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Andrea Micocci
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Professore all’Università di Malta-Link Campus

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Precarizzazione come soggezione

Andrea Micocci

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1. Introduzione

La presente congiuntura economica e politica pone inquietanti interrogativi sul ruolo ed addirittura sulla sopravvivenza stessa dei sindacati, almeno nella loro forma sino ad ora conosciuta. L’azione sindacale ed i sindacati federali stessi hanno apparentemente accettato una funzione subordinata non solo alla presunta necessità di politiche di rigore salariale ed oltre, ma anche alle stesse associazioni padronali, che vengono trattate come irritabili benefattori che non vanno in alcun modo provocati. L’idea di lotta di classe, a lungo vuota in pratica ma almeno presente in teoria, è divenuta un passato di cui vergognarsi. Eppure il problema della presenza della lotta di classe nel capitalismo, indipendentemente dal nostro desiderio di togliercela di torno, è ancora lì. La questione del suo ruolo nell’evoluzione storica del capitalismo rimane necessaria ma irrisolta. “L’Uomo Precario” di J. Arriola e L. Vasapollo (2005) e “Eppure il Vento Soffia Ancora” di D. Antoniello e L. Vasapollo (2006) pongono questi problemi senza mezzi termini. In questi volumi Vasapollo, avendo analizzato con cura con Arriola lo stato presente delle cose per i lavoratori passa a studiare, con Antoniello, il ruolo avuto dai sindacati. Quest’ultima ricerca termina con una trattazione del ruolo futuro delle RdB-CUB ed in generale del sindacato autonomo di base alla luce della presenza di categorie dello sfruttamento capitalista del tutto nuove, efficacemente riassumibili con la cosiddetta “precarizzazione”. In quanto segue effettuerò, alla luce di quanto analizzato nei volumi detti sopra, alcune considerazioni sulla connessione tra le nuove forme di precarietà lavorativa, che sembrano stare diventando la norma delle relazioni tra padroni e dipendenti, e la concomitante tendenza, cui stiamo assistendo con crescente orrore, all’autoritarismo entro le istituzioni democratiche. L’idea portante di questo scritto è la ricerca delle relazioni funzionali tra autoritarismo e repressione e precarizzazione dei rapporti lavorativi. Tale relazione è in verità piuttosto ovvia: un lavoratore precarizzato e de-sindacalizzato è meno capace di difendersi dallo sfruttamento diretto e dalle conseguenze indirette della povertà. Di conseguenza tale lavoratore è anche più vicino a non avere altro da perdere se non le proprie catene, e quindi più pronto a proteste disperate. La diffusione della precarietà, di conseguenza, non può che andare a braccetto con l’autoritarismo e la repressione. Ma la causa della deriva autoritaria delle democrazie occidentali non è univocamente determinata dai cambiamenti nelle pratiche dello sfruttamento capitalista. Al contrario la crescente regolazione autoritaria è mirata sopratutto a fare da contraltare alla finanziarizzazione dell’uso del capitale, che per sua natura tende a sfuggire a leggi semplici (di tipo liberale) ed a richiedere perciò regolazione capillare. Cominciamo dunque dal principio. 2. La Lotta di Classe

Bisogna in primo luogo intenderci bene su cosa sia la lotta di classe. Una delle poche cose chiare ed incontrovertibili in Marx, che attraversa tutta la sua carriera di scrittore di cose economiche e filosofiche, è che la lotta di classe è uno dei fenomeni più caratteristici del capitalismo. Vista l’esistenza di classi che sfruttano e di classi sfruttate, non vi può che essere contrasto, seppure in gradi e forme diversi. Si può tranquillamente affermare che per Marx la lotta di classe è costitutiva del modo di produzione capitalista: senza di essa non si ha capitalismo. Quanto appena detto ci porta però a problemi di grandissima rilevanza. Se il capitalismo è costituito dalla lotta di classe, ne consegue che la fase successiva, socialista, comunista o come la si voglia chiamare, deve esserne priva. Se il capitalismo deve portare (cosa, sia ben chiaro, ipotizzabile ma non garantita) al socialismo/comunismo come abbandono di qualsiasi forma di relazione economica che possa produrre cause di lotta di classe, allora la domanda che dobbiamo farci è: come vi si arriva? In particolare, come fanno i lavoratori a rovesciare la loro sorte? Se la lotta di classe è costitutiva del tipo di relazioni umane che chiamiamo capitalismo, come può servire a superare il capitalismo stesso? Vi sono due ordini di problemi che vanno affrontati per rispondere a questa domanda. Il primo è filosofico (come fa la lotta di classe a cambiare il mondo se è essa stessa un processo dialettico, quindi ontologicamente analoga al capitalismo?), e non lo affronteremo qui. Il secondo è pratico: se la lotta di classe è uno dei caratteri costitutivi del capitalismo, prenderà varie forme: dalla violenza distruttiva pura alla resistenza istituzionalizzata allo sfruttamento, tipicamente incarnata dal sindacalismo. Ma facciamo parlare, a questo proposito, Mario Spinella, in uno scritto indirizzato ai cattolici (Gesuiti) dell’Aloisianum. I cattolici infatti torneranno più tardi nel nostro ragionamento. Per Spinella la dialettica tra rivendicazioni salariali e riduzione del tempo di lavoro da parte proletaria ed i tentativi di aumento di produttività da parte dei capitalisti “si dimostra positiva per molti versi” (1996, p.66). “Ma le lotte degli operai [...] non possono di per sé modificare il rapporto di classe fondamentale, non possono neanche indebolire il capitale, non possono infine permettere il passaggio ad un altro tipo di società. Al limite, osserva Marx, queste lotte possono essere perfino mistificatrici [...] in quanto tendono a mantenere lo stato di cose esistente e possono perfino occultare la coscienza di classe, cioè la consapevolezza che solo abbattendo il capitalismo il meccanismo dello sfruttamento può venire interrotto. Queste lotte sindacali rivendicative sono una forma elementare e primitiva della lotta di classe; ed attraverso di esse la classe operaia impara la rivoluzione, collegandosi l’un l’altro, battendosi [...]. Le lotte sindacali rappresentano quindi uno stadio forse indispensabile, comunque utile, di passaggio a lotte più avanzate, che investano il sistema nel suo complesso e che mirino alla distruzione del sistema stesso. Possono però rappresentare anche [...] il punto di arrivo della lotta operaia [...]” (1996, p.67). Qui Spinella introduce l’importanza (per i marxisti ortodossi) dei partiti rivoluzionari leninisti, che ricordano agli operai il ruolo della lotta sindacale. “In questo modo la contraddizione [...] oggettiva tra capitale e lavoro [...] può divenire, dice Marx, non più soltanto oggettiva, ma soggettiva, vale a dire una contraddizione cosciente” (1996, pp.67/68). In altre parole il sindacalismo è parte integrante di quel rapporto, necessariamente conflittuale, tra capitale e lavoro: è costituente del capitalismo, con tutto quel che ne consegue in termini della necessità di superare il capitalismo stesso. Esso può servire ad aiutare i lavoratori e addirittura ad avanzare verso la rivoluzione, ma è soggetto alle leggi di sviluppo del capitalismo. Dunque attraversa necessariamente fasi di espansione e contrazione: la forza relativa del capitale rispetto al lavoro la cui fase espansiva stiamo osservando oggi, per esempio. Dobbiamo perciò essere attenti nel giudicare le “conquiste dei lavoratori”: esse sono soggette a periodiche fasi di eliminazione parziale. Il risultato più importante di tutto questo è però il consolidamento di una routine di rapporti tra le “parti sociali”: capitale e lavoro nelle loro varie forme, ma anche il governo, più gli attori congiunturali di vario tipo. La concertazione corporativista si sovrappone alla lotta di classe, dominandola. Questo è più di un problema di ritardo della rivoluzione. In un paese come il nostro, nato corporativista, passato attraverso una fase fascista e tornato poi alla democrazia con una gestione sempre corporativista di tipo cristiano-sociale, e con movimenti di sinistra che hanno in parte copiato il modello cattolico, il pericolo del corporativismo stesso tende ad identificarsi con il pericolo della visione fascista di questo tipo di gestione dei rapporti fra classi. Tale possibilità è tanto più realistica in quanto il capitalismo italiano è ben lontano dai modelli anglosassoni, come Arriola e Vasapollo (2005) ci ricordano (ma su questo tutti i commentatori, di destra e di sinistra, sono d’accordo).

3. I sindacati

Nel 1891 la “Rerum Novarum” di Leone XIII riconosce il movimento operaio ed invita a formare analoghi movimenti di tipo cattolico, in una chiave anti-socialista. Ciò era pienamente compatibile con il “Programma per l’Azione Cattolica in Italia” di Pio IX del 1875, adottato dall’Opera dei Congressi. Le associazioni operaie e contadine sono, per la chiesa cattolica, necessarie a dare sollievo alle pene delle classi sfortunate. Tuttavia non si tratta di un movimento rivoluzionario: le differenze sociali sono costitutive della realtà. Si può solo intervenire in termini di giustizia sociale, garantendo un necessario minimo vitale. Ciò è possibile entro un quadro di associazioni di tipo corporativo, nelle quali si trovino ad operare gli operai ed i padroni. Stiamo parlando di una “organicità” (corporatista) della società. Tale organicità era lungi dall’essere una novità in ambito europeo: era anzi predicata da una vasta area che andava da Durkheim a Comte a Sorel, spaziando dal socialismo radicale al fascismo. Il finire del secolo XIX vide il Congresso di Milano (1897) con la creazione di gruppi democratici cristiani in Italia e di gruppi cristiano sociali nel Nord Europa, Belgio e Francia. In democrazia, ci ricorda Toniolo nel 1897, le varie forze cooperano al bene comune a prevalente vantaggio delle classi inferiori. Murri addirittura afferma che “i democratici cristiani hanno come compagni i socialisti”. Cominciano a formarsi i primi “fasci democratici cristiani”. Ma è il 1904 che ci porta, con lo sciopero generale nazionale, al terrore borghese ed alla nascita di gruppi cattolici appoggiati dal Papa con “Il Fermo Proposito”. Nascono le Unioni Economiche e Sociali, nascono (specie in Veneto ed in Sicilia) le Leghe Bianche. Sindacati, corporazioni, cooperative: è dell’idea di “mutualità” che stiamo parlando, in un quadro di organicità corporatista. È nata l’Italia moderna della concertazione. Il Patto Gentiloni (1912) vede il liberale Giolitti, uomo capace ma corrotto e compromesso (che novità, nella storia d’Italia) far partire un’alleanza con i “cattolici deputati” che segnerà un precedente imprescindibile. Il “Biennio Rosso” avvicinerà l’Italia al fascismo ed alla esplicita, seppur incompleta, attuazione di un programma organicista e corporativista. Mussolini mirava a trasformare il Parlamento in “Camera delle Corporazioni”, vale a dire quell’istituzione ove ciò che oggidì viene nobilitato con l’americanismo “lobbying” è istituzionalizzato. La guerra mondiale ci restituisce un’Italia democratica con una storia sindacale di “concertazione”, ben descritta da Antoniello e Vasapollo (2006): i sindacati si riuniscono in incontri “tripartito” ove le questioni sono affrontate insieme alle associazioni imprenditoriali ed al governo. Il corporativismo è divenuto realtà. Anche l’alleanza liberali-cattolici è tornata. Con grande intelligenza e coraggio Antoniello e Vasapollo notano come i comunisti del PCI: “erano allora sostenitori senza riserve del liberismo economico. Ricordo le loro conferenze dell’Agosto 1945, la fermezza con cui Togliatti respinse ogni ipotesi di pianificazione [...] Con la stessa determinazione liberista Togliatti avrebbe sostenuto nel governo la rinuncia al cambio della moneta, all’imposta straordinaria e all’abolizione dei controlli valutari” (da V. Foa, citato in Antoniello, Vasapollo, 2006, p. 64). Insomma l’Italia del dopoguerra si ritrova democristiana e corporativista, con il solo PCI a difendere gli atteggiamenti liberali, costretto dalle circostanze a subire il corporativismo stesso. Antoniello e Vasapollo chiariscono molto bene nella prima parte del loro libro il ruolo delle anomalie del capitalismo italiano. Forse la maniera migliore di riassumere questa serie di stranezze rispetto all’idea di capitalismo e rispetto a ciò che stava avvenendo nel resto del mondo è ripetere ciò che dicono da anni in varie forme Guido Rossi e Luciano Gallino: l’Italia non ha mai avuto una vera classe imprenditoriale. Ma l’Italia non ha mai avuto neanche una vera classe comunista: il PCI non era che un’accozzaglia di liberali senza coraggio (da Togliatti a Berlinguer, Occhetto e D’Alema) e di stalinisti impenitenti (Cossutta), capaci solo di imporre il centralismo democratico al partito. Forse, paradossalmente, dovremmo ringraziare questi ultimi e la loro intolleranza se il nostro paese ha avuto una vivace sinistra estrema, per fortuna ostracizzata dal PCI. È facile vedere, in questo quadro generale, come i sindacati confederali si siano adeguati felicemente all’imperante ed in verità quasi mai esplicitato corporativismo dello stato e della società civile italiani. Forse se tale modo di essere fosse stato ammesso più spesso non avremmo avuto la sconfitta dei sindacati e delle lotte operaie che Antoniello e Vasapollo descrivono, che dura dal 1978. Forse qualcuno avrebbe gridato allo scandalo: ma invece di dire corporativismo si è parlato di “consociativismo”, di “concertazione”, cioè di cose che non rimandano a matrici organiciste fasciste e/o cattoliche. Abbiamo persino un potente movimento cooperativo che crede che la “mutualità” sia un concetto di sinistra. Il soggetto che operava attraverso i sindacati era quella classe operaia che avrebbe dovuto fare la lotta di classe, e che forse pensava di stare facendola. Gli sforzi di milioni di persone di sinistra invece sono solo serviti a cementare un sistema corporativista prima, per cedere poi inevitabilmente alle tesi del neoliberismo. Le due cose non sono differenti né incompatibili: infatti senza una struttura corporativista ben funzionante il neoliberismo e la de-regulation non potrebbero essere applicati né reggere a lungo. Ma questa discussione ci porterebbe fuori tema. Vediamo invece cosa è accaduto con l’avvento del neoliberismo ai lavoratori e quindi ai sindacati. Arriola e Vasapollo (2005) descrivono bene il presente fenomeno della precarizzazione del lavoro, con i falsi “lavoratori autonomi” e quella che non è altro che una normale disoccupazione strutturale. Ne vedremo meglio i caratteri nella sezione seguente; per il momento, basti ricordare con Antoniello e Vasapollo (2006) che i sindacati confederali hanno ceduto su tutta la linea alle pressioni del padronato e del governo. Si sono dunque ritrovati con una schiera di lavoratori precarizzati, falsamente autonomi e/o pienamente disoccupati che non sono passibili di gestione e conduzione politica secondo i vecchi sistemi. Un nuovo soggetto sociale è nato, e non può essere diretto dai sindacati tradizionali.

4. Precarietà

Gli ultimi venticinque anni ci hanno dunque regalato notevoli cambiamenti nella struttura di produzione capitalista. Il fordismo ed il taylorismo hanno visto spezzarsi la centralità della fabbrica e della concentrazione della produzione. Il cosiddetto “outsorcing” ha spezzato la catena di produzione tecnicamente ma, più fondamentalmente, geograficamente. Gli operai sono stati divisi. Inoltre sono state introdotte nuove forme di contratto: la precarietà ha preso il sopravvento sul lavoro fisso, ed è facile capire la ricattabilità del lavoratore precario e separato spazialmente dai suoi compagni. Il libro di Arriola e Vasapollo (2005) fornisce una descrizione delle conseguenze sociali di tutto ciò, oltre naturalmente a discutere con dovizia di particolari le nuove forme di rapporti di lavoro, in Italia, Spagna e vari altri paesi. I governi hanno aiutato i capitalisti a proporre ed attuare tali cambiamenti, ed i sindacati quando non hanno partecipato attivamente al processo semplicemente hanno evitato di ostacolarlo. Su questo ultimo aspetto Antoniello e Vasapollo (2006) sono implacabili nel cogliere in fallo i sindacati confederali. Non posso che rimandare a queste due pubblicazioni per i particolari. Qui vorrei invece sottolineare alcuni aspetti complementari che ci aiuteranno a seguire la storia narrata nei due volumi detti. Sia Arriola-Vasapollo (2005) sia Antoniello-Vasapollo (2006) parlano apertamente di declino industriale: l’attività principale dei paesi sviluppati sta spostandosi dalla industria al settore terziario. In quest’ultimo la possibilità di imporre contratti atipici (precarizzazione) è superiore a quella del settore secondario (si pensi alla possibilità di telelavoro, per esempio). Non vi è poi bisogno della triste finzione, cui i sindacati confederali hanno dato corda, del peso del costo del lavoro sull’efficienza e produttività industriale. Il terziario è il regno dello sfruttamento sia dei lavoratori sia dei consumatori: quanti dei cosiddetti servizi che sono offerti e che ci sentiamo obbligati a comprare sono necessari, o almeno tanto piacevoli da giustificare un acquisto? I beni immateriali evidenziano da un lato l’aspetto più volgare del consumismo, mentre dall’altro sono figli di una serie di fenomeni che hanno subito un simultaneo incremento. I regolamenti e le leggi hanno penetrato nuovi campi, dalla regolazione dei conflitti internazionali (e la punizione dei colpevoli) a quella del quotidiano: si pensi all’inutilità delle etichette che riportano le cosiddette filiere agro-alimentari, che ti dicono che la tua bistecca è nata in Francia ed è stata ingrassata ed abbattuta in Italia. Ma perché mai la tua conoscenza dell’odissea personale di un vitello ti dovrebbe salvare dal morbo della vacca pazza? Eppure è di queste sciocchezze inutili che la maggior parte dei servizi si occupano: è da queste regole che invadono tutto che traggono il loro scopo commerciale. Naturalmente non si può pensare ad una interazione diretta servizi - leggi e regolamenti: nessun potere lobbistico può essere così capillare. Semplicemente, il settore dei servizi ha tratto giovamento dalla concomitante espansione della frenesia istituzionalizzante e regolativa (cioè corporativista) dei tempi recenti, e che non risparmia né la destra né la sinistra. Tale frenesia proviene da una tendenza tipica dei paesi democratici occidentali: quella della crescita dell’autoritarismo e del controllo di ogni aspetto della vita sociale e persino privata. Giacché (2005) ne fa un resoconto tanto ricco quanto accorato. Ma quali sono le cause di questa spaventosa evoluzione, che sta rendendo il 1984 di Orwell vicino alla realtà come non mai, e che sembra stare attuando il mondo da incubo descritto nei romanzi di P.K.Dick? La prima e più importante causa è nel fatto che quei cambiamenti (il cosiddetto post-fordismo) che hanno portato alla precarizzazione hanno anche portato alla “finanziarizzazione” delle economie (per usare un altro termine caro a Vasapollo, si veda Casadio, Petras, Vasapollo, Veltmeyer, 2003). Non vi è limite altro che formale (cioè legale) alla mobilità del capitale, specie in tempi di avanzate tecnologie della comunicazione. Non solo, come detto, al virtuale del capitale si può solo opporre il virtuale delle leggi (vedi Micocci, in preparazione). La infinita profittabilità del capitale e gli infiniti modi di ottenerla eccitano anche appetiti insaziabili che non guardano in faccia a niente e nessuno: si pensi alle crisi valutarie dei paesi dell’oriente asiatico nel 1993-1994, o al caso Enron. Leggi, regolamenti e controlli capillari sembrano essere il solo modo di frenare l’insaziabile ferocia degli speculatori finanziari prodotti dalla de-regulation neoliberista. Un secondo motivo, anch’esso prodotto direttamente dalla de-regulation neoliberista, è l’esplosione dell’imperialismo bellicista e del terrorismo (non dico terrorismo anti-imperialista, perché tale connessione è speciosa: il terrorismo è terrorismo e basta, pura cattiveria). Come la speculazione finanziaria, imperialismo e terrorismo ricevono dalle democrazie europee (e non solo) una risposta paradossale: leggi, regolamenti ed un capillare controllo sociale. La società “capitalista” va divenendo sempre più organica in senso fascista (Micocci, 2002). Le leggi e regolazioni autoritarie che vengono imposte infatti vengono proposte a difesa della “comunità” ed addirittura della cultura e dei “valori”. Il terzo motivo, anch’esso direttamente connesso al neoliberismo ed alla de-regulation, è il controllo sociale della massa di reietti che si va producendo. Lavoratori precari, nuova povertà, immigrazione clandestina e no, forme di sfruttamento vecchie e nuove stanno producendo un’area di esplosivo scontento. Una massa di disperati che cresce velocemente si va formando in tutto il mondo, in questo accomunando i paesi sviluppati a quelli sottosviluppati. L’impossibilità di fare fronte alla potenziale spinta sovversiva di tali masse ha allertato i governi. In paesi democratici la violenza però non può essere esercitata a piacere: una serie di leggi e regole deve essere messa in atto a modo di giustificazione. Più capillare ed invadente l’apparato legislativo, più vasto il parco di scuse per la violenza ed il sopruso di stato. Più vasta anche la possibilità di rimanervi invischiati per i poveri, e di sfuggirli per i potenti. Antoniello e Vasapollo (2006) si rendono conto perfettamente, e spiegano con lucidità, come i sindacati confederali non siano in grado di prendersi cura di questa massa di disperati. Essi non sanno come porsi nei loro confronti (avendo oltretutto contribuito alla loro nascita). Antoniello e Vasapollo osservano, con la cura che nasce da chi è dentro tali movimenti, la nascita ed evoluzione di Sindacati di Base, ed offrono una ricca sintesi delle proposte da questi fatte a precari, disoccupati, immigranti ed affini. A tale testo rimando dunque per un approfondimento, e la nota di speranza ad esso connessa. Concluderò invece sottolineando una importantissima conseguenza dei cambiamenti del sindacato e della struttura produttiva capitalista.

5. Conclusioni

Quello che abbiamo visto nel presente scritto, e che è riccamente visibile nei dettagli nei testi di Arriola e Vasapollo ed Antoniello e Vasapollo pone un problema di civiltà. Non si tratta solo di un cambiamento della struttura sociale ed economica del capitalismo verso un più stretto organicismo corporativista. Non si tratta nemmeno del problema del ruolo della lotta di classe come metodo marxista e se non di ottenimento almeno di avvicinamento al comunismo. Quello che si sta discutendo non è nemmeno un problema di sindacato e di come fare sindacato. La sopravvivenza, e sopratutto l’efficacia economica e politica del sindacato, sono un modo non già e non solo di dare voce a chi è debole o addirittura impotente rispetto al potere. Se il sindacato riuscirà a rappresentare i precari, i disoccupati, gli immigrati, ed a farlo con efficacia dando loro un ruolo politico e sociale ed una forza relativa nei confronti del capitale e dei governi autoritari, avrà non solo assolto ai propri compiti istituzionali ed alla necessità della lotta di classe. Avrà difeso la democrazia e le libertà civili individuali. Avrà fatto un passo avanti enorme verso la liberazione dell’uomo dall’autoritarismo. La questione della precarizzazione e dei cambiamenti dei modi di sfruttamento capitalista e del ruolo del sindacato non sono perciò solo problemi relativi alla lotta di classe, cioè al normale inevitabile funzionamento quotidiano del capitalismo. Si tratta di una questione ideale, e pratica, più grande: si tratta di libertà. Entrambi i volumi menzionati mostrano di rendersi conto della grandezza della posta. Sono dunque benvenuti.

Bibliografia Antoniello, D., Vasapollo, L. (2006), Eppure il Vento Soffia Ancora, Jaca Book, Milano. Arriola, J., Vasapollo (2005), L’Uomo Precario, Jaca Book, Milano. Candeloro, G. (1974), Il Movimento Cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma. Casadio, M., Petras, J., Vasapollo, L., Veltmeyer, H. (2003), Competizione Globale, Jaca Book, Milano. Giacché, V. (2005), “La Democrazia in Ostaggio”, Quaderni di Contropiano, Roma. Micocci, A. (2002), “Le Basi Economiche del Fascismo Una Vecchia Questione Tornata di Moda”, Il Ponte, no.2. Micocci, A. (in preparazione), Individuality. Spinella, M. (1996), Lineamenti di Antropologia Marxiana, Editori Riuniti, Roma.

* Professore all’Università di Malta-Link Campus.