Rubrica
PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Julio A. Díaz Vázquez
Articoli pubblicati
per Proteo (1)

Argomenti correlati

Nella stessa rubrica

INVITO ALLA LETTURA

Per l’abolizione totale del lavoro dei bambini e una redistribuzione mondiale delle ricchezze
Rémy Herrera

La modernizzazione economica in Cina: un’altra eresia
Julio A. Díaz Vázquez

Cina: forza e debolezze
Eduardo Regalado Florido - Elda Molina Díaz

Crisi del capitalismo statunitense o crisi salariale per i lavoratori dipendenti?
James Petras


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

La modernizzazione economica in Cina: un’altra eresia

Julio A. Díaz Vázquez

Formato per la stampa
Stampa

La genesi di questo saggio si trova nell’evoluzione differente che dimostrarono il processo di modernizzazione dell’economia avviato dalla Cina alla fine di 1978 e il tragico destino delle “riforme” sviluppate nella stessa epoca e che finirono con la caduta del socialismo nell’Europa dell’Est e con la disintegrazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). In questo modo, gli esperimenti socialisti esistenti rimasero circoscritti soltanto nella regione asiatica e nell’area caraibica. In questo contesto, la Cina svolge un ruolo fondamentale. Il paese, negli ultimi due decenni del secolo XX e oltre il primo lustro del presente secolo, conobbe un risveglio economico-sociale di proporzioni storiche. L’anno 2006, secondo diversi analisti e sinologhi, riconfermò la Cina come un polo economico mondiale. In altre parole, la crescita dell’economia internazionale di quasi un terzo dipese da quello che significò il salto della Cina al terzo posto nel commercio estero mondiale. Con un’eccezionale domanda di cemento, carbone, acciaio, alluminio, nichel, petrolio e soia e per essere il più grande consumatore di ferro, stagno, zinco, platino e oro il paese asiatico è, infatti, una “locomotiva” che trascina e influisce nel destino economico del pianeta. Allo stesso tempo, i cambiamenti radicali nella reazione e direzione dell’economia, i cambiamenti visibili nell’ordine economico-sociale che accadono in Cina e Vietnam, gli adeguamenti e adattamenti economici avvenuti a Cuba e, in minor misura però percettibili, nella Repubblica Popolare Democratica di Corea, suggeriscono la formazione di altri modelli socialisti allontanati dalla teoria e dalla pratica del “socialismo reale”. L’avanzamento verso la formazione di modelli propri di costruzione socialista rinforza le tendenze nella pluralità di approcci che nascono in ogni nazione, subordinate dalle realtà cambianti che sembrano segnare le rotte del nuovo secolo. Da altro canto, il fiume d’inchiostro che illustra il processo di modernizzazione che negli ultimi 27 anni ha interessato la Cina è enorme, e lo sono altrettanto gli studi dedicati alla singolare costruzione capitalista che vivono i paesi dell’estinta comunità socialista dell’Est europeo. Tuttavia, pochi studi fino adesso, al di là degli inevitabili riferimenti generici, hanno cercato di sistematizzare le peculiarità che rivestì dalle sue origini “l’esperimento socialista cinese”, specialmente inerente alle sue differenze con lo sviluppo e l’applicazione del “Modello Economico Classico Sovietico”. Allo stesso tempo, valgano due chiarimenti inevitabili. Il primo è che dobbiamo ricordare che quando si parla della Cina non si può perdere di vista il fatto che si cerca di entrare in una società che, come gruppo umano, accumula la maggior continuità storica del pianeta, più di cinquemila anni1. Il secondo chiarimento riguarda l’ortodossia marxista, un prodotto dello sviluppo culturale dell’Europa Occidentale; il trapianto di questa ortodossia alla Cina diede luogo a un’appropriazione eretica in una società contadina. Il merito di fare in modo che “la campagna accerchiasse la città” fu di Mao Zedong. Per evidenti ragioni, ambedue le specificità rimangono fuori dall’analisi. In questo contesto, le tre grandi “eresie” accadute nei primi trent’anni di esistenza della RPC (Repubblica Popolare Cinese) risultano paradigmatiche. Il tentativo fallimentare (1958-1961) di accelerare la crescita, lo sviluppo economico e altri lavori della costruzione socialista si rispecchiarono nelle “tre bandiere rosse”, comprese nel “Grande salto in avanti”, la “Nuova linea politica” e la formazione delle “Comuni popolari”. Questo enorme esperimento economico e sociale ebbe come sostrato il collocare “la politica al posto di comando”. Mentre la “Rivoluzione Culturale” (1966-1976) fece cadere l’attenzione economico-sociale nelle “lotte di classe”, le “quattro modernizzazioni” (1979-2006) mettono l’accento sul giusto, sbagliato, vantaggioso o svantaggioso seguendo i seguenti criteri: “quello che favorisce lo sviluppo delle forze di produzione”, il “potere integrale del paese” e il contributo a “elevare il benessere della popolazione”. Per questo, negli appunti che seguono cercheremo di avere un approccio per evidenziare le caratteristiche dissimili che dagli inizi diedero un “tocco asiatico” all’esperienza socialista intrapresa dalla Cina a partire dell’ottobre di 1949, senza tentare di esaurire il tema.

II

Innanzitutto, lo stabilimento delle basi dell’economia socialista in Cina presentò delle peculiarità interessanti. I sequestri del capitale burocratico (mezzi nelle mani della struttura burocratica di potere) ai proprietari di industrie e commercio che fuggirono dal paese, la nazionalizzazione delle ditte straniere, banche, la rete ferroviaria e grandi capitalisti nazionali, l’applicazione della riforma agraria che rese fuori vigore il regime feudale e anche ai ricchi proprietari rurali nell’agricoltura, così come la distribuzione della terra fra i contadini poveri furono passi che si allinearono con il modello socialista. Tuttavia, nel settore artigianale si incitò alla creazione di svariate forme di cooperative. Allo stesso tempo, l’ampio spettro dei piccoli commercianti, venditori ambulanti, così come le associazioni commerciali furono integrate per riuscire a formare un unico mercato nazionale. Intanto, la relativa importanza che nella produzione di beni di ampio consumo popolare possedevano i piccoli e medi imprenditori capitalisti portò alla strumentazione di certe libertà di manovra. La loro produzione fu associata alle richieste dello stato, mediante l’acquisto dei prodotti, somministrazione di materie prime, finanziamenti, partecipazione nei benefici, però i proprietari mantennero la direzione delle ditte. Se pensiamo all’insieme delle esperienze con le quali contribuì il “socialismo reale”, queste possono essere viste come soluzioni innovative. In sintesi, gli anni dal 1949 al 1952 furono lo scenario della fase democratico-borghese nell’esperienza rivoluzionaria della Cina. Allo stesso tempo, il paese si ristabilì dalle conseguenze della guerra civile. L’economia prese un profilo misto, giacché c’era un settore socialista (statale), cooperativo (capitalista-statale), privato, oltre agli artigiani e ai contadini. Però la sua azione fu soggetta agli obiettivi proposti per la costruzione del socialismo; le priorità tendevano al rinvigorimento dei settori statali, considerati come i garanti del futuro e come condizione indispensabile per la riforma degli altri settori dell’economia. Il dinamismo raggiunto in quel periodo della ripresa economica e del controllo dei più urgenti disequilibri monetari e finanziari agevolarono l’elaborazione del primo “Piano Quinquennale di Sviluppo Economico e Sociale” (1953-1957), nel quale si seguirono i modelli fissati dalla pratica sovietica: sviluppo industriale accelerato, con base nell’industria pesante e nella socializzazione dell’agricoltura. Una volta che il modello sovietico fu accettato, il Piano ebbe anche altri contenuti più specifici: l’eliminazione della proprietà privata e la diversificazione delle politiche da osservare nella città e nella campagna. Così, negli anni dal 1953 al 1956, il settore privato urbano fu nazionalizzato, quasi tutti i proprietari diventarono possessori di titoli di stato. Dal 1953, nel campo dell’agricoltura, assieme ai “squadre d’assistenza reciproca” costituiti da gruppi di 6 o 7 famiglie che utilizzavano gli stessi attrezzi, gli stessi animali e le stesse terre, comparirono altri modi di cooperazione. Le cooperative sorte condividevano la terra, il lavoro e altri attrezzi agricoli anche se conservarono la proprietà dei mezzi di produzione. Nel 1956, il 96% dei contadini e il 90% delle terre da coltivare erano raggruppati in associazioni produttive2. Tuttavia, è interessante segnalare che, anche con le sue peculiarità, in Cina in genere l’adozione del modello economico socialista costituito alla fine degli anni 20 e agli inizi degli anni trenta del secolo scorso nell’URSS, segue la stessa direzione che seguirono i paesi socialisti dell’Est europeo. Non è affatto superfluo ribadire quali furono le basi. La proprietà dei mezzi di produzione da parte dello stato (come patrimonio sociale) fu la colonna vertebrale dell’economia (le cooperative facevano parte di questo patrimonio). Per quanto riguarda l’aspetto politico, la dittatura del proletariato, più tardi accettata come “Stato del popolo”, fu il fatto più sviluppato della democrazia. Per quanto riguarda l’aspetto sociale, si eliminò lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo: lo stato provvede al mantenimento di tutti i cittadini, garantisce il diritto all’educazione, alla salute, al lavoro, all’abitazione, alla cultura e alla sicurezza durante la vecchiaia. Si deve sottolineare che, come principi indivisibili, gli elementi politici, economici e sociali si integrarono nelle istanze statali e governamentali sotto la subordinazione al Partito. Come corollario, il progetto socialista sviluppato nell’URSS rimase soggiogato ad un modello che fece dell’ideologia un fattore d’integrazioni delle relazioni sociali. In questo modo, il funzionamento delle istituzioni sociali passava dalla sfera ideologica a quella politica e da quest’ultima all’economia. In altre parole, l’ideologia si fondò per sostenere il progetto sociale e fu l’ente che unì le aree politiche, economico-sociali e statali. Nell’ordine pratico, la proprietà dello stato (sociale) sosteneva la formazione di una direzione dell’economia centralmente pianificata; l’attività economica veniva regolata mediante bilanci materiali e la divisione altamente centralizzata dei doveri e delle risorse. In questo contesto, il mercato, come entità e come mittente di segnali al produttore per orientare l’offerta e riuscire negli aggiustamenti razionali della domanda, non aveva le prerogative appropriate. La pianificazione e l’ordine centralizzato della produzione, assieme al fissare il livello di consumo della popolazione, ridusse l’intercambio mercantile alla sfera delle spese individuali attraverso la rete di distribuzione commerciale minorista. In questo modo, la gestione economica ebbe un carattere eminentemente amministrativo, date le quantità delle risorse materiali, le relazioni di valore avevano una prominente funzione nominale. La moneta cominciò a svolgere un ruolo passivo. Sebbene nella sfera formale il modello ebbe conto delle relazioni monetario-mercantili, quest’ultime potevano soltanto sviluppare un potenziale limitato nella sfera della distribuzione, in questo caso, rendere compatibili il fondo di consumo con gli stipendi e altre prestazioni tanto quanto equilibrare gli ingressi della popolazione e le spese del preventivo statale. Certamente, non si può mettere in dubbio che all’inizio la direzione dell’economia che mise radici nell’URSS diede la possibilità di crescere, di dare un impulso allo sviluppo economico e di incorporare in massa risorse naturali e umane alla produzione, così come rese possibile l’industrializzazione e l’aggiunta di nuovi territori al progresso dell’esteso paese. Tuttavia, vale la pena ricordare, in qualche modo, le eccezionali condizioni che il territorio sovietico riuniva per avviare l’industrializzazione su basi estensive. Il paese disponeva d’immense risorse naturali (carbone, ferro, produzione di cemento, ecc.) e forza di lavoro che, unite alla crescita delle forze produttive dell’epoca, risultavano requisiti esenziali per avviare qualunque processo industrializzante. Allo stesso tempo, nel campo della scienza e della tecnologia in uso nelle prime decadi del secolo XX il gap tecnologico esistente tra le economie delle principali potenze capitaliste (centro) del momento e gli stati meno sviluppati (periferia) non si avvicinavano ai dislivelli che si videro agli inizi del XXI secolo. In questo modo, le possibilità di mobilitazione dei mezzi materiali, mano d’opera, più l’impiego di tecnologie molto simili, aiutarono a risolvere in breve tempo la “rivoluzione industriale socialista”; il capitalismo centrale impiegò più di un secolo ad adempiere a questo compito. Inoltre, in ultima istanza, nel subordinare e concentrare le risorse in funzione dell’industrializzazione fu ripresa l’esperienza fatta dal “comunismo di guerra” nel triennio 1918-1920. In quelle circostanze storiche, tutte le risorse materiali e umane disponibili furono destinate a schiacciare la controrivoluzione e l’intervento straniero. Dunque, la gestione centralizzata delle risorse e delle capacità produttive del paese decisero nel breve termine di 10-15 anni di fare dello Stato proletario, possessore di un’economia agro-industriale molto arretrata, una delle potenze industriali dell’epoca. Nel frattempo, la congiuntura storica specifica che affrontò l’URSS ratificò, una volta consolidata la direzione politica sotto l’egemonia di Stalin, le condizioni oggettive e soggettive in modo tale che il “Modello Economico Centralizzato” potesse mettere radici. Le circostanze, quando nel paese crebbe la produzione ad alta velocità e si raggiunse il pieno impiego, favorirono le virtù iniziali dell’“esperimento sovietico”. Intanto, nella sfera economico-sociale, il capitalismo conobbe la sua prima grande crisi generale (1929-1933) e con essa il conseguente effetto di milioni di disoccupati e la caduta della produzione. Il socialismo concepito dai “soviet” sembrò rivelarsi come il becchino del capitalismo. In questo modo, ci sono dei motivi per affermare che nel campo pratico il modello centralizzato basato sulla proporzionalità materiale, sebbene rese possibili grandi manovre, tese a riprodurre lo “sviluppo esteso” dell’economia. In ogni modo, quando s’insediò al potere tagliò ogni possibilità d’apertura verso altri strumenti di gestione e controllo macroeconomici e mercantili; senza dimenticare che l’immensità del territorio sovietico, sommato all’ostilità del capitalismo, furono dei fattori che contribuirono all’allontanamento economico dell’URSS dal mercato mondiale. D’altro canto, la necessità di concentrare risorse per prepararsi alla guerra che il fascismo scatenò poco dopo, sommato alla ricostruzione del dopoguerra dovute alle distruzioni che soffrì l’URSS - valido per le economie socialiste dell’est europeo, che poco dopo presero la via dell’industrializzazione accelerata - portò aria fresca alle bontà del “modello di gestione centralizzata”. L’allontanamento del mercato internazionale unito alla mancanza di concorrenza e all’assenza di scambi mercantili apportarono molti benefici alla vita del “modello”. Però, concretamente, quando nelle economie socialiste ci fu il dibattito sull’impiego attivo di quelle categorie, si evitò il riconoscimento del ruolo del mercato. Quando riassumiamo le caratteristiche più importanti contenute nella concezione “classica” della gestione economica socialista che la Cina iniziò a strumentare, ebbene ricordare che, anche se nelle sue basi il “modello economico centralizzato” si “trapiantò” al paese, non poche delle peculiarità nella formazione della struttura economico-sociale socialista contribuirono a dargli “colore asiatico” assieme ad altri fattori culturali specifici. In questo modo, il primo piano quinquennale ebbe esiti che si sarebbero ripetuti solo dopo altri 25 anni. Il reddito nazionale crebbe ad un ritmo annuo vicino al 9 percento, la produzione industriale al 18 percento e l’agricoltura al 4,5 percento. I prezzi si mantennero stabili e questo comportò un miglioramento nel livello di vita della popolazione. Questi esiti, però, subirono dei costi sociali ed economici, tra altri, tasse elevate, prezzi bassi e l’80 percento del fondo degli investimenti che gravò sul settore agricolo, la densità demografica che ostacolò la meccanizzazione agricola e anche l’esodo dalla campagna alla città. Allo stesso tempo, storicamente è possibile avvicinarsi ai fatti che subito incominciarono a diventare visibili e che scossero la Cina nei vent’anni successivi. Il prologo di questa nuova fase si manifestò dopo dell’VIII Congresso del PCC (settembre di 1956). Sebbene il congresso mostrò delle sfumature dentro l’unità, approvò, tra altri documenti, le proposte per il “II Piano Quinquennale di Sviluppo dell’Economia Nazionale”, oltre ad aderire alla condanna per “il culto alla personalità di Stalin”, realizzata nel 1956 durante il XX Congresso del Partito Comunista dell’URSS. La pubblicazione delle opere di Mao “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo” e “Che cento fiori sboccino e cento scuole ideologiche contendano’’ nel 1957, assieme ad altri discorsi ed interventi di partito, oltre ad aprire dei dialoghi per attrarre grandi settori della popolazione, secondo diversi sinologhi, servirono per canalizzare sottilmente le differenze che esistevano nella cupola del Partito. La prima pubblicazione, favoriva l’assimilazione della pratica nella costruzione del socialismo, prendendo come base le esperienze, l’aiuto materiale, scientifico e tecnico che offrivano l’URSS e i paesi socialisti dell’Est europeo. L’altra, era propensa all’accelerazione del processo di trasformazioni economico-sociali rivolgendosi alla mobilitazione in massa di tutta la popolazione, la quale si definì posteriormente in linea con “l’autosostentamento”, appoggiandosi sulle “proprie forze”. Mao, con l’aiuto d’altri dirigenti, fu il rappresentante di questa seconda via. Da un’altra parte, il cammino dell’accelerazione o bruciare le tappe, sostenuto da Mao e dai suoi seguaci, nel quale si proponeva che le opere dell’industrializzazione si concludessero nei successivi tre quinquenni, non ottenne l’approvazione del Congresso. Il secondo “Piano Quinquennale”, 1958-1962 mantenne, nell’essenziale, la stessa rotta strategica seguita fino a quel momento dal già approvato “modello economico classico sovietico”, chiamato “classico” non nel senso etimologico, ma per il carattere “generalizzatore” che assunse nella letteratura socialista ortodossa. Però i ritmi veloci delle crescite produttive si scontrarono, tra altri molti ostacoli e limitazioni, con la scarsità di risorse da investire e con una rendita dell’agricoltura che non raggiunse i risultati attesi. Tuttavia, nonostante questo, i progressi economici ottenuti, il lavoro durante le riunioni, conferenze ed incontri di partito servirono a giustificare l’offensiva maoista che approvò nel gennaio del 1958 la Seconda Sessione del VIII Congresso.

III

In questa fase in Cina apparirà una nuova ortodossia socialista, questa “eresia di sinistra” avrà nel “Grande salto in avanti” la sua manifestazione concreta. L’ordine che lo sviluppo economico rimanga concentrato in “vent’anni in un giorno” si conciliò nella generalizzazione delle “comuni popolari”. In questo modo, l’anno 1958 segnò la rotta nel futuro della società in Cina con lo sviluppo della linea sostenuta da Mao3. In aprile del1958, quarantatremila contadini nella provincia di Hunan, membri di 27 cooperative agricole, decisero di lavorare insieme per poter coltivare meglio la terra, costruire aziende locali, scavare canali d’irrigazione, tracciare strade, costruire scuole, ecc. In altre parole, andare verso rapidi progressi nelle aree economiche e sociali. L’associazione “rivoluzionaria” fu battezzata con il nome di “Sputnik”. Il 7 agosto furono pubblicati i suoi statuti, il 29 agosto il Comitato centrale della PCC adottò la “risoluzione storica” che festeggiò la nascita e desiderò la moltiplicazione delle comuni popolari. Tutte le persone maggiori di 16 anni, con pieni diritti civili, che abitavano nel territorio della comune potevano affiliarsi e guadagnare il valore del loro lavoro, anche se dovevano rispettare il principio della proprietà collettiva della terra. I membri della comune diventarono come “operai nelle fabbriche”, con orari fissi, stipendi mensili, gli uomini ebbero due giorni di riposo al mese e le donne tre. Potevano mangiare nelle osterie, i bambini piccoli potevano andare all’asilo, i nuovi alloggi li costruiva la comune togliendo il costo dell’affitto dallo stipendio. Si presero la responsabilità dell’educazione primaria e secondaria, più tardi fecero lo stesso con l’educazione universitaria. La comune organizzò la “milizia popolare”. Le “comuni” furono uno “Stato-Miniatura”. Il governo centrale gestiva l’andamento finanziario, gli investimenti, controllava le relazioni estere e il “settore nazionalizzato”: deposito di macchinari, officina meccanica, piccole industrie ausiliarie. Nelle istanze inferiori le responsabilità venivano delegate alle brigate (prefetture), alle municipalità che controllavano l’equipaggiamento di base. La pianificazione e il controllo centralizzato delle imprese si ridussero fino al 27 percento, mentre la maggioranza delle unità produttive rimasero sotto il controllo delle autorità locali, regionali o provinciali. La logica dei cambiamenti fece sì che la crescita economica accelerasse la rivoluzione sociale, tutti i settori produttivi dovevano avere missioni equivalenti (con speciale attenzione all’agricoltura) le grandi unità produttive non furono al centro dell’interesse degli investimenti da fare, si diede molta importanza alla diffusione di tendenze ideologiche egualitarie dentro e fuori delle attività industriali per impedire la comparsa di differenze nella posizione sociale degli operai, contadini e altri settori della popolazione. Allo stesso tempo, le comuni ottenevano parte delle loro risorse dalle piccole industrie: fabbriche di mattoni, cemento e artigianato, ecc, arrotondando il budget con i profitti delle brigate e delle squadre di lavoro. Furono costruite scuole, ospedali, sale di riunione. Avevano a disposizione un fondo speciale di aiuto alle famiglie, evitavano le grosse disuguaglianze nei guadagni. Prima della fine del 1958, 740.000 cooperative agricole scomparvero per lasciare il loro posto a 26.000 comuni, in ognuna delle quali erano raggruppate, in media, 5.000 famiglie. Strategicamente, le comuni sembravano unità basilari dell’organizzazione dello Stato e della società cinese. Il loro funzionamento comprendeva, in modo integrale, aspetti economici, sociali, politici e anche militari. Le comuni furono accolte come “organizzazioni sociali splendenti come il sole mattutino nell’orizzonte dell’Asia dell’Est”. I diversi lineamenti che manifestò l’economia tra il 1958 e il 1962 quando tentava di conciliare elementi di razionalità economica da una parte e dall’altra tentava di sostenere le misure economiche in fattori soggettivi, ideologici e di mobilitazione portarono al fallimento del Piano Quinquennale. Il drammatico bilancio del “Grande Balzo” ridusse il ritmo di crescita del reddito nazionale, 1958-1962, fino al 3 percento annuale; cadde la produzione agricola nel 4 percento; si acutizzarono le sproporzioni strutturali dell’economia; provocò, tra le altre ripercussioni, perdite nella qualità della produzione e rialzo dei costi industriali. Nell’aspetto umano, rimase la tragedia per la mancanza di alimenti e le inclemenze della natura, pagata con un saldo di morti per la fame stimato in circa 30 milioni di persone. Le deformazioni di quella politica furono sommesse ad un periodo di “riorganizzazione-consolidamento-complementazione” tra il 1962 e il 1966 e sintetizzate nella desiderio di “camminare su due gambe.” Si sostenne una crescita più equilibrata dell’industria e dell’agricoltura4. L’egualitarismo imperante nelle comuni si debilitò in favore di maggiori incentivi materiali alla produzione ed i contadini ricevettero l’autorizzazione per sfruttare appezzamenti individuali. Il pragmatismo che sembrò imporsi nell’ordinamento economico del paese ebbe come rappresentanti Liu Shao-qui, Deng Xiaoping e Zhou En-lai come Presidente della Repubblica, Segretario Generale del Partito e Primo Ministro, rispettivamente.

IV

Tuttavia, Mao, dalla carica di Presidente del PCC, dal 1962 al 1965 intraprese la critica alle politiche economiche applicate, in particolare, nell’agricoltura. Accese la discussione contro la certa autonomia concessa al settore e alla coltivazione degli appezzamenti individuali dai contadini. Denunciò, allo stesso modo, l’esistenza di una “fazione borghese” nel Partito che propiziava la restaurazione capitalista, dato che patrocinava l’impiego di meccanismi e appoggi mercantili ed incentivi materiali. Nel livello formale, il segnale per il lancio di un’altra “rivoluzionaria eresia” di stampo più di sinistra lo diede un “dazibao”, periodico murale, appeso nelle pareti dell’Università di Beida, Beijing, nel giugno del 1966. Il 5 agosto Mao collocò sulla porta del Comitato Centrale il suo proprio “dazibao” il cui titolo: “Fuoco contro il Quartiere Generale”, risultò essere tutto un programma. Si intraprese immediatamente una virulenta crociata contro i quadri del Comitato Centrale del Partito e contro i dirigenti statali identificati come difensori e istigatori della linea capitalista. Tra i primi destituiti ci furono Liu Shao-qui e Deng Xiaoping. La punta di lancia dell’”offensiva delle masse”, ispirata alla “Rivoluzione Culturale”, nel piano sociale ricadde nelle “guardie rosse”, distaccamenti della gioventù sedotti dal il colto della personalità di Mao. Il radicalismo dottrinale di sinistra del “Grande Timoniere” incitava a combattere ciò che era “antico e borghese”. Alla fine del1967, una volta cancellata l’opposizione dentro la direzione del Partito, consolidati i dettati ed il ruolo di protagonista di Mao, si procedette al riordinamento sociale, aggiustamenti dell’economia a parametri di “naturalizzazione” ed eliminazione degli elementi monetario-mercantili. Gli avamposti delle “guardie rosse” furono smembrate, la grande maggioranza fu inviata nei campi. Nel frattempo, l’economia subì una dura retrocessione nel periodo 1966 - 1968. Gli aspetti economici rimasero relegati e subordinati alle questioni ideologiche e all’agitazione delle masse; la lotta di classe si collocò nel centro dei cambiamenti socioeconomici. La pianificazione si frantumò; i comitati delle fabbriche del Partito sostituirono i direttori; i mezzi monetari e gli incentivi materiali furono virtualmente sciolti. I vincoli imprenditoriali si naturalizzarono e le relazioni acquisto-vendita-mercato nella pratica furono annullate. Nell’agricoltura si ritornò al collettivismo delle comuni; le aree coltivate private diminuirono del 15 percento al 5 percento. I mercati-bazar e le fiere libere sparirono, anche se risultò paradossale che l’industria rurale venisse stimolata come complemento delle attività agricole. A sua volta, nel terreno scientifico-accademico, le politiche del potere tendenti ad accelerare la costruzione socialista mediante il “Grande Balzo” prima e la “Rivoluzione Culturale” dopo fecero che la teoria nella scienza economica tra il 1958 e il 1975 perdesse la sua obbiettività. Nell’imporsi, come metodo e guida pratica per le soluzioni economiche la “politica nel posto di comando” e, più tardi, le basi della “lotta di classe” si generalizzarono i metodi politici nelle scienze sociali. Prevalsero la semplificazione e il portare a schemi carenti di contenuto i temi dell’economia politica del socialismo ed i progetti teorici dei classici del marxismo. La tendenza a spiegare solo la politica a favore del momento ebbe carta bianca e si abbandonò lo studio delle leggi che, secondo la visione dell’epoca, caratterizzavano al socialismo. All’inizio della “Rivoluzione Culturale”, periodo giudicato di sfrenato idealismo, le valutazioni coincidono nell’accettazione che dal 1966 al 1976 l’economia smise praticamente di esistere come scienza. Le investigazioni teoriche ed applicate in questo campo erano fuori discussione; si praticava il culto religioso alle citazioni di Mao. Il “Libro Rosso”, raccolta di testi maoisti, fu elevato a paradigma dove trovavano risposte i più stimolanti problemi politico-economico-sociali della Cina. A rigor di termini, il ciclone di agitazione sociale scatenato in particolare nella fase iniziale degli anni che abbracciò nella sfera politico-economica la “Rivoluzione Culturale” fece sparire le differenze tra propaganda politica e studi scientifici nelle scienze sociali e, in primo luogo, nell’economia. Questa fase dello sviluppo socioeconomico della Cina non riuscì a scappare all’esaltazione delle virtù che si ispirarono al periodo “eroico di Yenan”; si evidenziò il “modello Maoista”, propulsore ideale di un “socialismo ascetico.” Mao scrisse su come la povertà suscitava il cambiamento e ravvivava la rivoluzione: essere povero era un foglio bianco, libero di ogni segno, dove le parole più dolci e gradevoli potevano essere riportate come se si dipingesse un bel quadro. Questa peculiare teoria giustificò l’invio di intellettuali e cittadini in campagna, per far sì che imparassero le “virtù proletarie”. Sembrerebbe che la felicità e la purezza potessero trovarsi nel “paese delle formiche blu”, denominazione attribuita alla Cina per molto tempo, dato che tanto uomini, donne, giovani, oltre ai vecchi e bambini portavano capi d’abbigliamento uguali: pantaloni e giacche di colore indaco. Questo “Modello” fu identificato dall’ultra sinistra socialista come l’antipode della “ortodossia del socialismo reale”. Per quanto riguarda il comportamento economico, la retrocessione fu evidenziata dalla caduta della produzione di quasi il 14 percento nel 1967 e del 5 percento nel 1968. L’agricoltura decrebbe di circa il 3 percento. Solo i settori vincolati alla difesa e all’industria spaziale mostrarono adempimenti positivi. Nel 1964 la Cina fece esplodere la sua prima bomba atomica e nel 1970 mise in orbita il primo satellite. Il quarto Piano Quinquennale (1968-1972) rilanciò i compiti economici: il tasso di accumulazione fu del 37 percento del reddito nazionale, l’incremento del prodotto interno lordo rimase fisso al 6 percento annuale. L’industria pesante raggiunse il suo punto massimo di circa il 15 percento annuale. I tassi di crescita media della produzione industriale indicarono le oscillazioni e l’intermittenza che angosciarono l’economia tra il 1956 e il 1975. Nel periodo dal 1953 al 1957, l’industria pesante crebbe del 25 percento e la leggera del 13 percento. Nel 1975 gli incrementi furono dell’1 percento e del 2 percento rispettivamente. I piani quinquennali quarto e quinto cercarono di stabilizzare lo sviluppo economico del paese e di calmare l’irrazionalità economica della voragine degli anni della “Rivoluzione Culturale”5. In questo lasso di tempo si tentò di stimolare la produzione abbinando la razionalità economica con la mobilitazione sociale intorno agli obiettivi produttivi. Se si vuole fare una valutazione di tutti gli eventi scatenati dalla “Rivoluzione Culturale” non si può ovviare che questa gigantesca agitazione sociale di massa, indipendente dalle retrocessioni economiche, generò un alto costo umano. Non esiste o non si conosce un bilancio ufficiale esatto di questa fase della costruzione socialista in Cina, ma differenti studi approssimativi hanno suggerito che non meno di 100 milioni di persone videro complicarsi la vita per quella voragine; si presume che decine di milioni abbiano perso la vita6. Finalmente, la morte del “Grande Leader”, nel settembre del 1976, portò un periodo di rinnovamento in tutta l’impalcatura socioeconomica della Cina. Il periodo 1976-1978 costituì un momento di transizione nel consolidamento delle forze politiche che lottavano per promuovere trasformazioni nel corso economico, sociale e politico della Cina. In quell’intervallo apparvero i sintomi che avrebbero propiziato la nascita di nuove “eresie”, anche se attualmente, in relazione con la tradizione ortodossa sovietica, si potrebbero definire di destra.

V

Con la morte del “Grande Timoniere” sembrò che il designato Hua Kuo-feng, vicino collaboratore negli ultimi anni, si profilasse come successore per riempire il vuoto di potere lasciato da Mao. Allo stesso tempo, si esasperarono le discrepanze nel seno dell’Ufficio Politico del PCC intorno alla leadership che tentò di mantenere la denominata “Banda dei Quattro”, riunita attorno alla vedova del defunto. Questi ultimi erano personaggi oscuri, altolocati negli anni della “Rivoluzione Culturale” e rappresentanti visibili delle tendenze più estremiste e lottavano per continuare la politica maoista. Intanto, il piano dell’economia (1976-1980), ispirato nelle priorità concesse per la rianimazione economica, rimase quasi fermo per le incertezze e riorganizzazioni politiche scatenate dalla scomparsa di Mao. Questo panorama nella sfera sociale si complicò a causa delle conseguenze devastanti del gigantesco terremoto che distrusse diverse zone industriali del paese nel 1976. Nella sfera politica, dopo l’eliminazione della “Banda dei Quattro”, la sostituzione di Hua Kuo-feng e l’ascesa alla Segreteria Generale del Partito di Hu Yaobang, seguì la reintegrazione dal 1977 di Deng Xiaoping, conosciuto nel 1973 quando fu nominato Vicepremier e Capo dello Stato Maggiore dell’Esercito e rimase nella carica fino al 1976, dopo l’enorme manifestazione nella Piazza di Tiananmen in difesa della memoria di Zhou En-lai. Questi eventi, nel loro insieme7, proiettarono orizzonti rinnovatori nel futuro politico, economico e sociale della Cina. Rimase così spianata la strada affinché nella “II Sessione Plenaria del IX Comitato Centrale” (dicembre del1978) fossero riassunte tanto le esperienze positive quanto quelle negative vissute nel sentiero socialista intrapreso dalla Cina. Inoltre, si approvò la proposta di Deng Xiaoping8, per realizzare la restaurazione socialista del paese in circa cento anni, a partire dalla fondazione della “Nuova Cina” nel 1949. La disposizione che sanzionò il Conclave fissò le basi e le direzioni delle “Quattro Modernizzazioni”. Zhou En-lai l’aveva proposto senza successo nel 1964 e nel 1975. Il rinnovamento nell’ambito socioeconomico avrebbe tre fasi. Nella prima si raddoppierebbe il PIL dell’anno 1980 in un periodo di 10 anni (1990) e si sarebbe risolto il problema della sussistenza elementare della popolazione; la seconda fase che sarebbe iniziata nell’anno 2000 doveva quadruplicare il PIL del 1980 (si ottenne nel 1996) e raggiungere un livello di vita discretamente accettabile per il paese (il XVI Congresso del 2002 confermò il raggiungimento di questo obiettivo); la terza fase indicò per l’anno 2049 il raggiungimento del livello dei paesi mediamente sviluppati nei principali indicatori macroeconomici in termini “procapite”. Tuttavia, si deve considerare che in Cina alla fine degli anni 70 del secolo XX concorsero fattori interni, esterni, politici ed economici che favorivano e, contemporaneamente, che obbligavano l’attuazione del processo di modernizzazione proposto. Il paese appoggiò uno Stato sovrano che, per la prima volta in migliaia di anni, riuscì nell’unificazione nazionale e godeva di peso e riconoscimento internazionale. Contava su importanti complessi industriali, includendo una potente industria militare-spaziale; l’agricoltura disponeva di grandi opere idrauliche e di infrastrutture, benché insufficienti se stimiamo che la Cina possiede quasi la quarta parte della popolazione mondiale e che circa il 7 percento del suo territorio, per ragioni naturali e geografiche, è adatto alle attività agricole. Inoltre, non soffriva di processi inflazionari, né di pesanti debiti esteri e la maggior parte degli affari esteri erano vincolati al mercato mondiale. Tuttavia, malgrado gli ambiziosi obiettivi e risultati avuti nella costruzione economica, a metà degli anni 70 dello scorso secolo la Cina veniva considerata come un paese povero, arretrato e sottosviluppato. Nel 1978 il reddito procapite rappresentava il 10 percento di quello dell’URSS ed il 2 percento di quello degli Stati Uniti. Era ammesso, ufficialmente, che quasi 100 milioni di persone non disponevano di alimenti sufficienti, vivevano sull’orlo della carestia. Alcuni dati dimostravano il peggioramento del paese rispetto a quelli raccolti nella metà del secolo. Risulta interessante sottolineare che, per affrontare gli obiettivi tracciati, la Cina non scelse, come 25 anni prima, di tornare al “modello centralizzato”. Probabilmente, nel suo contesto storico, potrebbe essere valida l’ipotesi della visione ed esperienza personale di molti dei suoi dirigenti statali e dei suoi uomini di partito, che andando e avendo studiato nell’URSS unito agli avvicinamenti e agli allontanamenti politici ed economici condivisi tra i due paesi nella conduzione socialista, producano elementi sufficienti per rifiutare ora, come alternativa rinnovatrice, qualunque dei modelli europei del socialismo. Non si può scartare neanche l’ipotesi che in quel momento fosse evidente che il “modello sovietico” mostrava effetti amministrativi paralizzanti, ostili ad ogni rinnovazione, a ciò si aggiungevano le tendenze burocratiche contenute nella subordinazione delle imprese a rigidi schemi verticali, che ostacolavano l’assimilazione delle nuove tecnologie, come lo stimolo di iniziative innovatrici. In altre parole, queste strutture di gestione bloccarono il lavoro di veri “uomini dinamici socialisti”. Per questo motivo, non fu un caso isolato che di tanto in tanto il funzionamento delle economie socialiste vicine all’Europa riformasse i meccanismi economici applicati, così come modificasse gli indicatori contenuti nel “Piano dell’Economia Nazionale”. La retrospettiva storica evidenziò che ciò accadde a metà degli anni 30 nell’URSS. Queste modifiche diventarono urgenti alla fine degli anni 50 ed a partire dalla seconda metà degli anni 60 del passato secolo risultarono un obiettivo intrinseco che riappariva in periodi oscillanti tra cinque e dieci anni.

Allo stesso modo, neanche il socialismo radicato nell’Europa dell’Est riuscì a sottrarsi da questi cicli riformatori a partire dal 1960. Così come successe nell’URSS, si discusse che queste economie avevano l’urgenza di passare da fasi di sviluppo estensivo a fasi di sviluppo intensivo della crescita economica. Essenzialmente, questi paesi furono spronati dalla necessità di accedere al mercato internazionale e introdurre velocemente le mutazioni tecnologiche che si sviluppavano nell’economia mondiale. D’altra parte, i cambiamenti nella pianificazione, nell’amministrazione territoriale, nella direzione dell’economia, nei sistemi di incentivi, ecc., ovvero, le modifiche nel funzionamento dell’economia alla fine della decade del 1970 cominciò a prevalere il consenso, accettato da molti studiosi del socialismo, sulle cause dei conflitti e delle sproporzioni, essenzialmente, dipendevano dall’organizzazione e dal comportamento del proprio “modello”. Se ammettiamo le precedenti osservazioni, emerge che, al contrario, nel contesto geografico prossimo alla Cina c’erano sufficienti esponenti di modelli di economie dinamiche, con un attivo protagonismo statale nei temi economici, di direzione e di gestione dell’economia ancorata in efficienti meccanismi mercantili e con prioritaria orientazione al mercato mondiale. Malgrado tutto questo, mostravano, in un modo o in un altro, eccessivi ingredienti autoritari. Così, all’inizio, le misure prese per portare avanti l’alternativa della rinnovazione economica perseguirono due obiettivi principali: da una parte, puntarono alla decentralizzazione dell’economia, dall’altra, puntarono all’apertura con l’estero che concluse il periodo d’isolamento internazionale nel quale restò rinchiusa la Cina per diversi secoli. Inoltre, il desiderio di modernizzare l’economia e la società cinese portarono all’adozione e all’implementazione di importanti cambiamenti istituzionali ed economici. Incominciarono dall’agricoltura, e successivamente si estesero ad altri settori: l’industria, il commercio interno, il settore finanziario, le banche, la sfera fiscale, le imprese, i servizi ed il commercio estero. Tuttavia, con ogni probabilità la svolta più significativa avvenne con l’apertura al resto del mondo. Furono introdotti investimenti stranieri diretti, con l’obiettivo di modernizzare l’economia. Probabilmente l’elemento più innovativo fu la diversità di insediamenti geografici, spaziali ed economici per gli investimenti stranieri diretti sorti negli anni 1979-1995. Questo segmento conta con: “Zone Economiche Speciali” (ZES); “Zone di Sviluppo Economico e Tecnologico” (ZSET); “Zone Franche” ; “Zone di Sviluppo Industriale di Nuove Tecnologie” (ZSINT) e le “Città e Posti di Frontiera”. Non risulta esagerato affermare che in Cina si è formato, nel contesto dell’apertura al mondo, un complesso di strati economici attorno ad aree costiere, in territori confinanti al litorale, sulle rive dei fiumi, nelle frontiere e nelle regioni dell’interno del paese, per attrarre investimenti stranieri, senza precedenti nelle esperienze socialiste conosciute. D’altra parte, nella direzione e nella gestione dell’economia ebbe luogo, tra il 1979 ed il 2006, una conseguente orientazione mercantile in modo graduale anche se ci furono alcune retrocessioni temporanee. Così, nacque l’esigenza di agire in corrispondenza con le leggi dell’economia e di prestare l’attenzione dovuta alla combinazione del lavoro ideologico-politico con i meccanismi economici. Allo stesso modo, si procedette alla separazione del Partito dall’amministrazione e si implementò la responsabilità per livelli di direzione, e furono rinforzate le attribuzioni degli organismi e del personale amministrativo. Nella stessa maniera, un passaggio fondamentale per migliorare la gestione imprenditoriale nell’industria fu fatto quando si tolse la spesa della Previdenza Sociale alle fabbriche. In Cina si universalizzò con il nome di “ciotola di ferro” la garanzia che le imprese offrivano all’operaio per tutta la vita: salario, posto di lavoro e previdenza sociale, oltre all’abitazione. Questa nuova fase nella modernizzazione deve condurre le imprese a comportarsi secondo le regole di un mercato socialista. Un compito importante fu svolto dalle modifiche introdotte per la creazione dell’ambiente idoneo per l’andamento delle relazioni di mercato iniziate con l’agricoltura. In questo caso, prevalsero le leggi e le disposizioni dettate per garantire i diritti delle imprese statali che, senza fretta, cambiavano le regole, alle quali si aggiunse la sicurezza che la Costituzione e le leggi avrebbero dato agli investitori stranieri la possibilità di fare entrare capitali esterni. Alcune delle innovazioni introdotte riguardarono i meccanismi di pianificazione, di ruolo e di collocazione per le politiche fiscali, dei prezzi, monetarie e finanziarie. Sarebbe più giusto dire che fu creato, più che riformato, il sistema bancario. Si adottò un nuovo sistema tributario le cui responsabilità furono ridistribuire e razionalizzare la dimensione e le funzioni dello stato, concedendo maggiori attribuzioni agli strati inferiori dell’amministrazione statale. Allo stesso modo, il peso relativo che acquisì di continuo il mercato, come ambito di compra-vendita delle imprese, diede impulso all’impiego di controlli macroeconomici da parte dello Stato. Gli strumenti come il credito, le imposte, le misure fiscali, presero spazio. In pratica si arrivò ad una piena liberalizzazione nella circolazione, assegnazione ed impiego delle risorse produttive; i prezzi, eccetto per un esiguo numero di casi, uscirono dal controllo pianificato. Il Piano era considerato come categoria primaria ed il mercato veniva in secondo luogo. Siccome lo Stato regolava il mercato, e quest’ultimo le imprese, il piano ebbe il suo corollario definitivo nel passaggio verso una “economia di mercato socialista”. Canalizzare le domande che reclamavano i progressi nella modernizzazione dell’economia implicò estendere le riforme in corso. Le innovazioni coinvolsero tutti i rami e tutti i settori economici. Così, l’architettura dell’infrastruttura mercantile fiorente pretese la ristrutturazione e la modernizzazione del sistema bancario, lo sviluppo dei mercati interni, l’applicazione di un nuovo ordinamento tributario, l’introduzione di variazioni nel contenuto ed l’organizzazione di politiche più flessibili. L’obiettivo delle politiche nelle sfere finanziarie e monetarie fu mirato a raggiungere un controllo monetario più sviluppato, dipendente, in particolare, di elementi primari o indiretti. Con il consolidarsi della ristrutturazione del nuovo sistema bancario si liberò un processo crescente di proliferazione di mediatori finanziari. A questo punto si aggiunsero le compagnie di assicurazioni, subordinate al Ministero delle Finanze, oltre a corporazioni dedicate agli investimenti. Le corporazioni, in generale, si associano alle Banche specializzate, accettano depositi dalle imprese statali, sottoscrivono assicurazioni lavorative e commerciali ed emettono buoni. Anche la ristrutturazione bancaria contò sulla presenza di agenzie straniere di diversa natura. Alla fine del 2002, il sistema finanziario della Cina contava su 4 grandi banche, 6 banche statali, 181 banche ed altre entità straniere (nel 2004 c’erano 200 organizzazioni, 14 corporazioni e 216 uffici di rappresentanza), 83 compagnie tra finanziarie e di “leasing”, queste ultime includono 54 agenzie di 34 imprese di assicurazione di 12 nazioni diverse; 112 banche commerciali urbane; 136 società fiduciarie ed associazioni d’investimento; 11 banche per azioni e una rete di cooperative. In questo modo, le modifiche introdotte nell’area finanziaria si strinsero, nonostante gli imprevisti di diversa natura, in corrispondenza con gli stessi principi generali che hanno diretto il processo di modernizzazione ed apertura dell’economia della Cina. I cambiamenti sono avvenuti in forma graduale, sperimentati su alcune zona e poi generalizzati; tanto nel passato quanto nel presente, si applicano per fasi e livelli. In altre parole, la diffusione a tutto il territorio nazionale ha avuto luogo dopo di essere stata comprovata la sua efficacia. La ristrutturazione finanziaria concepita divenne nello sviluppo di un processo a lungo termine che andò in parallelo con la restaurazione economica intrapresa dalla Cina nel 1979. La dialettica che prevalse, da un lato, fu il risultato delle esigenze delle incipienti relazioni monetarie e mercantili e la loro estensione nell’azionare dell’economia e, dall’altro, anticipò elementi condizionanti di innovazioni occasionali in diversi settori dell’economia nazionale. Tuttavia, i successivi cambiamenti nell’impiego degli strumenti finanziari cominciavano ad avere influenza sul piano economico però non furono esenti da imperfezioni e da altri errori. In questo senso, la maggior carenza che si può citare con rispetto al nuovo ordine che emergeva nella sfera monetario-finanziaria, in generale, è che era l’ultimo ad applicare dei cambiamenti con rispetto ad altri settori dell’economia. Certi fattori come la novità, la sincronia, lo spessore, la complessità delle variazioni in processo, associati alla mancanza di una radicata cultura mercantile, ebbero una forte influenza sul rilassamento degli appena inaugurati controlli finanziari. Tutti questi eventi crearono dei seri problemi macroeconomici, che generarono minacce per il settore bancario ed per il giovane sistema finanziario. In conclusione, per quanto riguarda le implicazioni sociali, questi eventi portarono ad rischio la stabilità politica del paese; tra questi emerge la vasta quantità dei prestiti non recuperabili delle banche commerciali, sommato alla persistente corruzione. Nella sfera tributario-fiscale e dell’amministrazione dello Stato ebbene sottolineare che la realtà e il modo graduale in cui frutò la rinnovazione che sperimentava l’economia della Cina, gettarono le basi dell’organizzazione di un sistema di enti pubblici, così come di una politica fiscale nel paese. E’ utile segnalare che nell’aspetto relativo agli enti pubblici in Cina, il “modello economico centralizzato” non lasciò tracce riutilizzabili nella riorganizzazione dell’ordine fiscale o per ristrutturare una politica tributaria. Dovettero trascorrere diversi anni di progressi tangibili nei cambiamenti nel funzionamento dell’economia (agricoltura, investimenti esteri, ecc.) affinché guadagnassero spazio le relazioni monetario-mercantili e che conquistassero importanza i temi concernenti al tesoro pubblico. L’ordine fiscale cominciò a svolgere un ruolo primordiale come parte della politica economica, integrandosi all’obiettivo generale di riuscire ad ottenere stabilità e crescita, contribuendo alla ricezione di risorse monetarie in funzione delle necessità del governo e da il loro uso in accordo con le priorità nazionali. Il Sistema Tributario Nazionale prese a suo carico integralmente la riscossione dei tributi fiscali e la creazione di una varia e razionale gamma di imposte. Gli oneri indiretti crebbero; si ridusse la riscossione per concetto di entrate personali, mentre aumentarono la partecipazione delle quote imprenditoriali ed dei tributi sui beni, servizi e commercio internazionale; si rafforzò l’autorità nella funzione amministrativa e fiscale del livello centrale e diminuì l’interferenza delle autorità locali.

Le tasse doganali furono incrementate, nel modello centralizzato, in pratica, non svolsero nessun ruolo nella politica fiscale e contemporaneamente soffrirono negli ultimi anni sensibili aggiustamenti per avvicinarsi alle correnti dell’economia internazionale, soprattutto, dopo l’adesione della Cina all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Se si sommano questi carichi a quelli precedenti, si raggiunge circa il 95 percento del totale delle entrate delle imposte. Bisogna sottolineare che l’organizzazione del nuovo sistema fiscale ha avuto a che fare con la complessità amministrativa della Cina. Il paese, nell’aspetto amministrativo, è integrato da amministrazioni centrali, provinciali, regioni autonome, municipi, cantoni, prefetture autonome, distretti, villaggi, aree urbane, locali, ecc. Le relazioni finanziarie si sviluppano mediante una complessa rete di principi costituzionali, leggi, abitudini e contratti di diversa indole intergovernamentale. Finalmente, l’esperienza accumulata in più di un quarto di secolo dove la Cina intraprese le “quattro modernizzazioni” dimostra che è riuscita ad incorporare il mercato al piano economico, con presenza maggioritaria della proprietà pubblica nei settori prioritari, senza la privatizzazione cospicua come sostegno basilare. Conformò indicatori monetario-mercantili per sostentare il controllo, la gestione e la direzione dell’economia, dove i sostegni macroeconomici guadagnarono la categoria principale. Questi ebbero influenza sullo spostamento al piano centralizzato di subordinazione verticale e di organizzazione ramificata come strumento primario socioeconomico9. Infine, la sintesi del processo di modernizzazione in Cina negli ultimi cinque lustri evidenzia gli enormi cambiamenti operati nel commercio estero del paese. Nel 1980 occupò la trentesima posizione nella classifica mondiale; nel 2006 passò al terzo posto; per quanto riguarda l’entità delle esportazioni e delle importazioni ascese al terzo posto dell’economia internazionale. In quanto alle esportazioni, le manifatture costituiscono più del 90 percento, nonostante sia necessario segnalare che le imprese formate con investimenti stranieri diretti (ISD) apportano il 60 percento in quelle proporzioni. Dato il volume del PIL rappresenta la quarta potenza del pianeta.

Tuttavia, il PIL procapite del paese, secondo le cifre ufficiali, non oltrepassa i 1650 dollari annuali. Benché calcolato in termini della parità del potere d’acquisto (PPA) gli stimati lo collocano al di sopra dei 3500 dollari. Per questo motivo, la Cina sostiene che, nel suo insieme, appartiene ai paesi in via di sviluppo.

VI

In Cina, la progressiva assimilazione di un’economia mercantile e l’apertura verso l’esterno hanno dato luogo, e con rinnovata enfasi, ad un rapido dinamismo sociale e a un maggior grado di liberalizzazione in diversi ambiti della società. Con un forte grado di obiettività si può affermare che fino poco dopo il 1980 in Cina prevalse una relazione che si potrebbe definire di “verticalità”, dove l’impronta “Partito-stato-individuo” aveva acquisito un’elevata dose di controllo. La società sembrava riflettere un carattere omogeneo ed uniforme; predominava una struttura ugualitaria che era data per equa, dentro un sistema politico gerarchico ed altamente concentrato delle istanze di potere. Nell’aspetto economico l’eccessiva centralizzazione risultava prioritaria. I membri dei differenti settori lavorativi (operai ed impiegati) non godevano di mobilità e di solito il posto di lavoro era intrasferibile e vitalizio. La società, praticamente, era chiusa all’esterno. Il culmine dell’economica nei settori che entrarono nella modernizzazione e dopo nel superamento del “modello” applicato fino ad allora, portò prosperità e benessere a milioni di persone. Contemporaneamente, si vide il lato amaro della frustrazione per le generazioni che guardavano al passato e sentivano che il mondo “ideologico” al quale avevano consegnato sogni e sforzi spariva davanti ai loro occhi. È comprensibile che i cambiamenti strutturali che subentrarono, la mobilità sociale svegliata, la libertà individuale per intraprendere iniziative economiche, le aspettative di un futuro più promettente per vasti gruppi della popolazione, dessero motivazioni a determinati strati sociali per sentire una certa mancanza di controllo e perdita dei valori prevalenti fino ad allora. Ma, nell’aspetto sociale, l’umanità non conosce un’esperienza simile che sia riuscita a sradicare la povertà nella dimensione e con la rapidità così come accadde negli ultimi 27 anni in Cina. Nel 1978, la popolazione povera, quella che guadagna circa 85 dollari annuali secondo le leggi nazionali (200 dollari secondo la Banca Mondiale), oscillava tra i 250 e 265 milioni di persone. Secondo dati ufficiali questa quantità si è ridotta a circa 30 milioni di persone concentrati nelle zone più appartate e montagnose del paese. Tuttavia, uno dei temi ricorrenti quando si tenta di visualizzare tutta la commozione nella struttura sociale che comportò la modernizzazione economica è relazionato con due fenomeni paralleli. Il primo è caratterizzato dai grandi spostamenti umani; agli inizi della decade degli anni 90 del passato secolo questo movimento raggiunse cifre vicine ai 25 milioni di persone al giorno (10 milioni di queste cambiarono residenza). I poli di attrazione, naturalmente, lo costituiscono le zone economiche speciali (ZES) e le grandi città meridionali e costiere.

Questo flusso migratorio è dovuto a diversi fattori: segue i modelli del mercato, sono gruppi eterogenei formati da giovani, prevalentemente maschi, anche se le donne contano maggiori vantaggi nella ricerca d’impiego domestico, nei servizi e nell’industria leggera, ecc. In generale, questi gruppi possiedono un basso livello educativo, sono facilmente disponibili, accettano condizioni di lavoro più dure, e generale sono lavoratori stagionali. L’altra faccia del fenomeno, ovvero, la mareggiata migratoria ha impatti positivi nei luoghi di origine degli immigrati. la densità di popolazione diminuisce e si riduce la quantità di disoccupazione e di sottoccupazione. Così, quando inviano denaro ai parenti originano un doppio vantaggio: migliora il livello di vita dei parenti e si contribuisce allo stimolo di attività di tipo artigianale o semindustriale. Il fattore negativo deriva dall’abbandono permanente della coltivazione della terra, e questo colpisce la produzione agricola. Il calcolo del traffico di popolazione in Cina ha altre conseguenze. Gli immigrati costituiscono una manodopera primordiale per lo sviluppo delle zone urbane in crescita e per il progresso economico e sociale del paese. Svolgono lavori manuali, a buon mercato e, quasi sempre, senza previdenza sociale, quello che si traduce in minori costi per le imprese. Lavorano, prevalentemente, nel settore privato, dato che il settore pubblico viene destinato agli abitanti locali, e costituiscono concorrenza per gli occupati del settore statale. Questa mobilità di popolazione si produce in modo non organizzato ed in grandi ondate. Questo provoca problemi di imbottigliamento del trasporto, ammucchiamenti in abitazioni, infezioni per ciò che riguarda la sanità dovute alle pessime condizioni igieniche. Tutti questi aspetti sono socialmente nocivi. D’altra parte, è ovvio che l’impetuosa crescita dell’economia si sviluppa in modo non equo . Le aeree costiere, e fondamentalmente le province meridionali, accusano un dinamismo economico e sociale che contrasta col secolare ritardo delle regioni del centro e dell’ovest del paese. Il processo di sviluppo economico non ha diminuito quelle differenze; al contrario, si aggravano gli squilibri territoriali, e come risultato appaiono maggiori disuguaglianze sociali. Contemporaneamente, un altro elemento che non esula dal calcolo dell’accaduto in Cina nella sfera lavorativa negli ultimi 27 anni include la nascita di un fenomeno sconosciuto dentro il funzionamento del “modello maoista”. Con la generalizzazione del mercato si è conformato un “esercito industriale di riserva” che alcune fonti ufficiose - che senza esagerare - fissano in circa 30-50 milioni di persone. Questo significa che la disoccupazione nelle zone urbane oscilla tra un 4 e un 5 percento secondo le statistiche ufficiali e tra un 8 e un 10 percento secondo altre fonti, escludendo le aree rurali. Ugualmente, in modo negativo pesa considerevolmente nei progressi economici il fatto che questa ondata migratoria abbia portato nell’aspetto sociale una maggiore corruzione che tocca tutte le sfere della società, compresa la politica. Tra le forme più diffuse di corruzione si trovano: le raccomandazioni, le malversazioni, la partecipazione in reti di traffico, il nepotismo, l’evasione fiscale, gli abusi edilizi, la deviazione dei fondi, il fenomeno di affari illeciti.. Senza dimenticare il contrabbando nelle dogane, soprattutto del Sud, i grandi progetti costruttivi, i programmi di sviluppo del centro-ovest del paese, i fondi pensione e altre operazioni “sporche”, muovono miliardi di dollari. Ma anche altri tipi di delitti e violazioni legali si diffondono ampiamente. L’elaborazione, distribuzione e vendita di droga raggiungono livelli considerevoli, vicini a quelli della prostituzione, del gioco e delle attività criminali. A questo flagello si unisce il crescente fenomeno dei sequestri e del commercio di donne e bambini ed il contrabbando interno ed internazionale di persone. Nonostante le pene siano dure, la proliferazione di questi delitti preoccupa le autorità governative che mettono in pratica severe misure di sicurezza ed intensificano la loro persecuzione. Neanche l’ambiente rimase al margine degli influssi della modernizzazione. Il panorama nazionale si caratterizza per l’inquinamento dei fiumi e dei mari, la diminuzione dell’acqua potabile a disposizione della popolazione, l’incremento dell’inquinamento dell’aria, i rumori, l’aumento dei rifiuti solidi, la degradazione dei suoli e la riduzione delle terre da coltivare (1-3 milioni di ettari l’anno) i cambiamenti climatici e gli effetti dei disastri naturali. Una conclusione sembra ovvia, la ristrutturazione (rivoluzione) economica trascina la società cinese negli aspetti economici, politici e sociali. I suoi effetti variopinti e contraddittori fanno più diversificata e dinamica la struttura sociale, in relazione con gli “esperimenti” che condussero alle “comuni” o alle esagerazioni della “Rivoluzione Culturale.” Infine, la storia della nazione osserva ora uno sviluppo economico senza paragone, un’apertura esterna che non ha precedenti nel passato, ritmi di benessere più cospicui per ampi settori della struttura economica -senza predizioni esatte- ed una maggiore libertà ed indipendenza cittadina. Quello che si intuisce è che la Cina entra pienamente nella società globalizzata ed affronta la sfida di assorbire il patrimonio tecnico-culturale-istituzionale mondiale, senza perdere l’ancestrale fisionomia della sua cultura molto speciale. Il secolo XXI scoprirà se la Cina rappresenta una minaccia o una sfida sociale senza precedenti nella storia. Se si vuole trarre delle deduzioni dall’accaduto nell’economia cinese tra il 1949 e il 1978 e, in particolare, nella fase di modernizzazione trascorsa dal 1979 al 2006, alcuni eventi costituiscono dimostrazioni evidenti a partire dai concetti, categorie e teorie elaborate dentro l’ortodossia del “socialismo reale” di chiare “eresie di sinistra”. Senza dubbi, il “Grande Salto” e la “Rivoluzione Culturale” qualificano come violazioni dello sviluppo naturale del socialismo conosciuto nella storia economica recepita nel secolo breve (XX). Tuttavia, alla luce degli stessi presupposti, il ciclo di modernizzazione dell’economia percorso dalla Cina classifica come un’altra “eresia”, anche se questa cade nell’altro estremo, quello della “destra”. Il proprio svolgimento e l’esperienza rinnovatrice cinese (dopo aver assistito al naufragio del “modello economico centralizzato” nato nell’URSS e alle varianti orchestrate nel centro ed est europeo -includendo l’autogestione jugoslava-) confermano che le economie socialiste mancarono, nei suoi meccanismi di direzione economici, nell’autocorregersi.

La deduzione risulta ovvia, uno sguardo retrospettivo all’esistenza del socialismo conosciuto renderebbe comprensibile che, al livello delle forze produttive attuali, la società è distante di poter inviare il mercato, insieme al telaio manuale, al museo della storia. D’altra parte, non si possono sottovalutare la situazione geografica e gli elementi culturali quando si osservano i progressi economici della Cina. Il paese asiatico raccoglie una vita culturale e contadina di migliaia di anni, dove la struttura e la tradizione familiare svolgono importanti ruoli. Inoltre, la regione asiatica si è trasformata nell’economia più dinamica del pianeta. Crescere e svilupparsi è un imperativo per non rimanere fuori dal cammino intrapreso. Il paese optò per accettare la sfida e le regole della globalizzazione. L’estensione territoriale e la popolazione non possono essere tralasciate. Differenze regionali, zone di povertà, bassi livelli di trasporto e comunicazioni, ecc, hanno influenze evidenti nell’accelerare o nel ritardare le politiche innovatrici. Anche se la Cina in questo terreno presenta grandi disparità ciò non ha ostacolato che l’apertura alla modernizzazione tirasse fuori dalla povertà a milioni di persone. A sua volta, una caratteristica che, senza eccezione, gli analisti distinguono nel caso delle “riforme” realizzate in Cina, tendenti all’assimilazione di un’economia socialista di mercato, ha a che vedere con la gradualità del processo. Tuttavia, molto spesso si ignora che tale scaglionamento fu possibile per aver dato inizio alle “quattro modernizzazioni” a partire dall’agricoltura e, in generale, per il settore privato. Intanto, la disgregazione del “modello maoista” sembra confermare che il sistema economico che amministra con successo la povertà non è capace di generare e distribuire ricchezza. Non bisogna dimenticare che l’eredità “autoritaria” in Cina è legata ad un lascito che accumula più di duemila anni di antichità. Nel terreno politico, l’aria di modernizzazione in Cina si inspirò a partire da “quadri fondatori della Rivoluzione”, dove il rappresentante più importante fu Deng Xiaoping. E’ utile ricordare che in Europa dell’Est e nell’URSS i tentativi rinnovatori partirono da “eredi”. A questo si deve sommare la paralisi dovuta alla burocrazia come elemento refrattario a qualunque cambiamento che mettesse in pericolo lo “status quo” o, in ultimo termine, “cambiare affinché tutto resti uguale”. Nonostante, nel caso dell’esperienza della modernizzazione in Cina non entrarono in crisi soltanto i componenti basilari del “modello economico centralizzato”, gli ingredienti della teoria leninista del partito non risultarono inalterabili, suggeriscono una sorta di adeguamenti precisi, la precedente “eresia” rivoluzionaria della presa del potere “dal campo accerchiando alla città” sembra ora che integrerà, nel futuro prossimo, l’attuazione conseguente della “tripla rappresentatività”10 come sequenza e sviluppo logico del processo rinnovatore dell’economia. Nella “tripla rappresentatività”, l’integrazione al partito di operai, di contadini ed il diritto che acquisiscono anche i “nuovi uomini dinamici”, si accetta la deduzione scientifica, l’esperienza, la direzione e l’ubicazione storica del PCC. Attraverso il percorso della lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico, la costruzione del socialismo e la modernizzazione, col suo corollario modificatore, il Partito cambiò e guida il popolo all’assunzione del potere e accumula pratica e tempo nel suo esercizio. L’organizzazione di partito, dicono, passò dalle circostanze di dirigere al paese sotto il blocco esterno ed un modello di economia di pianificazione centralizzata ad un Partito che guida gli obiettivi sociali nelle condizioni dell’apertura all’esterno e lo sviluppo di un’economia di mercato socialista.

Così, oggi il concetto della “tripla rappresentatività” si erige in una piattaforma di azione per il Partito, diventa una fonte di stimolo per incrementare e sviluppare le forze produttive ed il progresso tecnico-scientifico più avanzato, per ampliare la visione teorico-ideologica della militanza e di tutto il paese per portare avanti la causa del “socialismo” con peculiarità cinesi. Questo postulato sorge come base per rivitalizzare la linea di “estrarre la verità dalla realtà”, in modo continuo emancipare “le menti” e rispettare le “iniziative” delle masse. È interessante ricordare che il PCC si fondò il 1 Luglio del 1921 a Shanghai. Contava nel 2006 con più di 71 milioni di membri, il 12 percento dei quali erano operai, un 29 percento erano funzionari governativi, personale amministrativo delle imprese ed istituzioni di proprietà statale e tecnici, un 32 percento contadini, senza essere un partito agrario, ed il restante 27 percento sono soldati, studenti e pensionati. Questi dati sembrano invertire la piramide della concezione leninista del partito. Con il riconoscimento del ruolo sociale della “tripla rappresentatività”, il numero di abitanti stimato come “classe media” in Cina è per alcuni specialisti vicino ai 70 milioni, e per altri, abbraccia circa 150-180 milioni, dove l’estesa scala dei “nascenti uomini di impresa” che costituiscono la grande maggioranza del settore, acquisiscono diritto di entrata al Partito. Secondo alcuni analisti questa situazione concorda con la rappresentazione delle “classi” rappresentate nelle stelle della bandiera nazionale. D’altra parte, l’assenza di un meccanismo istituzionalizzato nel “modello bolscevico” nell’aspetto relazionato alla successione nelle strutture del potere politico sembra stabilita dentro lo spirito di modernizzazione in Cina, almeno per il momento. Il precedente che lasciò Deng Xiaoping di allontanarsi per volontà propria dalle cariche (ufficialmente non ostentò nessuna carica), fu convalidato nell’accordo del “XIV Congresso del PCC” (1992) limitando a due mandati come massimo, i più alti posti dentro la gerarchia del Partito e dello Stato. Infine, le “quattro modernizzazioni” dell’economia intraprese dal 1979 in Cina divennero un’”eresia”, quando si verificò il suo svolgimento in relazione con l’ortodossia sostenuta nei pilastri del “modello” che sembrò staccarsi dall’esperimento sovietico nella Russia degli Zar. Contemporaneamente, il primo passo in tutta questa lunga strada, appartenente alla categoria della “fase primaria del socialismo” può essere interpretato come la versione cinese di un iniziale periodo di transizione, per quanto riguarda i compiti che dovette risolvere il capitalismo, ed in concordanza con la teoria accettata, questa fase richiederà, nella “Nuova Cina”, almeno100 anni. Questo è così se c’atteniamo alla “teoria classica” negli estinti saggi socialiste dell’Europa dell’Est e dell’URSS. Inoltre, il “socialismo con caratteristiche cinesi” è servito per dare le basi alla graduale assimilazione degli appoggi monetario-mercantili e, specialmente, il ruolo del mercato nell’economia della Cina. Dalla prospettiva storica, questo tentativo sembra confermare le conclusioni di diversi specialisti: il modello classico socialista sovietico non si poteva riformare. In un altro senso, la disgregazione economico-sociale-politica scoperta con la rinnovazione dell’economia non si sostentò in una strategia prestabilita, piuttosto, la strada da seguire fu rappresentata nel mostrare quello che iniziò come una pratica “riformista”.

In definitiva, è indubbio che la Cina è nel cammino di coltivare un nuovo modello socioeconomico che non ha definito ancora tutti i suoi contorni. I suoi modelli non corrispondono al “socialismo reale”, si allontanano dal “socialismo di Stato”, e la “fase primaria del socialismo” è solo una transizione. Gli intenti di identificarlo col capitalismo sembrano obiettivi, riconoscendo che diverse forme di capitalismo e socialismo per molto tempo coesisteranno. Ma, tralasciando i contorni materiali che adotterà, è pronosticabile che la “genetica del modello”, ancora con aspetti futuri da sviluppare, non avrà gli stessi contenuti nei profili basilari del “modello classico socialista” che la storia rifiutò. Allo stesso modo, contando le retrocessioni e gli aggiustamenti che sperimentò dal 1979, il corso delle politiche economiche orchestrate nel contesto delle “quattro modernizzazioni” dimostra che nella sua evoluzione il pragmatismo derivato dai fatti, più che qualunque costruzione a priori, fu determinante. Ciò conferma l’opinione prevalente tra gli studiosi che seguono l’accaduto in Cina, in quanto al primato del principio empirico, la prova concreta, l’esperimento, al di sopra della figura elaborata dalla teoria. In sintesi, il “pragmatismo” è causa ed effetto delle trasformazioni pratiche. Così, “attraversare il fiume calpestando le pietre” sarebbe una parabola azzeccata per definire questa situazione. Ma la propria vita, in un linguaggio trasparente, ratifica che cambiamenti tanto radicali ci portano agli interrogativi esistenziali siamo di fronte ad una Modernizzazione? Ad una Riforma? Ad una Rivoluzione? o ancora nel Capitalismo? Rispetto a ciò che avviene nelle sfere economico-politico-sociali in Cina. Inoltre, c’è la prova che quello verificatosi nel paese nei 25 anni trascorsi nell’impegno di modernizzare l’economia, aiuta a capire che non si può attraversare un immenso ed impetuoso fiume calpestando le pietre”. Infine, non si può dimenticare, tuttavia, che la grande maggioranza degli osservatori dell’avvenimento politico ed economico internazionale, gli specialisti e sinologhi sono d’accordo nell’osservare l’incredibile velocità e crescita eccezionale della Cina come futura potenza mondiale. Tra altri molti elementi, la Cina dispone di una vasta gamma di risorse senza eguali: voglia di essere “paese centrale”, una forte posizione nel mercato (maggior mercato emergente del pianeta), mezzi finanziari (riserve di valuta: superano il miliardo di dollari) ed inarrestabile espansione tecnologica. Per ciò, è consenso generalizzato che il risveglio del “drago rosso” sta alterando la politica, l’economia e la geopolitica globale. Impatti ai quali si vedono esposte tanto le società industriali quanto quelle in via di sviluppo.

Professore Titolare, Centro di Investigazioni di Economia Internazionale, Università dell’Avana.

Il fattore culturale, senza dubbi, non può ovviarsi nell’analisi dell’accaduto con il “colosso asiatico” con la nascita della “Nuova Cina”, in ottobre del 1949. Basti segnalare che, gli Imperi scomparsi nel secolo XX, originarono nuovi Stati nella mappa mondiale. Dato curioso, l’abdicazione, il 12 febbraio del 1912, dell’Imperatore Pu yi, trasformò il vasto territorio cinese nella Repubblica della Cina. Per un’amena ed interessante storia del paese vedere: José Fréches, , “Érase una vez China”. De la Antigüedad al siglo XXI”, Editorial Espasa Calpe, S. A., Madrid, España, 2006.

Vedere: Salomón Adler, “La Economia China”, Fondo de Cultura Economica, Messico, 1957.

Vedere: Wlodzimierz Brus, “Il Funzionamento dell’Economia Socialista”, Oikos-tau, s. a. , edizioni, Barcellona, Spagna, 1969.

Vedere: Karol, Kewes S., “Cina el otro comunismo”, Ed. Secolo XXI, Messico, 1967.

Vedere: Karol, Kewes S., “La secunda revolucion china”, Editoriale Seix Barral, S. A., Barcellona, Spagna, 1977.

Nel 2006, compiendosi 30 anni dall’inizio della “Rivoluzione Culturale”, si svolse a Beijing un evento, a porte chiuse, dove accademici ed altri specialisti delle scienze sociali, dibatterono su quegli anni. I risultati non furono pubblicati. Per avvicinarsi a quegli eventi vedere: Deng Rong, “Deng Xiaoping y la Revolución Cultural. Su hija recuerda los años críticos” Editora Popular, Madrid, Spagna, 2006.

Da un’ottica di “ultra sinistra” questi fatti portarono al potere ad una “burocrazia civile-militare.” Vedere: Robinson Rojas, “China, una revolución en agonía”, Ediciones Martínez Roca, S. A., Barcellona, Spagna, 1978.

Vedere: Deng Xiaoping, “Fundamental Issues in Present-day China”, Edizioni in Lingue Straniere, Beijing, 1987. Si unì al PCC in Francia, sopravvisse all’epopea della “Grande Marcia”; Mao lo descrisse come: “uomo di cervello rotondo ed idee quadrate”, brillò più per il suo “pragmatismo” che per la creazione teorica.

I cambiamenti economici in Cina danno luogo a varie note. Di ritorno al capitalismo, tra gli altri, parlano: M. Hart-Landsberg e P. Burkett, “China y el Socialismo”, Editorial Hacer S.L, Barcellona, Spagna, 2006. Una sintesi analitica dei dibattiti, in: Julio A. Díaz Vázquez, “China: ¿Reforma o Revolución?, Revista Utopías, Nr. 191, VOLL. I / 2002, Madrid, Spagna, pag. 119-125.

Vedere: Jiang Zemin, “Relazioni davanti al XV ed al XVI Congresso Nazionale del PCC”, Beijing Informa, Numero 40, 1997; Agenzia Xinhua, 8 novembre del 2002, Beijing.