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Trasformazioni sociali e diritto

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Arturo Salerni
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Associazione Progetto Diritti; Membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo

Laura De Rose
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Avvocato, Ass. Progetto Diritti

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Il lavoro, le regole, i diritti, i referendum

Arturo Salerni

Laura De Rose

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9. Le nostre ragioni di opposizione all’ammissibilita’ del referendum sui licenziamenti

Sempre al fine di comprendere la portata e gli effetti dell’eventuale abrogazione può essere riportare alcuni passaggi dell’atto prodotto dalla Federazione delle Rappresentanze Sindacali di Base, da Progetto Diritti e dal Cred nel giudizio di ammissibilità del referendum sull’art.18 della legge 20 maggio 1970 n. 300.

Come è noto, attraverso la disciplina di cui all’art.18 della legge 300 del 1970 il legislatore ha predisposto una tutela particolarmente intensa (c.d. reale), in caso di licenziamento illegittimo, per i lavoratori dipendenti da organizzazioni produttive che superino il limite dimensionale individuato dalla legge stessa. In forza di tale tutela, il lavoratore illegittimamente licenziato ha diritto a) alla reintegrazione nel posto di lavoro, o ad un’indennità sostitutiva della reintegrazione, la cui misura è fissata in una somma pari a quindici mensilità di retribuzione b) al risarcimento del danno subito, attraverso un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento al giorno della effettiva reintegrazione, e comunque non inferiore a cinque mensilità c) al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione.

Al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 18, al lavoratore che sia stato illegittimamente licenziato compete, invece, esclusivamente il diritto alla riassunzione o, in alternativa, ad un’indennità sostitutiva della riassunzione (c.d. tutela obbligatoria, art. 8 L.604/66).

L’abrogazione dell’art.18 della L.300/70, oggetto del quesito referendario, determinerebbe l’applicabilità della tutela meno intensa in ogni caso di licenziamento individuale illegittimo.

Il quesito sembrerebbe chiaro (e in un certo senso “speculare” a quello, proposto anni fa, e dichiarato allora ammissibile, diretto ad ottenere l’applicabilità generale della “tutela reale”.) Non è però così: ci sono infatti almeno due ragioni per le quali si deve ritenere che il referendum in questione sia inammissibile.

La prima ragione attiene all’intento dell’operazione referendaria così come esplicitato dai promotori, e alla relazione tra tale intento e l’effetto dell’eventuale accoglimento della proposta referendaria. Si legge infatti sui moduli di raccolta delle firme che il referendum è diretto ad “abrogare, fermo restando il risarcimento patrimoniale, la riassunzione obbligatoria e forzosa nei licenziamenti individuali non viziati da motivo illecito o discriminatorio, vincolo disincentivante alla creazione di posti di lavoro.” Come si è visto, l’articolo 18 stabilisce il diritto al risarcimento del danno, fissando un criterio per la determinazione dello stesso, in base al quale esso deve commisurarsi alla retribuzione globale di fatto che il lavoratore avrebbe percepito dal giorno del licenziamento al giorno della reintegrazione. L’abrogazione dell’art.18 colpirebbe non solo il diritto alla reintegrazione, ma anche il diritto al risarcimento così come configurato dalla norma. Alla luce di ciò, non si comprende il significato dell’inciso “fermo restando il risarcimento patrimoniale”. Non può infatti ritenersi che tale inciso si riferisca all’indennità che il lavoratore può percepire in luogo della riassunzione in base alla disciplina della tutela “obbligatoria”, che troverebbe applicazione nel caso di abrogazione dell’art.18. Se così fosse, infatti, l’affermazione sarebbe veramente mistificatoria: una cosa è infatti il risarcimento che attualmente spetta al lavoratore in aggiunta alla reintegrazione (o all’indennità sostitutiva di questa), ben altra l’indennità sostitutiva della riassunzione. Il primo compensa infatti il danno subito dal lavoratore per il periodo in cui lo stesso non ha lavorato (ed è infatti calcolato come detto), la seconda non riguarda tale periodo (in ordine al quale il lavoratore non ha alcun diritto), ma va esclusivamente a compensare la mancata riassunzione. Quale sarebbe dunque il risarcimento patrimoniale che resterebbe “fermo”? Certo non quello previsto dalla norma che verrebbe abrogata, e ciò è di per sé sufficiente ad evidenziare l’ambiguità della formulazione adottata dai promotori nell’illustrare il referendum e i suoi effetti.

Ciò senza considerare l’inesattezza della terminologia impiegata, lì dove si parla di “riassunzione obbligatoria e forzosa”, mentre è noto 1) che la disciplina di cui si chiede l’abrogazione prevede la “reintegrazione” e non la riassunzione, perché il rapporto deve intendersi come mai risolto, 2) che qualificare la “riassunzione” “forzosa” non è corretto, non essendo l’obbligo di reintegrazione eseguibile forzatamente.

La recente giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenze nn. 1 e 6 del 1995) in tema di ammissibilità dei referendum accorda rilievo allo scopo dichiarato dai promotori considerato nella sua relazione con l’effettiva portata del quesito referendari, o ritenendo inammissibile il referendum quando si registra uno “scarto” o una contraddizione tra obiettivo dichiarato e risultato dell’eventuale abrogazione (si veda per es. Corte Cost.1/1995). In considerazione di questo stesso profilo viene in questione la seconda ragione di inammissibilità del referendum.

Infatti, pur essendo l’art.18 dettato con riguardo ai licenziamenti illegittimi individuali, esso è richiamato dalla L. 223/91, che disciplina la procedura collettiva di messa in mobilità. L’art.5 di questa legge dispone che nel caso di provvedimenti di messa in mobilità adottati in violazione della relativa disciplina trova applicazione l’art.18 della L.300/70. La tutela “reale” opera cioè anche nel caso di licenziamenti collettivi illegittimi. L’abrogazione della norma in questione avrebbe dunque ripercussioni anche in questo campo. Ciò non è esplicitato dai promotori del referendum, i quali si riferiscono espressamente solo ai licenziamenti individuali. L’elettore non è dunque consapevole dell’ulteriore e rilevante effetto connesso alla scelta diretta a conservare o abrogare la norma in questione. Non solo: non è chiaro quale disciplina troverebbe applicazione nel caso di abrogazione dell’art.18. E’ infatti difficile ipotizzare l’applicazione della tutela obbligatoria in caso di licenziamenti collettivi, atteso che il legislatore ha espressamente escluso che la L.604/66 trovi applicazione nei confronti dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Entrambi i profili illustrati fanno ritenere che il quesito proposto difetti del requisito della chiarezza.”

 

10. Lavori flessibili ed atipici, conflitto e democrazia sindacale

Nel 2/99 di questa rivista abbiamo tratteggiato gli elementi che caratterizzano oggi le nuove forme del lavoro, sia quello anche formalmente dipendente che quello cosiddetto atipico.

I referendum sulla flessibilità dei rapporti di lavoro, come abbiamo detto, non sono passati ma il quadro sotto questo profilo (cioè nel senso dell’affermarsi di una serie sempre maggiore di nuove tipologie contrattuali - borse di lavoro, lavori socialmente utili, lavori a tempo parziale, lavori a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro, lavoro interinale - che nascondono quasi sempre una riduzione del nocciolo duro dei diritti dei lavoratori) è allarmante e l’ulteriore vulnus che l’abrogazione dell’art.18 comporterebbe determinerebbe una lacerazione ulteriore e gravissima.

D’altro canto sui cosiddetti lavori atipici non possiamo che ripetere il giudizio articolato già formulato sulla proposta Smuraglia ancora attualmente all’esame della Camera dei Deputati (e già approvata dal Senato della Repubblica - testo integralmente riportato su Proteo 2/99). E’ evidente che il rinvio ai patti, alla contrattazione, alle commissioni paritetiche costituite con un nucleo ristrettissimo di organizzazioni sindacali (sempre le stesse) contenuto nel testo Smuraglia tende a ridurre la possibilità di contestazione della qualificazione giuridica data al rapporto, ovvero la possibilità di adire l’autorità giudiziaria per accertare che non di lavoro autonomo (sia pur continuato e coordinativo) si tratta ma di lavoro subordinato (svolto alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, secondo quanto recita l’art.2048 del codice civile). Se da un lato - attraverso la regolamentazione che indubbiamente la proposta Smuraglia contiene - si inseriscono indubbi elementi di disciplina nell’ambito di un settore ignorato dal legislatore, dall’altro il troppo spazio lasciato alla negoziazione collettiva nell’inquadramento delle tipologie dei rapporti riduce fortemente la possibilità per il lavoratore - di fatto subordinato ma inquadrato in uno schema contrattuale di diversa natura - di contestare la natura del rapporto e di rivendicare conseguentemente i suoi diritti. Ci chiedevano (in Proteo, 1/99, pag.58): “che si tratti di un passo ulteriore verso la deregolamentazione selvaggia dei rapporti di lavoro?”.

E se la situazione generale sul piano delle regole del lavoro in cui si inserisce la stagione referendaria è quella che su Proteo abbiamo cercato di descrivere sin dal primo numero (inserendo come elemento di controtendenza per contrastare precarietà e frammentazione la proposta dell’istituzione del reddito sociale minimo), la situazione appare sul piano delle nuove regole in tema di rappresentanza e rappresentatività sindacale.

Il testo approvato dalla Commissione Lavoro della Camera (relatore il ds Gasperoni), che conteneva un significativo - e positivo - riferimento ad indici certi di misurazione della rappresentatività delle diverse organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro e nelle categorie si è bloccato all’esame dell’aula per il non celato boicotaggio da parte della Confindustria, lasciando inalterata l’insostenibile situazione normativa determinata dal referendum abrogativo del giugno 1995.

Sono ormai quasi cinque anni, quindi, che gli unici soggetti sindacali che possono godere di diritti nei luoghi di lavoro sono i firmatari dei contratti collettivi, indipendentemente dalla loro capacità di consenso ed aggregazione.

D’altro canto la Camera dei Deputati ha invece approvato (ed il testo passa ora al Senato) un pesante aggravamento delle regole sull’esercizio
 già fortemente limitato dalla legge 146/1990 - del diritto di sciopero. Si ingessano le procedure, si rafforzano i poteri della Commissione (sempre più insidacati ed insindacabili), si inaspriscono le sanzioni nei confronti dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali più conflittuali. E’ un segnale molto cupo sul futuro delle relazioni sindacali nel nostro paese, sul quale la resistenza - nel parlamento e nel paese - è stata quasi nulla.