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Lotte operaie, tute blu, sindacalismo, lavoratori. A volte ritornano, almeno nei libri

DIEGO GIACHETTI

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1. Libri di lotta

Quelli che se ne intendono affermano che oggi la storiografia politica del movimento operaio e sindacale ha superato la crisi in cui era precipitata negli anni Ottanta, quando, dopo il gran vigore che aveva assunto negli anni Settanta, cadde nel limbo incolore e disinteressato della cultura dell’impresa, volta ad includere la storia e la storiografia del movimento operaio dentro quella dello studio e delle narrazioni delle vicende delle aziende, un perfetto incorporamento del capitale variabile (la forza-lavoro) dentro il Capitale in quanto tale, senza più alcun riconoscimento di un’esistenza di soggettività autonoma, neanche sul piano storiografico e delle cattedre universitarie. I tre libri, dai quali prendiamo ampiamente spunto per stendere queste note, rappresentano un segnale dell’avvenuta inversione di tendenza almeno nel campo della ricerca storica e politica, si tratta dei testi di Andrea Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, (Roma, Donzelli, 2006), Fabrizio Loreto, L’ “anima bella del sindacato”. Storia della sinistra sindacale (1960-1980), (Roma, Ediesse, 2005), Donato Antoniello, Luciano Vasapollo, Eppure il vento soffia ancora. Capitale e movimento dei lavoratori in Italia dal dopoguerra ad oggi, (Milano, Jaca Book, 2006). Tutti e tre i libri pongono un problema e lo risolvono. Il problema è dato dal fatto, non nuovo, che la storia della conflittualità di classe e quella dei lavoratori, non sempre coincide, anzi!. La storia della conflittualità di classe procede a sbalzi, ha un andamento sinusoidale, con delle punte alte e delle ricadute, delle assenze, dei vuoti. Se per classe s’intende un’identità marcata e condivisa dei soggetti che occupano nel processo produttivo e nei rapporti di produzione lo stesso ruolo, condividono una rete d’interessi e obiettivi che sfociano in una coscienza soggettivamente percepita del proprio ruolo sociale, allora spesso la classe (“per sé”, come apprendemmo dai manualetti delle scuole quadri degli anni settanta) non sempre esiste, esistono però i lavoratori, i subordinati in genere, i quali per tante ragioni non sono in grado di esprimere una propria volontà soggettiva, una propria rappresentazione di interessi e di rivendicazioni. Tutti gli autori dei testi considerati concordano nell’affermare che il 1980 in Italia segna la fine di un periodo di conflittualità operaia che aveva aperto la sua parentesi fin dai primi anni Sessanta per giungere al culmine nell’autunno caldo del 1969 e perdurare per tutto il decennio. Chiuso questo periodo, il lavoro e i lavoratori rimangono, anche quando non c’è espressione di conflitto né di protagonismo operaio e sindacale, quando vengono meno le mobilitazioni collettive, le azioni di lotta della classe operaia e il lavoro torna ad essere unicamente frazione variabile del capitale da organizzare aziendalmente, secondo le tecniche correnti dell’impresa, e la contrattazione si risolve in procedura tecnica di gestione dell’insieme del capitale (costante e variabile, cioè impianti e organizzazione del lavoro+forza lavoro) e non in mezzo per modificare le condizioni di chi lavora a scapito del sistema produttivo. La soluzione sta nell’adottare la coppia concettuale storia del lavoro e storia delle conflittualità capace di dare ragione sia ai punti alti del conflitto e sia ai periodi in cui il conflitto e l’antagonismo non ci sono. Prendendo in esame la storia dei lavoratori è possibile cogliere e analizzare, cosa che fa, ad esempio, il testo scritto a più mani e promosso dal Centro di Documentazione e di ricerca per la storia del lavoro di Imola, intitolato Operai (Torino, Rosenberg & Sellier, 2006) e curato da Stefano Musso, l’evoluzione del mondo dei lavoratori dell’industria in un tempo lungo, senza volerlo per forza confinare nel trentennio compreso fra il boom economico e gli anni Ottanta. Usare quindi il concetto lungo di lavoro e di lavoratori per definire e capire il Novecento che è stato anche il secolo del lavoro, significa aprirsi ad un “viaggio in un territorio sconfinato dove s’incrociano storia economica e storia della città, etica imprenditoriale e estetica dei prodotti, l’audacia del progresso e dell’innovazione tecnologica e lo sfruttamento dell’uomo; è fatica e libertà, movimenti collettivi e iniziativa individuale, democrazia e partecipazione, conflitti e globalizzazione”1. Si tratta di aspetti complessi e controversi delle società e delle culture del secolo passato che sono affrontati dai pochi musei dedicati al tema del lavoro ai quali dovrebbe aggiungersi, nel 2008, anche quello di Torino. E ancora, ad unire i libri vi è un metodo comune, consistente sempre nel non lasciarsi prendere la mano dallo specifico del tema che è oggetto di ricerca e di trattazione, ma di inserirlo costantemente e continuamente nella cornice storica più ampia del periodo trattato. Lo fa bene sia Andrea Sangiovanni, autore di Tute blu, che esamina come sono stati rappresentati gli operai nella storia italiana della prima repubblica e sia Fabrizio Loreto, che tratta della storia della sinistra sindacale con un’attenzione costante a delineare la cornice storica entro la quale si svolge la lotta sindacale e operaia e la battaglia politica e teorica dentro il sindacato stesso. In entrambi la storia che narrano è sempre rapportata al contesto e agli elementi di politica e di economia generale cui si riferiscono; non è cioè una storia che si avvita su se stessa ma è una storia che interagisce e dialoga con le “altre storie” della società italiana. Ugualmente e a maggior ragione il testo di Donato Antoniello e Luciano Vasapollo che vuole essere una storia generale non solo del sindacalismo italiano dal secondo dopoguerra ad oggi, ma del capitalismo italiano e della società colta nelle sue grandi trasformazioni strutturali, economiche e culturali e nei suoi riflessi sulla composizione e il mutamento della classe lavoratrice. Una sintesi, quindi, di trecento e più pagine, di una storia complessa e ricca d’intrecci con altre storie e cornici che ha il pregio di varcare con decisione quello che spesso è il Rubicone periodizzante di queste ricerche: ci riferiamo all’anno 1980, quello segnato dalla sconfitta alla Fiat, che apre il terreno alla ristrutturazione dell’impresa in Italia e della funzione dei sindacati nel gioco nuovo delle relazioni consociative e istituzionali tra vari organismi e centri di potere.

2. Operai “buoni” e “cattivi”, ma marginali Le elezioni del 18 aprile 1948, con la sconfitta delle sinistre raccolte nella lista del Fronte Popolare, e la netta affermazione della Democrazia Cristiana, il seguente attentato a Togliatti del luglio, segnavano la fine di quella politica di collaborazione di classe sancita dalla costituzione del CLN nella lotta di liberazione contro il nazifascismo; contemporaneamente, a livello internazionale, l’inasprirsi dei rapporti tra i due blocchi, dava inizio alla guerra fredda e sanciva fine dell’unità militare antifascista realizzatasi tra Unione Sovietica, Gran Bretagna e Stati Uniti. La politica di unità nazionale, perseguita anche dopo la guerra, aveva dato vita, sul piano sindacale, alla collaborazione interclassista per la ricostruzione del paese il quale cercava, negli ambiti stretti di quell’impostazione, di trovare uno spazio autonomo dai partiti, proposizione duramente contrastata dai comunisti che ancora concepivano il sindacato come cinghia di trasmissione del partito. Gli avvenimenti del 1948 posero fine all’unità sindacale, la CGIL divenne il sindacato a prevalenza comunista e socialista, mentre i cattolici si raccolsero nella CISL e i socialdemocratici e i repubblicani nella UIL, entrambi in forte polemica con la CGIL. Fin dai primi anni cinquanta inizia nelle fabbriche lo smantellamento delle posizioni di potere che ancora mantengono i comunisti e la CGIL per ripristinare l’autorità del “padrone”, primo passo verso una riorganizzazione in senso tayloristico della produzione, che innesta un vistoso aumento del rendimento de lavoro e della produzione. Sono anche gli anni del paternalismo, della discriminazione verso i lavoratori comunisti, socialisti, della CGIL, della mortificazione dei valori professionali e umani, della forzata rottura dei vincoli di solidarietà e amicizia che lega la comunità operaia. La CGIL, nel caso più emblematico della Fiat, è travolta, la FIOM perde consensi elettorali e iscritti e si trova ad avere un quadro interpretativo, mutuato in larga parte dalle analisi economiche del PCI, che risulta inadeguato. Nei congressi sindacali dei primi anni cinquanta domina ancora la cultura della crisi del capitalismo, della sua incapacità a sviluppare le forze produttive e con esse l’occupazione e la produzione, perché dominato dai monopoli, che conduce a una rappresentazione pauperistica della condizione dell’operaio. Sono però anche gli anni in cui, timidamente, nella CGIL si fa strada l’idea che si debba capire a fondo la trasformazione in atto nelle fabbriche e nel modo capitalistico di produzione e che il sindacato debba ricercare l’autonomia dai partiti. Due immagini contrapposte di operai vengono date dai mezzi d’informazione: quella “dell’operaio come elemento sovversivo, possibile fonte di sabotaggio o docile strumento di un sindacato volto a sovvertire l’ordine sociale” e quella “bravo” lavoratore scevro da passioni politiche e rispettoso delle gerarchie”2. La prima immagine si riferisce soprattutto alla rappresentazione dell’operaio comunista da parte delle forze anticomuniste, un’immagine che invece è valorizzata dalla sinistra, per la quale militanza di partito e sindacale si mescolano in modo indistinguibile: “negli anni duri vengono esaltate le sue caratteristiche principali: forza fisica, integrità morale e intransigenza dottrinale. Emerge la figura un po’ grigia di un operaio di grande mestiere e coscienza professionale, possibilmente piemontese, con una forte etica del lavoro e della produzione, accoppiata a una concezione dura, un po’ stalinista, della lotta di classe e dell’organizzazione”3. Un operaio, un produttore, la cui coscienza sindacale giunge a rifiutare il sistema capitalistico, ma riconosce l’oggettività del meccanismo di produzione messo in atto nella fabbrica. Il fine non è quindi la liberazione dalle condizioni di lavoro in fabbrica, quanto liberarsi da chi sfrutta quel tipo di lavoro, cioè liberare il lavoro dal capitalismo. Contrapposto a questo modello vi è quello dell’operaio integrato, le cui matrici costitutive sono date dalla cultura cattolica e da quella aziendale, entrambe non hanno difficoltà a unirsi, incrociarsi e mescolarsi, dando vita alla Fiat di Torino all’esperienza del SIDA, che nasce da una scissione della CISL e costituisce un’organizzazione sindacale “integrata” e filo-aziendale. Un’integrazione che è garantita sul piano strutturale dallo sviluppo economico e produttivo che investe soprattutto l’industria italiana a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Sono gli anni del miracolo economico, la cui portata innovativa, almeno sul piano politico e sociale, non va enfatizzata troppo in quanto si innesca su una “combinazione ibrida di liberismo economico e interventismo pubblico”4 e produce un “faticoso processo di integrazione sociale”5 e una modernizzazione contraddittoria. Rispetto però ad altre categorie di classi subordinate, quali i contadini e i braccianti, la condizione di operaio in quegli anni, assume una connotazione positiva, un progresso nella scala dei valori e di status, in quanto il lavoro in fabbrica significa posto garantito, remunerazione sicura e maggiore del reddito prodotto dal lavoro nei campi e, quindi, possibilità di accesso ai consumi: elettrodomestici, televisione, ferie. Nell’insieme però il mondo operaio appare ancora separato dal resto della società, poco conosciuto, poco visibile, così come lo sono le fabbriche. L’opinione pubblica e gli organismi adibiti all’informazione e alla rappresentazione (giornali, televisione cinema) hanno difficoltà a cogliere quello che si sta muovendo all’interno della classe operaia, dovuto soprattutto al ricambio generazionale, anche se i sintomi non mancarono: dalle manifestazioni del luglio 1960, all’incremento della conflittualità operaia (in quell’anno le ore di lavoro perdute sono 126 milioni, numero che sarà superato solo nel 19696), fino alla “strana e moderna” rivolta di Piazza Statuto a Torino nel luglio del 1962, durante la quale emerge la figura del giovane operaio meridionale, che vive ai margini della città, ai confini tra lecito e illecito, un poco di buono che turba la stessa geometrica e grigia consuetudine della lotta operaia dei militanti torinesi doc. I processi di modernizzazione che il boom economico introduce nel paese aprono a un contrasto generazionale nella società e nella fabbrica. “Sui giornali e nei film si confrontano due rappresentazioni: da un lato quella dominante nell’immaginario collettivo, di un operaio caratterizzato da forti valori morali, depositario di un’etica rigida e moralistica, che conduce uno stile di vita dignitoso, sobrio ed improntato ad una forte solidarietà familiare e di gruppo; dall’altro l’immagine dell’operaio che abbraccia bisogni e stili di vita di una società che si sta scoprendo moderna”7 e vuole “consumare”. Il consumismo è solo fattore di integrazione nel sistema? Conduce a una perdita di coscienza di classe? Come pensa la sinistra di quegli anni e come penserà anche una buona parte della cultura sessantottina, critica verso la società dei consumi? Recentemente è stato osservato che meriterebbe un’analisi approfondita “l’ipotesi che lo scoppio di conflittualità ampiamente spontanea dell’autunno caldo, soprattutto nelle componenti di rivendicazione salariale, abbia avuto tra i fattori scatenanti non solo la mancanza di servizi sociali e consumi collettivi, ma anche le frustrazioni di chi veniva al contempo allettato dalla società dei consumi e trattenuto sulla soglia”8. Le lotte operaie che nelle società industriali avanzate raggiungono l’apice negli anni tra il 1967 e il 1972, alla luce di queste considerazioni, andrebbero lette come prodotto non solo della reazione allo sfruttamento del lavoratore dentro le fabbriche, ma anche come elemento indotto da fattori esterni al mondo del lavoro industriale. Soprattutto i giovani operai degli anni cinquanta e sessanta che lottano nelle fabbriche, risentono dell’influenza e del richiamo del tempo libero, come luogo di non lavoro e di consumo, da conquistare e strappare al tempo di lavoro, come luogo di costrizione e di illibertà. Inoltre, lo scarto tra le aspettative, indotte dai consumi e fagocitate dai mass media, e la realtà contribuisce a suscitare conflitti che non investono “solo i rapporti di lavoro ma l’intero spettro dei rapporti sociali di fabbrica”, si ha così una caduta d’identificazione unilaterale con la fabbrica e il lavoro che perdono di valore a scapito di altre “mete” da raggiungere fuori dalla fabbrica e che assumono, prima di diventare coscienza rivendicativa, gli aspetti “di una rivolta esistenziale ed etica”9. È una coscienza nuova che si fonda ancora sulle condizioni di sfruttamento, ma le unisce al disagio esistenziale che si prova vivendo la divaricazione tra le aspettative per il futuro e le possibilità reali di realizzarlo attraverso il lavoro: è una coscienza che si diffonde soprattutto nelle leve operaie più giovani. Questi gruppi di giovani sono alla ricerca di un linguaggio attraverso cui esprimere le loro parole d’ordine: lo troveranno mutuandolo da ambienti diversi da quello sindacale quali il mondo studentesco e intellettuale. È in quegli anni che si evidenziano i primi segnali di una lotta politica condotta nei partiti e nei sindacati da una minoranza che si pone l’obiettivo di rompere l’uniformità ideologica e programmatica delle loro organizzazioni. Soprattutto nella sinistra socialista il dibattito ferve e conduce alla revisione di alcune delle interpretazioni più in voga del pensiero marxista di stampo PCI, a partire dalla teoria della stagnazione economica con venature vero e proprio “crollismo” del capitalismo. L’analisi s’incentra sul neocapitalismo e la nuova organizzazione del lavoro e, parallelamente, ripropone il tema del controllo operaio: centralità della lotta operaia, costruzione autonoma da parte della classe degli istituti della democrazia socialista. I nomi e i fatti sono noti: Panzieri e i “Quaderni Rossi”, Vittorio Foa, Lucio Libertini, Gianni Alasia, e per i comunisti Sergio Garavini, segretario all’epoca della Camera del lavoro di Torino e Bruno Trentin. Particolarmente vivace è la FIOM-CGIL di Torino, spesso accusata dei vertici del PCI e della CGIL di operaismo o di anarcosindacalismo. Quest’area si rafforza con la costituzione del PSIUP nel 1964, che ha come conseguenza la costituzione nella CGIL della corrente socialproletaria denominata “autonomia e unità sindacale”. Fermenti nuovi avvengono anche nell’area cattolica, legati ai cambiamenti introdotti dal papato di Giovanni XXIII, in particolare forze nuove di decantano nelle ACLI e poi nella FIM-CISL. La categoria dei metalmeccanici “rappresenta senza dubbio quella nella quale si forma la sinistra sindacale10, che non è ancora una struttura organizzata a livello nazionale, piuttosto è l’insieme di esperienze e di riflessioni critiche sorte spontaneamente e si presenta con le caratteristiche di un’area del sindacato, trasversale alle tre confederazioni e portatrice di istanze radicali in termini di autonomia, democrazia e unità del movimento sindacale.

3. Operai al centro

Gli anni che vanno dal 1968 al 1973 sono stati definiti della conflittualità permanente, delle grandi conquiste contrattuali e dei diritti civili in fabbrica, dell’organizzazione autonoma dei lavoratori. Le caratteristiche e le modalità con le quali si presenta alla lotta il movimento operaio nel 1969 stupisce tutti. I sindacati pensano di poter gestire il conflitto riconducendolo a una contrattazione sulle qualifiche, ma non funziona, si trovano ben presto scavalcati di un’ondata spontanea che non conoscono più e che non riconosce automaticamente i sindacati come legittimi rappresentanti dei lavoratori. I sindacati e i partiti di sinistra “apparivano in quel momento sulla difensiva, spiazzati dall’iniziativa spontanea dei lavoratori in difficoltà nell’elaborare strategie rivendicative adeguate alla forza che gli scioperi all’improvviso avevano manifestato”11. Di questa situazione approfittano i militanti esterni del movimento studentesco, che si fanno interpreti del radicalismo e del ribellismo diffusi fra gli operai e si mettono a loro disposizione. L’incontro con gli operai, soprattutto coi giovani, è facilitato oltre che da fattori anagrafici, “dalla condivisione del modi di vestire e del taglio dei capelli, della musica, dei film e dei fumetti, insomma di alcuni dei caratteri di una cultura giovanile di massa sempre più diffusa”12. Il fenomeno dello scavalcamento ha una particolare rilevanza a Torino, alla Fiat dove, per tante ragioni, il sindacato è più debole. C’è stato un momento, nella primavera-estate e in parte nell’autunno del 1969 in cui il movimento di lotta degli operai, a Torino e alla Fiat, sfugge al controllo sindacale. Le testimonianze in proposito smentiscono categoricamente quanto afferma Bruno Trentin, ricordando i fatti trent’anni dopo. Egli erroneamente parla di “definitiva sconfitta dell’ “estremismo populista” nell’estate del 1969, proprio a partire da Torino”13, proprio i mesi in cui invece, un militante della FIOM-CGIL, che ben conosce la situazione alla Fiat esprime la sua preoccupazione “per la grossa capacità di conquista che stava ottenendo Lotta Continua e gli altri”14. Nell’estate del 1969, ha ammesso in seguito Sergio Garavini, “la gestione degli scioperi non l’avevamo noi, l’aveva Lotta Continua”15. Non mancano altre gustose testimonianze raccolte sul campo, come quella del già citato Aldo Surdo che racconta l’episodio che si svolge in pieno autunno caldo, quando un corteo interno percorre le officine di Mirafiori: “gli estremisti percorsero le carrozzerie per portare gli operai in sala mansa, sono passati rovesciando tutti gli scalda rancio, i baracchini. Siamo partiti per andare ad affrontare costoro. Però ci troviamo io, Carpo, forse Cravero, ed una dozzina di altri attivisti della carrozzeria e sentiamo un rumore tremendo che arriva e quando arrivano erano un cinquecento-ottocento, forse mille, non siamo stati lì a contarli. I problemi erano due: affrontare costoro e tentare di fermarli o andarsene via, e dovevamo decidere in pochi secondi, se noi li affrontiamo facciamo un atto eroico, però questi ci stritolano e a casa non portiamo più niente. Carpo era a due metri da me, mi guarda ed io gli dico “nduma via”. A malincuore, però siamo andati via e abbiamo lasciato il campo a loro”; oppure quando, sempre nel corso dell’autunno caldo, Lotta Continua proclama l’occupazione di Mirafiori: “ci fu poi l’occupazione di Lotta Continua. Cancelli chiusi con gli operai dentro. Prendo un guardiano e gli dico di aprire il cancello [titubante] prova ad aprire il lucchetto. In quel mentre ci arrivano addosso, una quarantina di estremisti; e lì botte da orbi, fortunatamente Carpo, Cravero e qualche altro mi sono arrivati subito attorno, io ero rimasto lì isolato, altrimenti mi avrebbero fatto un fraccone che non finiva più e lì abbiamo fatto a botte con costoro e quello ha aperto il cancello e molti operai sono usciti”16. La stampa, disorientata, dall’esplosione improvvisa del movimento, costruisce in fretta e labilmente nuovi modelli di rappresentazione dei soggetti operai; essi sono descritti come “massa compatta”, affiancati da gruppi estremisti che danno vita a manifestazioni violente. La rappresentazione coglie però, dietro l’aspetto esteriore del comportamento pubblico durante le manifestazioni, la novità delle rivendicazioni che non si limitano a questioni di natura sindacale, perché non ci sono solo le difficili condizioni di lavoro, rivendicano anche una maggiore democrazia in fabbrica e si allargano ai temi sociali fuori dalla fabbrica, rompendo quella divisione classica fra dentro e fuori. Ben presto si va definendo una nuova immagine dell’operaio fatta di tanti attributi positivi e molto più centrale nella società rispetto agli anni precedenti. Da una parte sono rappresentati quali “elementi di una modernizzazione conflittuale della società”, dall’altra si privilegia “l’immagine rivoluzionaria dell’operaio”17, sintesi di valori alternativi e soggetto propulsore di una trasformazione palingenetica della società, immagine, quest’ultima, cara ai gruppi studenteschi ed extraparlamentari. I sindacati dei metalmeccanici, FIOM, FIM, UILM, tra i primi, fanno proprie alcune delle intuizioni più feconde delle lotte operaie e studentesche assorbendo la contestazione, anche attraverso la controversa adozione della linea egualitaria, il riconoscimento dei delegati eletti direttamente nei reparti, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, il passaggio di qualifica per tutti e si propongono come soggetto politico, rifiutando quella divisione tra momento economico e contrattuale, che spetta al sindacato, e politico che spetta ai partiti e alla dialettica parlamentare e istituzionale. Il sindacalismo, o pansidacalismo, come si disse, può approfittare di quello spazio lasciato vuoto dal sistema dei partiti e delle istituzioni statali, incapaci, in quegli anni, di offrire risposte politiche alla domanda di trasformazione che giunge dalla società. In quei mesi il sindacato avvia la politica delle riforme, proponendosi esplicitamente non più solo come interlocutore economico ma come soggetto politico. Dirà pochi anni dopo Bruno Trentin che quello è stato il tentativo “di impegnare direttamente grandi masse di lavoratori nella lotta politica per il rinnovamento delle istituzioni rappresentative, per la costruzione di nuovi centri di potere e di aggregazione democratica, capaci di promuovere e di dirigere un processo di riconversione produttiva e di suscitare, sul suo cammino, sempre nuove forme di controllo e di partecipazione dal basso”18. Pure il sindacato produce una rappresentazione del soggetto operaio, tesa a valorizzare gli elementi di forza e responsabilità e la volontà di lottare per le riforme. Il sistema sindacale italiano, così com’era andato costituendosi nel secondo dopoguerra, è messo in discussione. Intanto la spinta delle lotte impone un’unità sindacale, anche formale, che non si registrava più del 1948. Nel 1970 le tre confederazioni sindacali (CGIL, CISL, UIL) tornano a celebrare assieme la festa del primo maggio; esse sono in una posizione di forza e di prestigio molto maggiore che in passato. I delegati e i consigli di fabbrica rimodellano il sindacato e il suo modo di essere e di rappresentare i lavoratori: “risultarono figure del tutto originali, divennero ben presto la vera struttura di organizzazione delle lotte nei luoghi di lavoro e il punto di riferimento concreto dei lavoratori [...] il sindacato rischia per la prima volta di perdere il ruolo di protagonista a vantaggio dei lavoratori. [...] I consigli sono il sindacato in fabbrica e non la base del sindacato confederale in fabbrica, anzi sono costantemente denigrati e delegittimati dalle centrali sindacali che tenteranno sempre di ricondurli a propria struttura di base”19. Dopo i contratti del ‘69 si comincia a parlare di rifondazione del sindacato su basi unitarie. Si prevede lo scioglimento a breve termine delle tre confederazioni, fase conclusiva di un processo costituente unitario il cui perno è dato dalla formazione delle federazioni unitarie di categoria come accade con la FLM per i metalmeccanici e la FULC per i chimici, che iniziano a tesserare i lavoratori senza distinzioni di appartenenza. Il bienno ‘68-69 è stato decisivo per l’emergere della sinistra sindacale dentro i sindacati, in particolare tra i metalmeccanici FIOM e FIM. Nel 1968 la FIM, che tiene a Genova la sua seconda assemblea organizzativa, propone l’assemblea di base e il consiglio di fabbrica come momento essenziale di partecipazione dei lavoratori, rivendica la contestazione degli squilibri della società capitalistica, il rafforzamento dell’autonomia dai partiti, la valorizzazione del ruolo politico del sindacato. Assieme FIOM alla vuole favorire l’unità sindacale organica. Anche il convegno della FIOM, che si svolge a Bologna nel giugno 1969, riprende il tema dei delegati e dei consigli, presentendoli come gli elementi nuovi della riqualificazione della presenza in fabbrica, in contrasto col PCI notoriamente schierato a favore delle vecchie Commissioni Interne e delle Sezioni Sindacali Aziendali. La sinistra sindacale, che si presenta come un raggruppamento trasversale alle tre Confederazioni, ma presente soprattutto nelle categorie di punta del sindacalismo industriale, chiede una sensibile accelerazione verso un unico grande sindacato dei lavoratori (il sindacato dei consigli) che promuova la partecipazione operaia e raccolga le spinte più radicali della base. Tale proposta, se accetta e portata a termine, “avrebbe significato la rifondazione elettiva del sindacato unitario di classe”20. All’interno delle tre confederazioni l’entusiasmo è minore, più frenato, puntano a un processo unitario più cauto che difenda le prerogative dell’organizzazione e che limiti l’autonomia delle nuove strutture unitarie nei luoghi di lavoro, senza mettere a rischio l’esistenza di quelle burocratiche, già esistenti e costituite attorno ai tre sindacati. Quegli anni rappresentano “il punto più alto della parabola della centralità operaia”21. La spinta prodotta dalle lotte operaie ha conseguito importati obiettivi contrattuali, ha allargato gli spazi di democrazia nella società e in fabbrica, ha imposto un nuovo modo di essere dei sindacati e ha dato impulso alle correnti della sinistra sindacale, ma non ha intaccato più di tanto il quadro politico e istituzionale del paese, stenta a tramutare la sua forza in “direzione politica” nuova. I gruppi della nuova sinistra, nati in quel contesto, non rappresentano, se non in piccola parte e in zone ben delimitate del paese, quella prospettiva. Nel 1972-73 essi conoscono già una fase di crisi e di ristrutturazione che li mette al margine della lotta politica e sindacale in corso. La stessa sinistra sindacale, come è stato scritto, “insofferente dei vincoli e delle compatibilità del sistema, e tenacemente aggrappata a un progetto di trasformazione radicale della società, appare sempre più debole e priva di gambe per marciare”22. Grava su una parte di essa la mancanza di un referente politico (dopo lo scioglimento del PSIUP nel 1972), e i tentativi di costruirsene uno, gettandosi nella mischia della nuova sinistra (Giovannini, Lettieri, Scalvi, Lattes, Foa e Miniati), non danno i risultati sperati. Dopo la fine del PSIUP i componenti della nuova sinistra sindacale, che non accettano la confluenza nel PCI e nel PSI, promuovono la nascita del PdUP fondendosi coi cattolici di sinistra provenienti dalla fallimentare esperienza del MPL. Questa unificazione, sancita da un’assemblea nazionale che si tiene a Livorno il 2-3 dicembre 1972, riesce. Più tormentata e difficile invece è l’unificazione col Manifesto che formalmente ha luogo nel 1974, perché permangono diffidenze reciproche, differenze di formazione politica e di comportamento. Una condizione precaria, quindi che reggerà appena due anni, per essere nuovamente messa in discussione dopo le lezioni del giugno 1976. In generale, la sinistra sindacale si muove in quegli anni collocandosi dentro il sindacato, per trasformarlo e spostarne l’asse, per renderlo sempre più il sindacato dei lavoratori; a tale scopo fondano il CENDES (Centro di Documentazione Economico e Sociale), un istituto di confronto e di dibattito che raccoglie il sindacalismo di sinistra delle tre confederazioni. Nel 1974 l’economia capitalistica internazionale conosce la sua prima recessione generalizzata dopo la seconda guerra mondiale. È la prima recessione che colpisce simultaneamente tutte le grandi potenze economiche capitalistiche, ed è la più grave dopo la guerra mondiale perché generalizzata. La desincronizzazione dei cicli industriali nel periodo 1948-1968 aveva ridotto l’ampiezza delle recessioni. Una caduta di produzione e di domanda interna dei paesi coinvolti in un processo di crisi recessiva (per esempio negli Stati uniti nel 1960, in Giappone nel 1965 o in Germania Occidentale nel 1966-67) erano stati compensati da un’espansione delle esportazioni verso i paesi non interessati dalla crisi. Questa volta, invece, la sincronizzazione internazionale delle congiunture nei singoli paesi capitalisti, amplifica la crisi e la recessione economica. Tale sincronizzazione inficia i tentativi degli stati capitalisti nazionali di applicare una politica anticiclica limitata alle sue frontiere nazionali. La recessione del 1974-75 si presenta come una classica crisi di sovrapproduzione e giunge dopo una lunga fase di caduta dei tassi di profitto, la cui perdita di valore è anteriore ai rincari dei prezzi dei prodotti petroliferi, avvenuti dopo la guerra del Kippur del 1973 tra Egitto e Israele. Il rincaro del prezzo del petrolio ha solo accentuato la precipitazione della crisi, non l’ha provocata. Gli effetti della crisi si fanno immediatamente sentire. Rispetto al 1974, nel 1975 la produzione industriale scende del 12,1% negli Stati Uniti, dell’8,5% nella Germania Occidentale, del 16% nel Giappone del 9% in Francia, del 12% in Italia, del 5,4% in Gran Bretagna, del 4% in Canada. Nel 1974 il tasso d’inflazione è pari all’11% negli Stati Uniti, al 21,9% in Giappone, al 16,1% in Gran Bretagna, al 7% nella Germania Occidentale, al 13,7% in Francia e al 19,1% in Italia23. Il 1975 è un anno più nero per l’economia italiana anche se inizia con un’importante vittoria sindacale che chiude positivamente la vertenza dell’autunno precedente, si tratta dell’accordo sulla cassa integrazione e sul punto unico di scala mobile uguale per tutti. Una parte consistente della società civile preme e vuole trasformazioni della società italiana, lo dimostrano i successi elettorali del PCI nel 1975 e nel 1976, ma quei dati rimarcano anche come la prospettiva del cambiamento slitti dal sindacalismo, dal movimento di classe, al sistema politico, sia affidato cioè alla politica intesa come inserimento partitico nelle istituzioni. Il movimento di massa non viene meno, anzi, è in grado di mantenere “altissimo il livello di mobilitazione” e della protesta operaia, anche durante la partecipazione ai governi di solidarietà nazionale del PCI (1976-1979), ma rivela tutta la sua incapacità “di esprimere un’alternativa complessiva sul piano politico alle scelte delle organizzazioni storiche ufficiali”24. Nella seconda metà degli anni settanta la situazione si rovescia velocemente. Il PCI col compromesso storico rilancia il ruolo della politica e dei partiti come mediatori-plasmatori di conflitti sociali informi che vanno modellati dalla coscienza della politica, l’unica in grado di governare la società. La recessione economica permette a quel partito di esprimere il meglio della sua cultura, quella della crisi da cui, pena i sacrifici operai e popolari, bisogna prima uscirne per poi riprendere il timido e mediato percorso delle riforme (all’epoca Enrico Berlinguer prometteva che sarebbero stati introdotti elementi di socialismo). La recessione porta il sindacato ad assumere una linea più morbida. A partire dal 1977, nell’assemblea dei delegati confederali del gennaio, le confederazioni dichiarano non solo di essere disposte a contenere le richieste salariali, ma anche ad accettare una maggiore mobilità operaia in relazione alle esigenze di ristrutturazione dell’industria, in considerazione della situazione drammatica nella quale versa il paese. Se negli anni passati il sindacato ha dovuto “cavalcare la tigre” del movimento, per non perdere la sua funzione e il suo ruolo, finendo per far proprie alcune proposte come l’egualitarismo e non frenando la conflittualità in fabbrica, ora decide di utilizzare quel ruolo e quella funzione acquisiti per salvaguardare la propria autonomia dentro un sistema sociale e istituzionale che va comunque difeso e salvato, anche a costo di frenare la conflittualità in fabbrica e accettare la politica dei sacrifici, proposta dai comunisti e fatta propria dalle confederazioni nella conferenza dell’EUR del 1978. È l’inizio della sperimentazione di “un modello di relazioni sindacali consociative, concertative e di soffocamento del conflitto che non lascerà più”25.

4. “Operaio chi legge”

Tempo fa, un operaio fiorentino ha narrato lo stupore provato quando, recatosi ad un’assemblea all’università nel 1977, lesse sul muro dell’aula che la doveva ospitare la seguente scritta: “operaio chi legge”; quanto differenza, improvvisa e netta, con le parole di adulazione alla classe operaia scritte sui muri, sui giornali e gridate nei cortei fino a poco tempo prima26. Col movimento del ‘77, per la prima volta, una parte della sinistra considera “l’essere operaio un disvalore: è un mutamento radicale e traumatico”; a differenza del 68-69, nel 1977 gli operai e gli studenti sono spesso due soggetti “che non si parlano quasi più e che quando si parlano non si capiscono”27; in una parte di quel mondo giovanile, che anima il movimento, c’è un preciso e risentito rifiuto per la cultura operaia, per il mondo del lavoro, per i suoi riti organizzativi e le sue manifestazioni di lotta. A Torino, che è stata in quegli anni la capitale simbolica della rappresentazione della centralità operaia, un sotterraneo sommovimento interno ed esterno sta lavorando ad eroderla. Dal 1976, fino al 1978, alla Fiat sono riprese le assunzioni, quindicimila giovani operai e operaie entrano in fabbrica, è l’ultima grande chiamata prima della crisi e del ridimensionamento del numero dei lavoratori. “Alla Fiat i nuovi assunti sono molto diversi dagli immigrati degli anni sessanta: in maggioranza donne, mediamente più giovani e istruiti sono pienamente inseriti nel tessuto urbano È diverso il loro rapporto col lavoro, a partire dal motivo per cui si rifiutano di entrare in qualsiasi altra fabbrica che non sia la Fiat, infatti l’azienda torinese sembra capace di garantire una sicurezza del lavoro che non viene più valutata solo secondo i tradizionali criteri della retribuzione ma anche in base a quelli della quantità di lavoro, della difesa sindacale, dei più alti margini di discrezionalità che il lavoratore può ricavarsi”28. Più che agli operai tradizionali essi appaiono come “studenti travestiti da operai, femministe travestite da operaie, omosessuali travestiti da operai [cioè] soggetti sociali definiti che diventano anche operai”29. Questo accade mentre la propaganda comunista mette in atto l’ultima grande sovrarappresentazione della classe operaia, ormai diventata, visto che i comunisti stanno davanti alle porte del governo (ma non vi entreranno), una classe che si è fatta Stato e che quindi sa rinunciare ai suoi interessi particolari in nome di quelli generali e nazionali al fine di salvare l’economia, il paese, ecc. ecc. È evidente che si tratta di una rappresentazione drogata, propagandistica, e che nasconde, dietro l’apparenza delle parole, il bisogno di ripristinare il comando della politica e dei partiti sulla società e sui sindacati. Nella seconda metà del decennio settanta le divisioni all’interno del sindacato crescono. Le due linee, quella “collaborativa”, rispettosa delle compatibilità del sistema, disposta ai sacrifici, e quella “antagonista” sono presenti sia nella CGIL e nella CISL. La FLM, in particolare, diventa la portavoce delle critiche e dell’opposizione alle politiche dei governi di solidarietà nazionale, malgrado il PCI predichi di non “disturbare il manovratore”, di lasciar fare alla politica, coll’intenzione, evidente, coadiuvato sempre più dalle direzioni confederali, di ripristinare il primato della politica ridimensionando il ruolo del sindacato dei consigli. Scrive nel 1977 Antonio Lettieri, un esponente della sinistra sindacale: “il rapporto di autonomia sindacato-partito non è incrinato solo sul piano dei fatti, ma è messo in causa sul piano politico, culturale, ideologico. Si profila una trasformazione del sindacato: per alcuni si tratta di un suo ammodernamento, di un’europeizzazione che lo condurranno agli approdi della partecipazione, della democrazia industriale o cogestione; per noi invece di uno snaturamento strisciante che colpisce al cuore il sindacato dei consigli, dell’autonomia e della democrazia”30. Dopo l’intervista di Luciano lama del 24 gennaio al quotidiano “Repubblica”, che fin da titolo racchiude la sintesi del ragionamento -I sacrifici che chiediamo agli operai- e l’assemblea nazionale dei Consigli e dei delegati, Roma 13-14 febbraio 1978, destinata a mutare in profondità le linee generali dell’azione sindacale, lo scontro tra confederazioni e FLM “raggiunse quasi un punto di non ritorno”31. La sinistra sindacale continua la sua da battaglia sui temi dell’autonomia, della democrazia e dell’unità sindacale, ma sul piano della rappresentanza politica è in crisi profonda. I non felici risultati elettorali ottenuti da Democrazia Proletaria alle elezioni del giugno 1976 (1,5%) favoriscono la crisi delle formazioni della nuova sinistra. Si deteriorano anche i rapporti interni tra le due componenti del PdUP per il comunismo che dovrebbe unificarsi con Avanguardia Operaia per dar vita alla costituente di DP. Invece il tutto si conclude col una parte del PdUP, quello di provenienza Manifesto, che si unifica con la minoranza uscita da AO e prosegue l’esperienza del PdUP, mentre gli altri, tra i quali gli esponenti della sinistra sindacale, si uniscono alla maggioranza di AO e danno inizio alla costituente di DP. Alle elezioni politiche anticipate del 1979, la sinistra sindacale si fa promotrice di una lista unitaria della nuova sinistra, denominata NSU, senza il PdUP che corre da solo, DP invece vi aderisce. È un fallimento, la lista non raggiunge il quorum (ottiene meno di 300 mila voti, pari allo 0,8%). La crisi della sinistra sindacale è evidente, quasi tutto il vecchio gruppo dirigente del PdUP (Foa, Miniati, Protti, Migone) abbandona DP che resta ancorata al vecchio gruppo di AO. Chiusi gli spazi nei partiti il sindacato torna ad essere l’unico soggetto politico di massa nel quale svolgere il proprio compito di critica. Questa decisione matura nell’estate del 1979 e porta alla scelta di dare vita a una componente ufficiale (la terza) nella CGIL. Indebolite e del tutto impreparate, sia la sinistra sindacale, sia ciò che resta della nuova sinistra in DP, arrivano all’incontro con la scadenza della lotta alla Fiat dell’autunno 1980. La chiusura di quella vertenza, dopo la “marcia dei quarantamila” e l’accordo che prevede la messa in cassa integrazione a zero ore di 23 mila operai, mostra la sconfitta del sindacato modellato sulle lotte e l’organizzazione di fabbrica degli anni settanta e lo scollamento che si produce con la base. Uno scollamento che nel corso del decennio si era già verificato in altre occasione e che era stato recuperato dalla base con un aumento della pressione sui vertici sindacali affinché adottassero, magari in parte, le rivendicazioni e i contenuti da loro portati avanti. Il meccanismo solito questa volta non funziona; abituati a far pressione sulla dirigenza, pensano che anche stavolta il gioco riesca, invece si trovano di fronte a dei vertici decisi, come loro, a non mollare, a non concedere nulla, a chiudere come vogliono loro quella vertenza, che hanno osteggiato e guardato con diffidenza sempre maggiore. Di fronte a questo atteggiamento risoluto il “movimento dei cancelli”, che non ha costruito, né prima né in quel frangente, strumenti organizzativi e di coordinamento alternativi a quelli sindacali, non trova la forza “per ribaltare l’accordo, né tanto meno di gestire la situazione che si sarebbe creata scegliendo di proseguire la lotta. Non esisteva nessuna organizzazione che potesse assumersi un compito di questo tipo, contro il parere nazionale dei sindacati e dei partiti”32. Ormai è fatta, la sconfitta subita alla Fiat ha un valore non solo contrattuale ma politico, nel senso che ridisegna i rapporti di forza in fabbrica a vantaggio della direzione, ripristina il “comando” del padrone, dopo gli anni della “grande sarabanda”, come Giovanni Agnelli definisce, in un’intervista alla “Stampa” del 10 luglio 1999, il decennio settanta negli stabilimenti. Ma sconfitto è anche il protagonismo operaio che ha dato vita al sindacato dei consigli, che anima la FLM; si apre, così, la resa dei conti finale tra i confederali e quei settori di lavoratori e del sindacato che hanno osteggiato la politica dell’Eur, e che sono ancora ancorati a una concezione del sindacato conflittuale e antagonista. Sempre in quegli anni, il decentramento produttivo, lo sviluppo delle piccole imprese al di sotto dei 15 dipendenti, la più generale dell’ “economia del cespuglio”33, permette di rompere la rigidità del mercato del lavoro, indebolendo anche strutturalmente la classe lavoratrice industriale. Inizia il ridimensionamento della grande impresa fordista ed entra in crisi la soggettività di classe ad essa legata. Infine, nel biennio che va dal 1980 al 1982 una seconda recessione generalizzata investe l’economia capitalista internazionale. Come nel 1974-1975 la recessione colpisce soprattutto l’industria automobilistica, siderurgica, petrolchimica e il settore delle costruzioni, si manifesta per una sottoutilizzazione delle capacità produttive di quei settori, accentuata dalla comparsa di nuovi centri di produzione e di esportazione sul mercato mondiale. La recessione è provocata e si prolunga sotto l’effetto di un basso tasso del profitto medio combinato con una caduta degli investimenti produttivi. È chiaro che l’economia capitalistica è entrata, dopo gli anni 1967-1968, in una fase depressiva di lungo periodo, causata soprattutto del declino durevole del tasso medio di profitto. Si tratta di un declino irregolare, vi sono state infatti fasi di ripresa economica (1971-1972; 1976-1978) dopo le fasi di recessione (1970) e di recessione generalizzata (1974-1975 e 1980-1982). Ma in questi alti e bassi del ciclo economico il tasso di crescita resta nettamente inferiore a quello del periodo 1948-1968 in Europa Occidentale e in Giappone e nel corso del periodo 1940-1960 negli Stati Uniti. È la fine di un epoca, di un ciclo storico del capitalismo, quella iniziata nel secondo dopoguerra, l’ondata neoliberista è alle porte, la signora Tacher e Ronald Reagan attaccano lo stato sociale nei loro paesi; il neoriformismo keynesiano, lo statalismo, l’intervento pubblico nell’economia lasciano il posto al vecchio principio neoclassico: il mercato si regola da solo perché guidato da una mano invisibile, meno lo Stato interviene, meglio è.

4. Oltre il Rubicone degli anni Ottanta

La sconfitta subita dai lavoratori con la firma dell’accordo, dopo la fatidica “marcia dei quarantamila”, rappresenta, per dirla con Piero Fassino, la fine di “un’epoca della storia del sindacato”, quello conflittuale e antagonista degli anni settanta. L’anima antagonista andava sostituita, dice il segretario dei DS, con quella contrattualista, questo esigeva una revisione profonda degli obiettivi, alcuni andavano abbandonati, altri introdotti: “competitività, produttività”, “adeguamento di diritti e condizioni di lavoro all’evoluzione della struttura produttiva e dei mercati”, “part-time, mobilità interna e esterna”. Superato ancora il difficile scoglio rappresentato dallo scontro sulla scala mobile del 1984, per fortuna, nel 1993, -conclude Fassino- finalmente il travaglio sindacale, apertosi sulla fine degli anni Settanta, giungeva positivamente a termine con la concertazione e l’accordo del 23 luglio 199334. Se gli anni settanta passano alla storia come gli anni della democrazia dei consigli, gli anni ottanta segnano il ritorno del comando verticistico delle direzioni sindacali, con conseguente diminuzione della democrazia interna e il venir meno del peso del rapporti di rappresentanza, elemento sostanziale della democrazia dei consigli, “fino al baratto degli interessi dei lavoratori con quelli del sindacato”35. Il sindacato dei consigli era legittimato nell’agire da un mandato attribuito dai lavoratori. La legittimazione è ora ricercata nelle istituzioni, è come se gli fosse conferita dallo Stato, invece che dai lavoratori, dal suo essere riconosciuto dalle istituzioni statali, governative, partitiche, padronali. Questo tipo di riconoscimento istituzionale richiede la partecipazione cogestiva e concertativa ai progetti di gestione e di ristrutturazione capitalistica. Certo questo tipo di sindacato e di sindacalismo ha pur sempre bisogno di mantenere un rapporto di consenso con la base e coi militanti e gli iscritti, senza i quali sarebbe completamente delegittimato, quindi deve “mantenere aperti spazi e prospettive ipotetiche a quelle sacche di iscritti e simpatizzanti, specie nella CGIL, che ancora credono nella necessità del conflitto sociale”36. Sulla strada della realizzazione, quel progetto incontra sacche di resistenza notevoli e consapevoli, nel pubblico impiego: macchinisti delle ferrovie, insegnanti, ospedalieri, tra i metalmeccanici. Si mescolano forme di lotta che si avvalgono dell’appoggio di comitati di lotta esterni al sindacato, oppure fanno riferimento a settori antagonisti e conflittuali ancora dentro le strutture sindacali. Si tratta spesso di lotte significative, di resistenze generose, che hanno però difficoltà a generalizzarsi e che nella maggior parte dei casi non sedimentano organizzazione duratura e permanente né fuori né dentro i sindacati. Altro momento significativo di scontro, anche dentro i sindacati confederali, è dato dal referendum sul taglio dei punti della scala mobile, voluto dal governo Craxi, nel 1984, e al quale si oppone la componente comunista della CGIL e il PCI. L’esito negativo del referendum non fa che aumentare il peso e la determinazione di chi vuole portare fino in fondo la riforma della funzione dei sindacati. Intanto, in quel decennio, gli operai diventano “una classe che non c’è più”, c’è un vuoto “nell’immaginario collettivo, ancora diviso fra le poche rappresentazioni più legate al passato che al presente, e un silenzio dominante”37. Le opinioni pesano quanto i fatti e oggi è molto diffusa l’opinione che gli operai non esistano più, perché sarebbero stati spazzati via dalle nuove forme del lavoro flessibile, da quelle occupazioni temporanee e precarie che “danno luogo al costituirsi di una nuova identità sociale”, come segnalano due ricercatori sociali, i quali propongono di usare la definizione di “nuovi ceti popolari” in quanto capace di includere in essa anche numerosi operai, quelli che non lavorano presso le imprese di grandi dimensioni38. Questi nuovi strati sociali appaiono privi di un’identità collettiva e, ammesso che ne abbiano una, non è più certo quella costituita dalla centralità del lavoro. Piuttosto la loro identità è cercata nella dimensione dei consumi e nel legame sociale con altri. Un legame sociale e pure affettivo messo a repentaglio dalla precarietà del lavoro che produce precarietà di vita, impossibilità di progettare il futuro prossimo, determinando, come ha scritto Luciano Gallino, anomia: “un numero crescente di individui hanno difficoltà a proiettarsi nell’avvenire, donde lo sviluppo anche nella vita privata di impegni a breve termine, di legami provvisori [...] l’insicurezza produce anomia nel senso di assenza di norme regolative e di incomprensibilità delle regole esistenti. [...] Anomia significa tessuto sociale lacerato, caduta della partecipazione a tutti i livelli -una condizione altamente negativa per la prosecuzione dell’accumulazione di capitali e di conoscenze da cui il capitalismo dipende”39. Una delle prime conseguenze dell’anomia è la mancanza d’interesse e di partecipazione politica, conseguenza ma anche causa della perdita di peso politico dei lavoratori. Sono problemi e situazioni che interessano percentualmente non la grossa massa dei lavoratori, come ha fatto notare Aris Accornero nel suo libro San Precario lavora per noi (Milano, Rizzoli, 2006), interessano però in modo percentualmente accentuato le giovani generazioni che si affacciano al mondo del lavoro, li priva di futuro e genera “ansia di prospettiva”, non solo tra i lavoratori temporanei, che non hanno la prospettiva di diventare lavoratori a tempo indeterminato, ma anche tra quelli a tempo indeterminato che temono di poter cadere, da un momento all’altro, nella condizione di lavoratori temporanei. Si tenga presente che nascita il fenomeno dei contratti atipici, part-time a tempo indeterminato “ha avuto un incremento negli anni che vanno dal 1992 al 2001 del 45%”40. Se si unisce questo evento con il decentramento produttivo, l’esternalizzazione di alcune lavorazioni dalla grande impresa, la riduzione delle dimensioni stesse delle grandi imprese (esemplare il caso di Mirafiori che nei primi anni settanta annovera circa 60 mila dipendenti e oggi ne ha circa 20 mila), l’aumento della quota di popolazione attiva impiegata nel terziario, e se si paragona tutto questo, alla dimensione quantitativa e qualitativa della classe operaia nel decennio settanta, allora davvero si ha l’impressione di una classe che non esiste più, che è scivolta via. La definizione del nuovo modo di essere del sindacalismo confederale italiano non può essere compresa se non si fa almeno riferimento al cambiamento di scenario che su verifica all’inizio degli anni Novanta, quando collassano i partiti -che hanno garantito l’equilibrio istituzionale (governo-opposizione) che ha sorretto la prima repubblica- dentro un contesto internazionale caratterizzato dal crollo del socialismo realizzato e dalla crisi di quello che viene chiamato compromesso keynesiano o socialdemocratico nei paesi sviluppati dell’Occidente capitalistico. Dentro queste grandi storie si verifica la firma dell’accordo tra governo, confindustria e sindacati confederali del giugno 1992 che vede la definitiva cancellazione di ogni residuo di meccanismo di scala mobile e la privatizzazione del lavoro dei dipendenti pubblici. Quell’accordo è percepito dalla base come una sconfitta. L’anno dopo si assiste al grande lancio della politica della concertazione. Inizia l’epoca dei sindacati “buoni” coi governi “buoni” e “cattivi” coi governi “cattivi”, cioè l’atteggiamento dei sindacati confederali verso le politiche governative varia a secondo di chi governa, stabilendo una sorta di primato della politica, circa l’atteggiamento da mantenere, indipendentemente dai contenuti delle proposte governative. Così nel 1994, all’epoca del primo governo Berlusconi, le piazze si riempiono e i confederali mobilitano contro la riforma delle pensioni proposta dal governo. Di lì a poco il governo cade, la riforma delle pensioni la fa Dini, che dal centro-destra si è ribaltato al centro sinistra (ed è stato premiato con l’incarico di formare un nuovo governo). I contenuti della riforma sono quasi simili, ma in questo caso non si guarda molti per il sottile, la riforma va bene e ottiene l’appoggio di buona parte del centro sinistra e dei sindacati. Poi viene l’epoca del primo governo Prodi (poi D’Alema 1 e 2 e Amato), per cinque anni comunque governa un “governo amico” col quale è possibile fare tante cose utili all’economia del paese. Cofferati accetta e consolida il “pacchetto Treu”, il primo provvedimento che istituzionalizza la precarizzazione del mondo del lavoro. Dopo il “governo amico”, torna quello “cattivo”, il Berlusconi 2, che perfeziona il pacchetto Treu con la legge 30. Dura l’opposizione dei confederali, nei cinque anni di governo del centro-destra si sprecano gli scioperi generali, arma di cui il sindacato ha sempre fatto un ricorso moderato e sobrio. Gli unici che non hanno fatto sconto ai “governi amici” del centrosinistra sono gli aderenti al sindacalismo di base che ha organizzato lotte contro la deregolamentazione e la destrutturazione del mondo del lavoro, contro la precarietà, per la difesa del sistema pubblico pensionistico, sanitario e dell’istruzione, per la difesa dello Stato sociale, del diritto di sciopero, della rappresentanza e la guerra. Il fenomeno del sindacalismo di base e alternativo è tipico del finire degli anni ottanta e novanta. Negli anni ottanta compaiono sulla scena della lotta di classe e sindacale organizzazioni sindacali settoriali che danno voce alle istanze dei lavoratori attraverso un sistema di delega diretta, tra queste le RdB, che si svilupparono nel pubblico impiego e nelle lotte del precariato, i macchinisti del COMU, la FLMU tra i metalmeccanici, e gli insegnanti che scioperano e scendono in piazza dando vita alla nascita dei COBAS della scuola nel 1988. Se i problemi e le situazioni che creano questo tipo di iniziativa sono simile, le risposte sono diverse. Non tutti concordano con la necessità di costruire nuove formazioni sindacali, ritengono si debba stare dentro i sindacati istituzionali, la CGIL in particolare e costruire componenti di sinistra, è il caso della nascita di Essere sindacato nella CGIL. Altri pensano sia sufficiente nei momenti alti della lotta contrattuale costruire comitati di lotta temporanei per “spingere” verso un esito favorevole. Anche per chi giudica chiusa definitivamente l’esperienza dei sindacati confederali, al momento di procedere alla costituzione di nuovi organismi sindacali le vie si dividono fra chi si orienta verso la necessità di riunificare il terreno sindacale con quello politico, chi invece rifiuta la centralità organizzativa come male e afferma la centralità delle strutture locali, pensando che la solidarietà e la successiva unificazione tra lavoratori, sia automatica e inevitabile; altri ritengono funzionale una struttura che raccolga entrambe le posizioni, sia cioè legata a un percorso politico-partitico e conservi un livello territoriale di base radicalmente strutturato sui posti di lavoro, riservando a questi ultimi la centralità del processo di avanguardia; altri, infine, vogliono mantenere e precisare una netta distinzione di ruolo e di funzione tra il livello politico e quello sindacale, e riconoscono la necessità dell’ organizzazione strutturata e non spontanea come elemento di gestione della solidarietà: questo è il tentativo portato avanti da confluisce nella costituzione della CUB41. In generale va detto che le esperienze di sindacalismo alternativo sorgono in uno dei momenti meno propizi per l’organizzazione sindacale e per la lotta di classe, perché è la classe stessa che si vuole organizzare ad essere in difficoltà. La principale difficoltà dei lavoratori è legata “al problema di come passare da una cultura del conflitto, dell’organizzazione, della mediazione istituzionale, di tipo “industrialista” a una nuova cultura, adeguata alle trasformazioni che il capitalismo ha operato in tutto il mondo del lavoro”42. Nel riaffermare la necessità della costruzione di un sindacalismo di base alternativo bisogna tener conto delle “mutate condizioni derivanti dalla trasformazione dei rapporti produttivi ed economici, con l’emergere di nuovi soggetti, di nuove forme contrattuali ma anche di nuovi corporativismi. E ancora, spesso a dirigere queste esperienze e costruzioni organizzative vi è quella generazione di militanti cresciuta nel clima delle lotte degli anni settanta, in quella cultura di fabbrica che faceva riferimento a una specifica identità di classe. Oggi questo dato può essere un limite, perché porta a leggere “le scelte e i comportamenti degli operai con gli occhi degli anni settanta”43, pensando a una realtà politica e sociale e a una classe che non ci sono più, che non hanno più agganci col presente.

note

* Storico e saggista.

1 Alberto Papuzzi, Lavoratori di tutto il mondo arriva il museo, “La Stampa”, 21 luglio 2006.

2 Andrea Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 2006, p. 12 e p. 19.

3 Andrea Sangiovanni, cit., p. 22.

4 Donato Antoniello, Luciano Vasapollo, Eppure il vento soffia ancora. Capitale e movimento dei lavoratori in Italia dal dopoguerra ad oggi, Milano, Jaca Book, 2006, p. 80.

5 Fabrizio Loreto, L’“anima bella del sindacato”. Storia della sinistra sindacale (1960-1980), Roma, Ediesse, 2005, p. 27.

6 Andrea Sangiovanni, cit., p. 50.

7 Ivi, p. 80.

8 Stefano Musso, Lo sviluppo e le sue immagini. Un’analisi quantitativa. Torino 1945-1970, in La città e lo sviluppo. Crescita e disordine a Torino 1945-1970, a cura di Fabio Levi e Bruno Maida, Milano, Franco Angeli, 2002, p. 62. Andrebbero infranti i pregiudizi contro giudizi “francamente moralistici sull’incremento dei consumi come un processo di omologazione all’edonismo”, scrive Amalia Signorelli in Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, Le trasformazioni dell’Italia: sviluppo e squilibri, tomo I, Politica, economia, società, Torino, Einaudi, 1995, pp. 654. Vedi anche Il secolo dei consumi, a cura di Stefano Cavazza ed Emanuela Scarpelli, Roma, Carocci, 2006.

9 Andrea Sangiovanni, cit., p. 62 e p. 63.

10 Fabrizio Loreto, cit., p. 57.

11 Donato Antoniello, Luciano Vasapollo, cit., p. 129.

12 Andrea Sangiovanni, cit., p. 156.

13 Bruno Trentin, Autunno caldo. Il secondo biennio rosso 1968-1969, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 97.

14 Testimonianza di Aldo Surdo raccolta ad Avigliana, febbraio-marzo 1999, sbobinata dall’Associazione Emilio Pugno di Torino, p. 187.

15 Affermazione di Sergio Garavini nell’intervento al dibattito organizzato dall’Unione Culturale di Torino del 25 febbraio 2000 registrata su nastro. Citato da Marco Scavino, Il motore e la cinghia di trasmissione. Partito e sindacato negli anni Sessanta e Settanta, in Alla ricerca della simmetria, a cura di Bruno Maida, Torino,Rosenberg & Sellier, 2004, p. 359. Si ricorda che Lotta continua nell’estate del 1969 non era ancora il gruppo politico, che si costituì solo nell’autunno di quell’anno, ma la sigla con la quale l’assemblea operai e studeneti firmava i volantini.

16 Testimonianza di Aldo Surdo, cit. p. 190 e 191.

17 Ivi,, p. 154.

18 Bruno Trentin, Da sfruttati a produttori. Lotte operaie e sviluppo capitalistico dal miracolo economico alla crisi, Bari, De Donato, 1977, p. LXXX.

19 Donato Antoniello, Luciano Vasapollo, cit., pp. 132-133.

20 Fabrizio Loreto, cit., p. 102.

21 Andrea Sangiovanni, cit., p. 238.

22 Marco Scavino, “Se otto ore vi sembran poche...”-lotte operaie e contadine in Piemonte dall’Unità a oggi, Editrice il Punto, Torino, 2001, p. 155.

23 Tutti i dati sono tratti da Ernest Mandel, La recession et les perspectives de l’économie capitaliste mondiale, “Inprecor”, n. 27-28, 5 giugno 1975.

24 Donato Antoniello, Luciano Vasapollo, cit. pp. 159.160.

25 Ivi, p. 148.

26 Da un ricordo dell’autore. L’operaio fiorentino, ormai pensionato, era intervenuto ad uno dei tanti dibattiti sul ‘68 studentesco e il ‘69 operaio nel corso del trentennale della ricorrenza.

27 Andrea Sangiovanni, cit. pp. 258- 259.

28 Ivi, p. 275.

29 A. Magnaghi, prefazione a S. Belforte, M. Ciatti, Il fondo del barile, Milano, La Salamandra, 1980, pp. 8-9.

30 Antonio Lettieri, Problemi del sindacato nell’attuale fase politica, “Lettere di fabbrica e Stato”, n. 7-8, 1 giugno 1977, pp. 106-107.

31 Fabrizio Loreto, cit., p. 214.

32 Donato Antoniello, Luciano Vasapollo, cit., p. 187.

33 Ivi, p. 173.

34 Cfr., Piero Fassino, Per passione, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 129-134.

35 Donato Antoniello, Luciano Vasapollo, cit. p. 185.

36 Ivi, p. 207.

37 Andrea Sangiovanni, cit., p. 296.

38 Cfr., Mauro Magatti e Mario de Benedettis, I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia?, Milano, Feltrinelli, 2006.

39 Luciano Gallino, L’impresa irresponsabile, Torino, Einaudi, 2005, p. 254.

40 Donato Antoniello, Luciano Vasapollo, cit., p. 264.

41 Ivi, p. 232. Sulle vicende del sindacalismo di base vedi la sintetica ma utilissima scheda di Cosimo Scarinzi, Il sindacalismo alternativo. Una mappa e un po’ di storia, “Collegamenti Wobbly”, n. 8, luglio-dicembre 2005.

42 Ivi, p. 223.

43 Giuseppe Berta, Che fine ha fatto la classe operaia?, “La Stampa”, 8 luglio 2006.