo determinato (ad esempio
quella che prevede la validità dell’apposizione del termine solo in presenza
di atto scritto o quella relativa alla limitata possibilità di proroga con
automatica trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato
qualora il lavoro continui decorso un certo periodo dalla scadenza del termine).
L’ultimo referendum - non ammesso a seguito della sentenza
n. 50/2000 della Corte Costituzionali- in materia di rapporti di lavoro era
relativo a diverse parti della legge n. 877 del 1973, relativa alla tutela del lavoro
a domicilio. Tra tali norme vanno richiamate quelle che prevedono il divieto
di affidamento per un determinato periodo di lavoro a domicilio per aziende
interessate da processi ristrutturativi che comportino riduzioni del personale,
l’impossibilità di iscrizione all’apposito registro nell’ipotesi in cui
“la richiesta di lavoro da eseguirsi a domicilio viene fatta a seguito di
cessione - a qualsiasi titolo - di macchinari e attrezzature trasferite fuori
dell’azienda richiedente e che questa intenda in tal modo proseguire
lavorazioni per le quali aveva organizzato propri reparti con lavoratori da essa
dipendenti”, il divieto di utilizzare intermediari, le funzioni pubbliche
di controllo del lavoro a domicilio, le disposizioni in tema di assicurazioni
sociali e assegni familiari per i lavoratori a domicilio, il sistema di sanzioni
penali ed amministrative per coloro che contravvengono alle disposizioni in
materia.
La Corte ritiene che l’abrogazione tout court di
norme di tutela del lavoratore (“dirette a rendere effettivo un diritto
fondamentale della persona”) determinerebbe una palese violazione dell’art.35
della Costituzione.
5) Stato sociale e referendum
Un’altra serie di quesiti era relativa a rilevanti
questioni di carattere sociale ed andava sempre nel senso di una sfrenata
deregolamentazione e liberalizzazione.
Il quesito mirante all’abrogazione di una serie di
disposizioni contenute nel Testo unico in materia di assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e
di altre norme in materia era di fatto diretto all’eliminazione di ogni
ostacolo normativo all’affermazione di un sistema concorrenziale nella materia
previdenziale - ovvero, come sostenuto dai promotori, al superamento del
monopolio INAIL - è stato giudicato inammissibile dalla Corte Costituzionale.
Afferma la Corte Costituzionale nella sentenza n.34 del 2000
(redattore il giudice costituzionale Santosuosso): “La materia oggetto
della presente proposta referendaria impone un previo richiamo all’art.38
della Costituzione: il secondo comma di tale articolo, infatti, garantisce ai
lavoratori il diritto “che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle
loro esigenze di vita” anche in caso di infortunio o malattia professionale,
mentre dal quarto comma deriva l’obbligo che gli obiettivi di tutela
previdenziale indicati nell’articolo stesso vengano conseguiti mediante l’intervento
di “organi ed istituti predisposti dallo Stato”. Il carattere pubblicistico
dell’assicurazione in esame, ravvisabile già in queste disposizioni, informa
anche la peculiarità dell’attuale sistema normativo. [....] L’utile
di impresa è un “fattore estraneo” alle assicurazioni sociali, la cui
funzione è invece esclusivamente quella di “garantire ai beneficiari la
sicurezza del soddisfacimento delle necessità di vita”. Ciò confermato da
una serie di disposizioni, quali quella dell’obbligo dell’INAIL di pagare le
rendite in modo automatico ed indipendentemente dalla regolarità dei versamenti
contributivi; quella della suddivisione dell’onere economico complessivo, che
grava in gran parte su di un’ampia platea di datori di lavoro, e solo in
misura minima sui lavoratori; e quella relativa all’esercizio dell’assicurazione
con forme di assistenza e di servizio sociale. [...] La norma
costituzionale lascia piena libertà allo Stato di scegliere i modi, le forme,
le strutture organizzative ritenute più idonee ed efficienti allo scopo, sempre
che la scelta degli stessi sia tale da costituire piena garanzia, per i
lavoratori, al conseguimento delle previdenze alle quali hanno diritto, senza
dar vita a squilibri e sperequazioni. [...] Nel presente caso lo
strumento referendario appare inidoneo a raggiungere il menzionato fine dei
proponenti così come oggettivato nel quesito, dal momento che il medesimo non
è suscettibile di essere conseguito per via di semplice abrogazione parziale
della normativa esistente, ma richiederebbe una complessa operazione legislativa
di trasformazione di tale assetto. Quest’ultimo, infatti, è essenzialmente
informato, come si è detto, ai ben diversi criteri della gestione
pubblicistica, della copertura generale ed indipendente dall’effettivo
pagamento dei contributi, e del finanziamento mediante somme fissate in modo
autoritativo, al fine di assicurare il complessivo equilibrio del sistema. Basti
rilevare, in proposito, che il principio di automaticità delle prestazioni -
punto essenziale dell’attuale disciplina - non è di per sé compatibile con
un regime nel quale la copertura assicurativa venga affidata alla libera
contrattazione fra singoli datori di lavoro e compagnie private operanti in
regime di libera concorrenza, quanto meno senza l’introduzione di ulteriori
meccanismi di garanzia, cui solo il legislatore potrebbe dar vita. In definitiva
agli elettori verrebbe proposta una falsa alternativa che, impedendo loro di
conseguire realmente l’obiettivo annunciato - di assicurare, cioè, in diverso
sistema pluralistico compatibile con i principi della permanente e generalizzata
soddisfazione dei diritti garantiti in modo indefettibile dalla Costituzione -
si riverbera sulla stessa possibilità di esprimere correttamente il proprio
voto, traducendosi quindi nell’inammissibilità del referendum.”
Parimenti inammissibile è stato dichiarato il referendum
denominato “Servizio sanitario nazionale: Abolizione dell’obbligo
di iscrizione al Servizio per l’assicurazione obbligatoria contro le malattie.
Libertà di scegliere tra Servizio e assistenza privata”, sostenendo la
Corte Costituzionale che, in relazione alla formulazione del quesito, “manca
la possibilità per gli elettori di esprimere un voto referendario consapevole
dei suoi effetti normativi” e che il quesito ha “una funzione
esclusivamente propositiva, estranea all’istituto del referendum per la
abrogazione totale o parziale di una legge, quale è previsto dall’art.75
della Costituzione”.
Si sostiene da parte della Corte Costituzionale (sentenza n.
37/2000) - per pervenire alla declaratoria di inammissibilità - che non avrebbe
effettiva portata abrogativa il quesito referendario in tema di pensioni di
anzianità (e cioè che la formulazione tecnica del quesito non porterebbe
comunque ai risultati voluti dai promotori, ovvero l’abolizione di ciò che
resta delle pensioni di anzianità dopo le riforme Amato e Dini).
Con altra sentenza viene dichiarata l’inammissibilità del
referendum in tema di abolizione della ritenuta di acconto dell’imposta sul
reddito delle persone fisiche per prestazioni sia di lavoro dipendente sia
di lavoro autonomo, in quanto trattasi di disposizioni riconducibili alle “leggi
tributarie” per le quali l’art.75 della Costituzione esclude la
possibilità di abrogazione per via referendaria. Afferma infatti la Corte che
nella dizione “leggi tributarie” rientrano “sia le norme che
riguardano il momento costitutivo dell’imposizione sia quelle che disciplinano
gli aspetti dinamici del rapporto, e cioè il suo svolgimento nell’accertamento
e nell’applicazione del tributo con la riscossione dello stesso”.
Viene ammesso il referendum relativo - secondo la dizione
adottata dai promotori - alle “Trattenute associative e sindacali
tramite gli enti previdenziali”, con il quale cioè si chiede l’abrogazione
della legge 4 giugno 1973, n. 311.
Sulla portata abrogativa di tale normativa per la verità si
discute molto, e con diverse opinioni. La stessa Corte Costituzionale, nella
sentenza n. 39/2000, fa riferimento ad altre disposizioni in materia -
riguardanti diverse tipologie di trattenute sindacali operate da enti
previdenziali - che non verrebbero eliminate dall’eventuale approvazione del
quesito. Carlo Ghezzi (segretario confederale CGIL) sul Manifesto del
4.3.2000 si spinge a dire che sulle deleghe i radicali hanno completamente
sbagliato legge, in quanto “la legge 311/1973 è utilizzata per le
trattenute alle associazioni datoriali, in particolare è utilizzata per le
quote di servizio, per quei contributi cioè che vengono pagati alle
associazioni sociali da tutti, iscritti e non iscritti, a fronte di servizi vari
o presunti forniti a tutta la categoria”.
Ma al di là di questa e di altre interpretazioni in una
materia resa incerta da un insieme ingarbugliato di norme e di consuetudini, non
si può neanche escludere che la materia possa essere disciplinata con un
accordo sindacale, e portare quindi all’ “effetto truffa” (forse
voluto dai promotori e da occulti sostenitori) per cui all’abrogazione
referendaria della norma dello Statuto dei Lavoratori sulle ritenute sindacali
è seguito il fatto che i sindacati firmatari di accordi collettivi (proprio
quei soggetti contro cui si scagliavano le inferocite truppe radicali) grazie
alle previsioni contrattuali continuano a percepire le ritenute e - quantomeno
nel settore privato - nuovi soggetti sindacali, per lo più conflittuali e di
base, vengono strangolati dall’impossibilità di ottenere i contributi
volontariamente offerti dai propri aderenti a mezzo del semplice strumento della
trattenuta sulla busta paga (che peraltro è anche - o potrebbe anche essere -
un agile indice misuratore di effettiva rappresentatività).
Non è stato invece ammesso il quesito denominato dai
promotori “Istituti di patronato e di assistenza sociale: abolizione della
disciplina speciale e del finanziamento pubblico”, rivolto all’abrogazione
del decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato n. 804 del 1947 sul
riconoscimento giuridico dei patronati. Il ragionamento seguito dalla Corte
(redattore Zagrebelsky) è in grandi linee il seguente: gli istituti di
patronato - seppur di fatto attualmente emanazioni di associazioni sindacali -
mantengono una connotazione pubblicistica, con riferimento alla loro funzione e
ad alcune modalità di azione (ad esempio, gratuità delle prestazioni e
disponibilità da parte della generalità dei lavoratori); l’art.38 della
Costituzione sul diritto dei lavoratori alla previdenza ed assistenza “presenta
necessariamente, accanto all’aspetto sostanziale, anche un aspetto
procedimentale, tanto più rilevante in quanto si tratta di diritti previsti in
relazioni a condizioni di difficoltà, e quindi di debolezza, che possono
realizzarsi nella vita dei lavoratori, la cui effettività si scontra con la
farraginosa complessità del sistema previdenziale attuale”; l’art.38
quarto comma Cost. esige una specifica organizzazione per le prestazioni
previdenziali (“organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”);
“deve quindi trovare applicazione, nella specie, il criterio di giudizio
[...] il quale esclude l’ammissibilità del referendum abrogativo di
disposizioni che non possono essere soppresse senza con ciò ledere principi
costituzionali”.
6. Istituzioni e giustizia
Come è noto è stato ammesso il referendum mirante all’eliminazione
del metodo proporzionale di elezione di una quota del venticinque per cento dei
componenti della Camera dei Deputati. Si tratta della riproposizione del
referendum reso invalido per mancato raggiungimento del quorum di partecipazione
al voto il 18 aprile 1999, e mirante all’instaurazione di un sistema
elettorale esclusivamente maggioritario ed uninominale, ad un turno.
Le ragioni di opposizione alle tesi dei promotori sono note:
si tratta tra le altre cose di difendere il poco che resta di rappresentanza
politico-parlamentare degli interessi e delle posizioni che non si identificano
negli schieramenti maggiori e l’effettività del pluralismo politico.
Tralatro, come molti osservatori hanno rilevato, la vittoria del referendum
elettorale - attraverso la tecnica dell’abrogazione parziale - determinerebbe
tali e tante incongruenze ed illogicità da condurre ad effetti aberranti.
Unitamente al referendum in materia elettorale è stato
considerato ammissibile quello sull’attuale normativa in materia di finanziamento
pubblico dei partiti.
Tra i referendum sul tema della giustizia sono stati ammessi
quello sugli incarichi extragiudiziari dei magistrati, mirante all’abolizione
della possibilità per i magistrati di assumere incarichi al di là delle loro
attività giudiziarie, quello sull’elezione del Consiglio Superiore della
Magistratura, e mirante all’abrogazione dell’attuale sistema elettorale
con metodo proporzionale per liste contrapposte dei magistrati componenti del
C.S.M., quello relativo all’ordinamento giudiziario ed alla separazione
delle carriere tra magistrati giudicanti ed inquirenti.
Non sono stati invece ritenuti ammissibili - a vario titolo -
dalle pronunzie della Corte Costituzionale i referendum sulla responsabilità
civile dei magistrati, sulle norme relative alla perentorietà o meno dei termini
processuali sia in sede civile che penale, e quello mirante al contenimento
dei termini massimi di custodia cautelare.
Parimenti non sono stati ammessi - e per diversi motivi - il
referendum sull’abolizione del carattere di corpo militare della Guardia di
Finanza e quello - promosso dalla Lega Nord - di carattere xenofobo e
mirante all’abrogazione dell’attuale normativa in tema di immigrazione(anche
su tale quesito vi è stata la costituzione dell’Associazione Progetto Diritti
e di altre associazioni, e su tale intervento la Corte Costituzionale ha assunto
l’importante decisione di ammettere la partecipazione al giudizio di
ammissibilità dei referendum soggetti portatori di interessi collettivi e
diversi dai Comitati promotori dei referendum abrogativi.)