9. Le nostre ragioni di opposizione all’ammissibilita’ del referendum
sui licenziamenti
Sempre al fine di comprendere la portata e gli effetti dell’eventuale
abrogazione può essere riportare alcuni passaggi dell’atto prodotto dalla
Federazione delle Rappresentanze Sindacali di Base, da Progetto Diritti e dal
Cred nel giudizio di ammissibilità del referendum sull’art.18 della legge 20
maggio 1970 n. 300.
“Come è noto, attraverso la disciplina di cui all’art.18
della legge 300 del 1970 il legislatore ha predisposto una tutela
particolarmente intensa (c.d. reale), in caso di licenziamento illegittimo, per
i lavoratori dipendenti da organizzazioni produttive che superino il limite
dimensionale individuato dalla legge stessa. In forza di tale tutela, il
lavoratore illegittimamente licenziato ha diritto a) alla
reintegrazione nel posto di lavoro, o ad un’indennità sostitutiva della
reintegrazione, la cui misura è fissata in una somma pari a quindici
mensilità di retribuzione b) al risarcimento del danno subito,
attraverso un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal
giorno del licenziamento al giorno della effettiva reintegrazione, e comunque
non inferiore a cinque mensilità c) al versamento dei contributi
assistenziali e previdenziali dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva
reintegrazione.
Al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 18, al
lavoratore che sia stato illegittimamente licenziato compete, invece,
esclusivamente il diritto alla riassunzione o, in alternativa, ad un’indennità
sostitutiva della riassunzione (c.d. tutela obbligatoria, art. 8 L.604/66).
L’abrogazione dell’art.18 della L.300/70, oggetto del
quesito referendario, determinerebbe l’applicabilità della tutela meno
intensa in ogni caso di licenziamento individuale illegittimo.
Il quesito sembrerebbe chiaro (e in un certo senso “speculare”
a quello, proposto anni fa, e dichiarato allora ammissibile, diretto ad ottenere
l’applicabilità generale della “tutela reale”.) Non è però così: ci
sono infatti almeno due ragioni per le quali si deve ritenere che il referendum
in questione sia inammissibile.
La prima ragione attiene all’intento dell’operazione
referendaria così come esplicitato dai promotori, e alla relazione tra tale
intento e l’effetto dell’eventuale accoglimento della proposta referendaria.
Si legge infatti sui moduli di raccolta delle firme che il referendum è diretto
ad “abrogare, fermo restando il risarcimento patrimoniale, la riassunzione
obbligatoria e forzosa nei licenziamenti individuali non viziati da motivo
illecito o discriminatorio, vincolo disincentivante alla creazione di posti di
lavoro.” Come si è visto, l’articolo 18 stabilisce il diritto al
risarcimento del danno, fissando un criterio per la determinazione dello stesso,
in base al quale esso deve commisurarsi alla retribuzione globale di fatto che
il lavoratore avrebbe percepito dal giorno del licenziamento al giorno della
reintegrazione. L’abrogazione dell’art.18 colpirebbe non solo il diritto
alla reintegrazione, ma anche il diritto al risarcimento così come configurato
dalla norma. Alla luce di ciò, non si comprende il significato dell’inciso
“fermo restando il risarcimento patrimoniale”. Non può infatti ritenersi
che tale inciso si riferisca all’indennità che il lavoratore può percepire
in luogo della riassunzione in base alla disciplina della tutela “obbligatoria”,
che troverebbe applicazione nel caso di abrogazione dell’art.18. Se così
fosse, infatti, l’affermazione sarebbe veramente mistificatoria: una cosa è
infatti il risarcimento che attualmente spetta al lavoratore in aggiunta alla
reintegrazione (o all’indennità sostitutiva di questa), ben altra l’indennità
sostitutiva della riassunzione. Il primo compensa infatti il danno subito dal
lavoratore per il periodo in cui lo stesso non ha lavorato (ed è infatti
calcolato come detto), la seconda non riguarda tale periodo (in ordine al quale
il lavoratore non ha alcun diritto), ma va esclusivamente a compensare la
mancata riassunzione. Quale sarebbe dunque il risarcimento patrimoniale che
resterebbe “fermo”? Certo non quello previsto dalla norma che verrebbe
abrogata, e ciò è di per sé sufficiente ad evidenziare l’ambiguità della
formulazione adottata dai promotori nell’illustrare il referendum e i suoi
effetti.
Ciò senza considerare l’inesattezza della terminologia
impiegata, lì dove si parla di “riassunzione obbligatoria e forzosa”,
mentre è noto 1) che la disciplina di cui si chiede l’abrogazione prevede la
“reintegrazione” e non la riassunzione, perché il rapporto deve intendersi
come mai risolto, 2) che qualificare la “riassunzione” “forzosa” non è
corretto, non essendo l’obbligo di reintegrazione eseguibile forzatamente.
La recente giurisprudenza della Corte Costituzionale
(sentenze nn. 1 e 6 del 1995) in tema di ammissibilità dei referendum accorda
rilievo allo scopo dichiarato dai promotori considerato nella sua relazione con
l’effettiva portata del quesito referendari, o ritenendo inammissibile il
referendum quando si registra uno “scarto” o una contraddizione tra
obiettivo dichiarato e risultato dell’eventuale abrogazione (si veda per es.
Corte Cost.1/1995). In considerazione di questo stesso profilo viene in
questione la seconda ragione di inammissibilità del referendum.
Infatti, pur essendo l’art.18 dettato con riguardo ai
licenziamenti illegittimi individuali, esso è richiamato dalla L. 223/91, che
disciplina la procedura collettiva di messa in mobilità. L’art.5 di questa
legge dispone che nel caso di provvedimenti di messa in mobilità adottati in
violazione della relativa disciplina trova applicazione l’art.18 della
L.300/70. La tutela “reale” opera cioè anche nel caso di licenziamenti
collettivi illegittimi. L’abrogazione della norma in questione avrebbe dunque
ripercussioni anche in questo campo. Ciò non è esplicitato dai promotori del
referendum, i quali si riferiscono espressamente solo ai licenziamenti
individuali. L’elettore non è dunque consapevole dell’ulteriore e rilevante
effetto connesso alla scelta diretta a conservare o abrogare la norma in
questione. Non solo: non è chiaro quale disciplina troverebbe applicazione nel
caso di abrogazione dell’art.18. E’ infatti difficile ipotizzare l’applicazione
della tutela obbligatoria in caso di licenziamenti collettivi, atteso che il
legislatore ha espressamente escluso che la L.604/66 trovi applicazione nei
confronti dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Entrambi i
profili illustrati fanno ritenere che il quesito proposto difetti del requisito
della chiarezza.”
10. Lavori flessibili ed atipici, conflitto e democrazia sindacale
Nel 2/99 di questa rivista abbiamo tratteggiato gli elementi che
caratterizzano oggi le nuove forme del lavoro, sia quello anche formalmente
dipendente che quello cosiddetto atipico.
I referendum sulla flessibilità dei rapporti di lavoro, come
abbiamo detto, non sono passati ma il quadro sotto questo profilo (cioè nel
senso dell’affermarsi di una serie sempre maggiore di nuove tipologie
contrattuali - borse di lavoro, lavori socialmente utili, lavori a tempo
parziale, lavori a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro, lavoro
interinale - che nascondono quasi sempre una riduzione del nocciolo duro dei
diritti dei lavoratori) è allarmante e l’ulteriore vulnus che l’abrogazione
dell’art.18 comporterebbe determinerebbe una lacerazione ulteriore e
gravissima.
D’altro canto sui cosiddetti lavori atipici non possiamo
che ripetere il giudizio articolato già formulato sulla proposta Smuraglia
ancora attualmente all’esame della Camera dei Deputati (e già approvata dal
Senato della Repubblica - testo integralmente riportato su Proteo 2/99). E’
evidente che il rinvio ai patti, alla contrattazione, alle commissioni
paritetiche costituite con un nucleo ristrettissimo di organizzazioni sindacali
(sempre le stesse) contenuto nel testo Smuraglia tende a ridurre la possibilità
di contestazione della qualificazione giuridica data al rapporto, ovvero la
possibilità di adire l’autorità giudiziaria per accertare che non di lavoro
autonomo (sia pur continuato e coordinativo) si tratta ma di lavoro subordinato
(svolto alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, secondo quanto
recita l’art.2048 del codice civile). Se da un lato - attraverso la
regolamentazione che indubbiamente la proposta Smuraglia contiene - si
inseriscono indubbi elementi di disciplina nell’ambito di un settore ignorato
dal legislatore, dall’altro il troppo spazio lasciato alla negoziazione
collettiva nell’inquadramento delle tipologie dei rapporti riduce fortemente
la possibilità per il lavoratore - di fatto subordinato ma inquadrato in uno
schema contrattuale di diversa natura - di contestare la natura del rapporto e
di rivendicare conseguentemente i suoi diritti. Ci chiedevano (in Proteo, 1/99,
pag.58): “che si tratti di un passo ulteriore verso la deregolamentazione
selvaggia dei rapporti di lavoro?”.
E se la situazione generale sul piano delle regole del lavoro
in cui si inserisce la stagione referendaria è quella che su Proteo abbiamo
cercato di descrivere sin dal primo numero (inserendo come elemento di
controtendenza per contrastare precarietà e frammentazione la proposta dell’istituzione
del reddito sociale minimo), la situazione appare sul piano delle nuove
regole in tema di rappresentanza e rappresentatività sindacale.
Il testo approvato dalla Commissione Lavoro della Camera
(relatore il ds Gasperoni), che conteneva un significativo - e positivo -
riferimento ad indici certi di misurazione della rappresentatività delle
diverse organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro e nelle categorie si è
bloccato all’esame dell’aula per il non celato boicotaggio da parte della
Confindustria, lasciando inalterata l’insostenibile situazione normativa
determinata dal referendum abrogativo del giugno 1995.
Sono ormai quasi cinque anni, quindi, che gli unici soggetti
sindacali che possono godere di diritti nei luoghi di lavoro sono i firmatari
dei contratti collettivi, indipendentemente dalla loro capacità di consenso ed
aggregazione.
D’altro canto la Camera dei Deputati ha invece approvato
(ed il testo passa ora al Senato) un pesante aggravamento delle regole sull’esercizio
già fortemente limitato dalla legge 146/1990 - del diritto di sciopero. Si
ingessano le procedure, si rafforzano i poteri della Commissione (sempre più
insidacati ed insindacabili), si inaspriscono le sanzioni nei confronti dei
lavoratori e delle organizzazioni sindacali più conflittuali. E’ un segnale
molto cupo sul futuro delle relazioni sindacali nel nostro paese, sul quale la
resistenza - nel parlamento e nel paese - è stata quasi nulla.