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Raphael D’abdon
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Il nuovo volto del capitalismo europeo.

Raphael D’abdon

Riflessioni su "La dolce maschera dell’Europa"di J. Arriola e L.Vasapollo (Jaca Book, 2004)

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1. La scommessa dell’Europa nell’era della globalizzazione

Nella recente storia d’Europa, alcuni eventi sono stati percepiti come i segnali inequivocabili di un cambiamento epocale della struttura architettonica del continente. La graduale integrazione dei mercati europei, l’omogeneizzazione legislativa tra gli stati membri dell’Unione Europea (UE) e l’avvento di una divisa comune in alcuni degli stati membri, sono stati salutati da gran parte dei cittadini europei come i prodromi di una nuova, promettente fase nella tribolata storia del ‘Vecchio continente’. Per certi versi ciò risponde a verità, dal momento che l’istituzione sovranazionale dell’UE si presenta come un modello di cooperazione interstatale storicamente innovativo. Ciononostante, se si prova ad andare oltre la superficie, e a rimuovere la patina dorata di ‘EU-foria’ dietro cui si cela la retorica istituzionale che ha accompagnato e continua ad accompagnare le varie fasi del processo di unificazione europea, ci si accorge che ciò che l’Europa sta attraversando non è affatto un processo di ri-definizione radicale delle sue fondamenta politiche e delle sue radici istituzionali. La creazione di un mercato comune e di strutture politiche condivise e l’adozione di una moneta unica, non sono altro che il prodotto consequenziale di un processo ciclico di ristrutturazione capitalista, attraverso il quale uno dei poli economici egemoni a livello planetario sta cercando di ridisegnare il proprio ruolo sullo scenario mondiale, edificando nel contempo nuove forme di dominio nei confronti di quelle che, gramscianamente, si possono definire classi subalterne. Se diamo un rapido sguardo allo stato di salute del capitalismo europeo e mondiale, ci rendiamo immediatamente conto che la globalizzazione non è altro che una risposta - piuttosto dura - ad uno dei diffusi e ricorrenti periodi di crisi dai quali lo stesso sistema capitalista dipende. Storicamente parlando, il sistema capitalista basa la sua stessa possibilità di sopravvivenza sulla propria capacità di rinnovare i metodi di “sorveglianza”1 grazie ai quali riesce a controllare le masse di individui che esso deve poter sfruttare per poter continuare ad accumulare capitale. Gli stessi processi periodici di auto-combustione del sistema di produzione capitalista stimolano le trasformazioni necessarie per rinnovare le modalità di sfruttamento degli elementi naturali che esso deve assoggettare, al fine di mantenere la propria supremazia, ovvero l’ambiente e il corpo e la mente degli individui. L’instabilità endemica del sistema di produzione capitalista e la sua perpetua necessità di auto-ridefinirsi (che implica la continua riformulazione dei sistemi di dominio sociale) non possono, ovviamente, favorire lo sviluppo di un quadro sociale pacifico: infatti essi necessitano della presenza di apparati polizieschi e militari oppressivi e di organi di informazione di massa accondiscendenti2 che operino come agenti stabilizzatori a livello nazionale e internazionale. In altre parole, la storia insegna che ogni contesto in cui predomina l’economia di mercato ha bisogno, per sopravvivere a sé stesso, di periodi ciclici di trasformazione, durante i quali le conquiste ottenute nelle precedenti fasi storiche dalle classi subalterne in termini di diritti economici, sociali, politici e civili vengono dapprima svuotate e quindi progressivamente accantonate, per poter far spazio a nuove forme di sfruttamento. È principalmente grazie a questo meccanismo di autodifesa, ovvero alla ridefinizione ciclica della divisione del lavoro su scala nazionale ed internazionale, che il capitalismo riesce a rigenerarsi. La storia del ventesimo secolo è stata caratterizzata da tre cicli di trasformazione capitalista che hanno segnato profondamente la fisionomia economico-politica dell’Europa: il primo ciclo ebbe inizio dopo le campagne napoleoniche e si esaurì nella I guerra mondiale; il secondo segnò il periodo compreso tra le due guerre mondiali; il terzo si sviluppò nei trent’anni successivi al secondo dopoguerra. Con la cosiddetta ‘globalizzazione’ il mondo è entrato a spron battuto nel quarto ciclo di ristrutturazione capitalista dell’età contemporanea. Come sottolineano Arriola e Vasapollo però, ‘globalizzazione’ è un termine mistificatorio: sarebbe più corretto infatti parlare di una nuova “competizione globale”3 tra blocchi di potere, nel quadro di “un economia internazionale che è ancora un mosaico di economie nazionali”4. Competizione che, pur avendo ricadute pesantissime anche sulle classi lavoratici dei paesi a capitalismo avanzato, si gioca ancora una volta sulla pelle dei “dannati della terra”. Secondo quanto efficacemente illustrato da Wallach e Sforza infatti, la globalizzazione non è altro che un internazionalizzazione del capitale facente leva su uno sfruttamento economico di tipo neocoloniale:

Secondo il 1999 Economic Report of the President, l’anno 1973 segna l’inizio della globalizzazione, quando lo shock petrolifero dei primi anni settanta porta all’indebitamento del Terzo mondo, e quindi ai prestiti bancari e agli investimenti stranieri diretti per finanziare le bilance di commerci esteri in crescita5.

Le forme di accumulazione capitalista, i mezzi attraverso i quali lo sfruttamento del lavoro è perpetrato, la composizione del mercato del lavoro e le relazioni tra gli stati e i centri di potere economico, sono tutti elementi-chiave che hanno subito sostanziali modificazioni le quali, per essere comprese, hanno bisogno di rinnovate categorie d’interpretazione. Come ogni altro ciclo precedente, anche l’era della globalizzazione si struttura a partire da una stretta articolazione di poteri economici, politici e militari ma, rispetto ad esse, ha subito una profonda trasformazione morfologica, caratterizzata da un accresciuta internazionalizzazione di tali concrete forme di potere. Ciononostante, la trasformazione è stata alimentata dalle stesse pulsioni che avevano messo in moto i precedenti processi ristrutturativi. Quella che Bordieau chiama “l’utopia dello sfruttamento infinito”6 (ovvero la completa e definitiva soggiogazione del lavoro, dell’ambiente e delle relazioni tra esseri umani alla logica del mercato e del profitto) è determinata dalla capacità che le istituzioni nazionali e sovranazionali che governano il processo di globalizzazione hanno e avranno di imporre strumenti giuridici, culturali e politici a propria autodifesa, prima che le spinte di liberazione dalle gabbie d’acciaio weberiane costruite a protezione del sistema di produzione capitalista (che parallelamente si sviluppano tra le masse) possano diventare irreversibili. Il tema della natura mutante del modello di dominio capitalista è perciò cruciale se si vuole cercare di comprendere la presente fase storica di costruzione dello “spazio europeo”. La globalizzazione ha accelerato la crisi dei sistemi politici nazionali tradizionali, riorganizzando e trasformando la natura dei poteri, ‘delocalizzandola’ all’interno di corpi politici sovranazionali. Le stesse istituzioni portanti dell’UE (Commissione Europea, Consiglio Europeo, Banca Centrale Europea), lontano dall’essere organi di rappresentanza democratica sorti in risposta a precise esigenze popolari, di fatto rappresentano strutture burocratiche e tecnocratiche istituite per permettere ai principali capitali nazionali di continuare ad esercitare e ad espandere la propria egemonia su scala continentale e, possibilmente, globale. All’interno del presunto processo “rivoluzionario” che sta interessando il pianeta, l’Europa sta cercando di ritagliarsi un proprio spazio vitale nella grande corsa verso l’accaparramento delle risorse: l’ampiezza di tale spazio sarà determinata dalla capacità che l’UE avrà di “articolare un nuovo regime di accumulazione, integrando territori, capitali e persone (consumatori/lavoratori)”7. Di fatto la vera rivoluzione messa in moto dal processo di unificazione dei mercati globali non è la ‘rivoluzione liberale’ santificata nel roboante ossimoro di Fukuyama8, ma piuttosto una rivoluzione finanziaria. Il fattore che più di ogni altro ha accelerato la trasformazione dei mercati negli ultimi trent’anni è stato la deregolamentazione dei meccanismi di transazione finanziaria. Questa deregolamentazione ha accompagnato il passaggio da un economia basata sulla produttività dei sistemi industriali ad un economia ‘dopata’ che si regge per buona parte su rendite derivate da transazioni monetarie e finanziarie (Edward Luttwak definisce questo sistema fondato sulle speculazioni ‘turbocapitalismo’9). Il maggior pericolo, come rilevato dall’economista Jagdish Baghwati, è che nessuno è stato finora capace di stilare un bilancio serio dei flussi e riflussi di capitali prodotti dalla deregolamentazione finanziaria10. Questa è la ragione per cui molti analisti sostengono che l’attuale sistema di flussi finanziari abbia trasformato la de-regolamentazione in sregolatezza, dal momento che essa cronicizza i fattori di recessione che sono sempre collegati alle crisi finanziarie11. Attualmente la speculazione nei mercati finanziari ha raggiunto il suo picco storico. Nel 1971, con l’abbandono del tallone aureo (ovvero la misura unilaterale decisa dagli Stati Uniti di chiudere lo sportello della convertibilità dell’oro in dollaro), si verificò la fine del sistema di cambi fissi decretato a Bretton Woods all’indomani del secondo conflitto mondiale. La conseguenza di tale decisione fu un incremento considerevole dei movimenti sul mercato dei cambi. Circa 1500 miliardi di dollari americani vengono scambiati ogni giorno, rispetto ai 70 miliardi di trent’anni fa. Queste transazioni non producono un reale scambio di beni da paese a paese, ma sono guidate esclusivamente dalla ricerca di enormi profitti istantanei a vantaggio di pochi soggetti. Questa pratica è particolarmente nociva, dal momento che produce quell’instabilità dei sistemi di scambio monetario che è una delle principali cause delle crisi economiche che ciclicamente esplodono nel mondo. Si stima che dal 1973 ad oggi vi siano state all’incirca 120 crisi monetarie e/o finanziarie12, crisi che polverizzano nel giro di pochi giorni il prodotto di decenni di lavoro. Nel piano neocapitalista di invasione di ogni singolo mercato disponibile sul pianeta, le nazioni economicamente più esposte sono costrette a inseguire la fiducia degli investitori stranieri, fornendo le concessioni necessarie ad attrarre investimenti diretti esteri (IDE). Ciò, in base alla logica dell’inarrestabile abbattimento dei costi, va sempre e comunque a discapito dei lavoratori, dei cittadini e dell’ambiente. Le crisi economiche che si moltiplicano a macchia d’olio nel pianeta dimostrano che la circolazione selvaggia e non regolata dei capitali destabilizza le economie e le basi stesse della democrazia, ed ha effetti sociali devastanti. Il potere decisionale sull’allocazione dei capitali e delle risorse è quindi passato nelle mani di un numero sempre più ristretto di centri di potere sovranazionali. Ciò sta ridisegnando la geografia dei poteri e a livello globale tanto che, più che della smithiana “ricchezza delle nazioni” (wealth of the nations) si potrebbe oggi a buon titolo parlare di “ricchezza delle multinazionali” (wealth of the corporations)13. Lo scivolamento della gestione dei capitali verso le compagnie multinazionali è una delle principali cause del declino dello stato-nazione (sul quale la stessa dottrina liberale classica di Smith era improntata) e del parallelo indebolimento delle istituzioni sociali che avevano rappresentato la spina dorsale dell’Europa post-bellica, di cui il welfare state era la più nobile espressione. Infatti oggi gli stati (o per meglio dire gli organi di rappresentanza popolare, ovvero i parlamenti) hanno visto ridurre drasticamente la propria autonomia per ciò che riguarda la gestione politico-economica delle risorse, avendo ceduto buona parte della propria sovranità a centri di potere collocati al di fuori di ogni possibile vigilanza democratica quali l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM), l’Organizzazione di Cooperazione e Sviluppo Economico (OCSE), la BCE, ecc. La reazione delle classi politiche nazionali a tale perdita di potere si manifesta su un doppio livello: a livello politico, varando misure criptoprotezionistiche a difesa delle multinazionali che le finanziano; a livello istituzionale, svuotando l’azione dei parlamenti e rimodellando in senso autoritario gli organi esecutivi, i quali si appropriano di fatto di molte delle competenze sottratte ai parlamenti stessi. La natura degli assetti istituzionali, politici ed economici che sostengono l’impianto europeo lascia intendere che l’UE non aspiri in futuro a proporsi come un modello di sviluppo alternativo e innovativo rispetto alle altre potenze geopolitiche che, assieme ad essa, hanno contribuito a far sprofondare il pianeta nel baratro della globalizzazione neoliberista. Se ci si concentra sulla sua configurazione attuale (si guardi, per esempio, alla “strategia di Lisbona”), pare evidente che l’obiettivo a medio-lungo termine dell’UE sia quello di divenire il soggetto egemone del mercato globale: un elemento quindi di assoluta continuità e non (come invece sarebbe auspicabile) di rottura, all’interno del desolante orizzonte neoliberista. Se, storicamente parlando, l’Europa si trova oggi in questo vicolo cieco, lo si deve anche al grigiore intellettuale della sua classe politica (la sinistra in primis), la quale per decenni si è passivamente conformata alla logica demolitrice che fa da sfondo al disegno neoliberista. Questa logica infatti prevede che la ristrutturazione del capitalismo mondiale sia modellata sulle esigenze delle grandi imprese multinazionali, le quali mal tollerano qualsiasi ingerenza politica proveniente dall’esterno (organismi internazionali) o dall’interno (parlamenti). In sintesi, il capitale ha stabilito unilateralmente che la ‘sua’ (del capitale) globalizzazione, per realizzarsi, deve potersi muovere a briglia sciolta, e che pertanto non può e non deve essere contenuta o regolata politicamente. Secondo il pensiero economico neoliberista infatti le istituzioni, le norme e le prassi politiche novecentesche (le carte costituzionali, lo stato sociale, il sindacato, i trattati internazionali, ecc.) altro non sono che fastidiosi orpelli che intralciano il “naturale” sviluppo del mercato. Ciò permette di comprendere perché le politiche economiche imposte dall’agenda delle multinazionali abbiano effetti generali letali sui sistemi di welfare nazionali: lo stato è infatti stato pesantemente esautorato, e i poteri tradizionalmente facenti capo ad esso dispersi in organismi indipendenti e in corpi sovranazionali, quali la stessa UE. Le regole imposte dalla globalizzazione influenzano profondamente le politiche interne degli stati, limitando seriamente la loro capacità di agire in qualità di regolatori sociali. All’interno dell’UE questo corto circuito viene immediatamente evidenziato se si prende in considerazione il ricatto politico economico chiamato Patto di Stabilità e Crescita (PSC). In base ai criteri fissati nel PSC, l’unico obiettivo della zona euro è il mantenimento della stabilità monetaria. A tal fine si impone a tutti gli stati membri la rigida applicazione di una politica fiscale a ‘taglia unica’ basata su due criteri inamovibili: 1) il deficit di bilancio non deve superare il 3% del Prodotto Interno Lordo (PIL) nazionale; 2) il debito pubblico totale non deve eccedere il 60% del PIL. Questa politica di bilancio che persegue l’obiettivo (in sé condivisibile) dell’annullamento del deficit, si è rivelata essere un diktat che inibisce de facto qualsiasi tentativo di modulare le politiche economiche nazionali utilizzando, quando il caso lo richiederebbe, politiche di spesa pubblica espansive: per tale ragione gli European Economists for an Alternative Economic Policy in Europe14, ovvero il gruppo di economisti unitisi nell’Euromemorandum Group, lo hanno ribattezzato ISP, Instability and Stagnation Pact (Patto di Instabilità e Stagnazione)15. La BCE, il cui unico compito, per statuto, è quello di vigilare sulla stabilità dei prezzi, ha un ruolo determinante nel rafforzamento del modello di Maastricht16. La sua politica monetaria di alti tassi d’interesse e il suo piano economico anti-inflazionistico a lungo termine sono il prodotto dell’ ossessione ‘zero-deficit’ dei governatori che si sono succeduti alla sua guida (Duisenberg, Trichet). La concezione rigida del concetto di ‘stabilità’ su cui insiste la BCE sta dettando un modello di “sviluppo” economico-sociale agli stati membri (in maniera ancora più restrittiva ai Paesi dell’Europa Centrale e Orientale - PECO) centrato su voci di spesa pubblica limitata, un maggiore enfasi su servizi sociali selettivi e sull’invito a reperire fondi da risorse private. Basta confrontare i tassi di crescita dell’area euro dell’ultimo decennio con quelli delle altre potenze economiche mondiali per scoprire come la politica strettamente monetarista adottata dalla BCE per sostenere il PSC non abbia dato i frutti sperati, ma al contrario abbia spinto quasi tutti i paesi europei verso una fase di stagnazione cronica (gli analisti più pessimisti agitano addirittura lo spettro del rischio stagflazione) di cui ancora non si intravede la fine. Il processo di ridefinizione degli apparati industriali nazionali collegato al piano di sviluppo previsto dalle istituzioni europee si basa sulla destrutturazione di ampi settori delle filiere produttive tradizionali e (specialmente nel caso italiano) sulla rinuncia a soluzioni che puntino sull’innovazione tecnologica e sulla valorizzazione delle competenze tecniche e scientifiche dei lavoratori. Queste scelte suicide mettono in moto un modello di “sviluppo” nel quale l’unico fattore su cui fare leva in periodi di crisi è il lavoro, attraverso un incremento della flessibilizzazione della manodopera e una progressiva compressione dei costi. La crisi fiscale che attanaglia tutti gli stati europei, e le limitazioni imposte ai bilanci pubblici dai criteri di Maastricht e Amsterdam-Dublino impediscono di fatto ogni possibilità di avviare politiche basate sull’incremento della spesa sociale o di proporre piani macroeconomici espansivi tesi a rilanciare l’economia e superare la fase di stagnazione che grava sull’area europea da almeno un decennio. Dopo lo spettacolare boom speculativo che ha segnato l’era della new economy nella prima metà degli anni novanta, i recenti, rari, periodi di crescita sono stati trainati dalla combinazione di fattori estemporanei e non dall’adozione di politiche macroeconomiche atte a favorire un rilancio strutturale dell’economia: in nessuno dei campi essenziali per uno stimolo reale dell’economia (creazione di posti di lavoro stabili, rilancio dei consumi, aumento delle risorse per R&S, ecc.) sono stati avanzati seri progetti di riforma. Il PSC offre margini ristretti agli stati e ai governi locali, i cui vincoli di spesa vacillano sotto il peso della peggior crisi fiscale verificatasi dal dopoguerra ad oggi. Le crescite effimere generate da innalzamenti repentini dei tassi di flessibilità del mercato del lavoro, o da massicci incrementi della spesa militare dimostrano l’instabilità strutturale dell’attuale capitalismo deregolamentato17, che non promuove un progresso sociale ed economico genuino, ma si basa sulle crescite speculative derivate dall’espansione di un mercato “moralmente” intossicato. Il dogma dell’austerità predicato dalla BCE si è finora rivelato un freno per l’economia europea, paralizzando in partenza ogni tentativo di adottare politiche espansive. Inutile sottolineare che a livello sociale tali limitazioni si traducono in una distribuzione sbilanciata delle risorse e in una radicalizzazione delle disparità di reddito. Non solo, ma se analizziamo il PSC dal punto di vista macroeconomico, scopriamo come dietro ad esso vi sia in realtà una “grandiosa operazione di trasferimento delle risorse dalla spesa sociale alla rendita finanziaria” ovvero, come sottolinea Marco Nesci, una sotterranea quanto colossale ‘redistribuzione alla rovescia’ della ricchezza prodotta. Infatti analizzando la politica degli investimenti dell’UE si può notare come “il prodotto del lavoro venga impiegato sia per far lievitare i profitti delle imprese, sia per finanziare speculazioni borsistico-finanziarie”. Per smascherare questo macroscopico processo di accumulazione del capitale è sufficiente guardare le cifre relative al “bilancio primario dello Stato, cioè il puro saldo tra entrate e uscite, il quale chiude da anni con attivi da capogiro (140.000 miliardi di vecchie lire quello del 2001), di cui una fetta consistente deriva direttamente dal conto delle prestazioni sociali”. Questo equivale a dire che “ciò che noi versiamo come contributi direttamente dalle buste paga è di gran lunga superiore al corrispettivo di quanto riceviamo in termini di servizi ed esigibilità dei diritti per cui paghiamo”. Come Nesci ricorda “pensioni, sanità, assistenza, stanno dentro questi conti e godono di attivi di bilancio giganteschi”: ma ciò non inibisce istituzioni come la Commissione Europea, le Banche centrali, il FMI dall’insistere nel richiedere che questi pilastri della protezione sociale vengano “riformati”, e che la loro gestione venga gradualmente spostata dal pubblico al privato, per permettere di alleggerire i costi del bilancio statale. Come se tutto ciò non fosse già di per sé abbastanza inquietante, bisogna anche ricordare come il centro-“sinistra” italiano abbia sentito la necessità di estendere i criteri del PSC “anche ai comuni, province e regioni, costringendoli a ridurre o privatizzare i servizi sociali e industriali da essi erogati”18. Questa ingerenza sulle decisioni locali ha fatto scuola anche a livello comunitario, laddove recentemente è stata proposta l’applicazione di normative decretate dall’alto (top down), con procedure simili a quelle odiose adottate, per esempio, dall’OMC (è il caso della direttiva Bolkestein sulla quale si è acceso un dibattito serrato in questi mesi e che, se approvata, spianerebbe la strada al dumping più sfrenato nel mercato del lavoro e all’invasione del liberismo più selvaggio nella gestione dei servizi pubblici19). Operando in tal senso viene altresì irriso il principio di sussidiarietà che è uno dei pilastri formali precipui dell’intera legislazione europea. Il dibattito sul rispetto o meno dell’ortodossia monetaria che plasma la riforma strutturale dei mercati prevista dal PSC, ha oggi assunto in Italia tratti farseschi: mentre Berlusconi dichiara pubblicamente di voler riformare (da destra) il patto, i leader del centro -“sinistra” si ergono a paladini del rigore di bilancio, ed invece di avviare una campagna per una revisione del PSC basata sul rilancio della spesa sociale, continuano a difendere a oltranza il saccheggio sociale in atto. Nonostante tali divergenze sul metodo, non vi è dissonanza tra centro-destra e centro-“sinistra” negli obiettivi a lungo termine: sia a livello nazionale, che all’interno delle istituzioni comunitarie esse concorrono alla normalizzazione di una gestione socialmente irresponsabile delle risorse, che prevede che i parametri di crescita destinati alla spesa pubblica vengano sistematicamente dirottati verso criteri monetaristici e speculativi. Così facendo entrambe accantonano aprioristicamente anche il benché minimo obbligo politico e morale necessario per perseguire una politica sociale equa, schierandosi a sostegno esclusivo degli interessi del capitale. Ad ogni livello, il dovere ultimo delle istituzioni pubbliche dovrebbe essere quello di garantire non solo la tutela, ma anche il progressivo ampliamento dei diritti dei cittadini: se questo fosse l’obiettivo primario delle istituzioni dell’UE, la crescita economica dovrebbe essere intesa non come una divinità totemica, ma come uno dei tanti (se si vuole uno dei più importanti) strumenti per garantire lo sviluppo della società. La crescita economica dovrebbe cioè procedere in linea con l’ampliamento delle opportunità, ed essere funzionale al progresso sociale. Sfortunatamente, questa concezione del futuro dell’Europa è estranea al pensiero neoliberista oggi dominante tra le élites di potere che governano il Consiglio, la Commissione, la BCE e i vari stati nazionali. L’Europa neoliberista continua perciò a perpetrare un minaccioso modello economico e sociale, nel quale la guerra, la demolizione del welfare, il razzismo nei confronti dei migranti, la precarizzazione del lavoro (e di conseguenza della vita intera20), non sono altro che i prevedibili “effetti collaterali” di specifiche, consapevoli e quanto mai discutibili scelte politiche.

2. E la sinistra europea?

Se, come accennato in precedenza, la data da prendere in considerazione come inizio della globalizzazione è il 1973, è anche vero che essa agì in maniera piuttosto silenziosa fino alla fine degli anni settanta (1973-1978). I primi segnali tangibili di ristrutturazione cominciarono a venire alla luce solo a partire dagli anni ottanta, che perciò possono essere simbolicamente indicati come il periodo d’inizio della seconda fase della globalizzazione. Fu infatti in quella decade che i pericolosi sintomi di un processo - già in atto - di ridefinizione della società capitalista divennero evidenti, grazie alla violenta irruzione sullo scenario politico mondiale delle dottrine iperliberiste di ispirazione reaganiana e thatcheriana. La piattaforma politica di questa controffensiva conservatrice (il cosiddetto new beginning, il “nuovo inizio”) si basava su una drastica riduzione della spesa pubblica, sulla privatizzazione di fette consistenti delle imprese d’interesse nazionale, sulla riformulazione secondo principi darwiniani delle strutture industriali nazionali e su un confronto aperto con le maggiori sigle sindacali. L’attacco esplicito alle conquiste sociali e politiche acquisite in trent’anni di lotte si protrasse per tutti gli anni ottanta, senza peraltro che i progetti reaganiani/thatcheriani di smantellamento della ‘cosa pubblica’ e delle tutele sociali ed economiche edificate a difesa della dignità dei cittadini attraverso i vari sistemi nazionali di welfare potessero essere portati a reale compimento. Perché la grande avanzata capitalista recuperasse slancio si dovette attendere la fine del decennio, quando un evento in un certo senso ‘esogeno’ rispetto al mondo occidentale permise allo stesso Occidente di ricevere nuova linfa per continuare a portate avanti i propri piani di espansione del capitale: l’epilogo della seconda fase della globalizzazione (1979-1988) ebbe luogo infatti dopo la caduta del muro di Berlino e il collasso del sistema sovietico nel 1989, eventi a forte impatto emotivo che permisero di sancire (a)storicamente la vittoria indiscussa (ma soprattutto indiscutibile) del ‘nuovo corso’ capitalista e la sconfitta, altrettanto (a)storica, di qualsiasi progetto economico, sociale, culturale ad esso alternativo. Tali eventi sancirono simbolicamente l’affermazione del neoliberismo, dando il via alla terza fase della globalizzazione21, ovvero ad un processo di trasformazione ancora più radicale (se possibile) dei precedenti, caratterizzato dall’imposizione su scala globale del ‘pensiero unico’ neoliberista, le cui linee di indirizzo politico-economico venivano in gran parte dettate non più, o non solo, dai governi di stati sovrani, ma da una serie di organismi nazionali e sovranazionali controllati direttamente o indirettamente dalle grandi corporations. Durante tutti gli anni novanta fiorirono pubblicazioni che descrivevano apologeticamente l’avvento di una nuova epoca di libertà e benessere universali, che sarebbe prosperata sotto le ali protettrici del binomio democrazia liberale/liberismo. Politologi come il già citato Fukuyama, economisti come Rostow (Theorists of Economic Growth from David Hume to the Present, with a Perspective to the Next Century), sociologi come Giddens (The Third Way. The Renewal of Social Democracy) proclamarono all’unisono la fine della storia, dell’economia, della politica, e la contemporanea nascita di una romantica società globale che si incamminava leggiadra verso un futuro illuminato dal progresso perpetuo. In quegli stessi anni si assistette, sul piano geopolitico, ad una brusca accelerazione del processo di espansione neoimperialista del capitale. L’intrecciarsi di diversi fattori (economici, militari, finanziari, ecc.) preparò il terreno sul quale giocare il prossimo “grande gioco”, che avrebbe permesso di ridisegnare la geografia dei poteri globali. Importanti cambiamenti politici a livello regionale rivelarono perciò funzionali al progetto politico, guidato dalle grandi multinazionali, di appropriazione di nuovi mercati economici su scala planetaria. Visti sotto questa luce, passaggi cronologicamente attigui come la caduta del blocco sovietico nell’Europa orientale, la fine del regime dell’apartheid in Sudafrica, l’ascesa delle tigri asiatiche, l’ingresso impetuoso nell’economia di mercato da parte della Cina e la selvaggia dollarizzazione dei sistemi monetari in gran parte dell’America latina possono essere considerati come i macroeventi storicamente più significativi all’interno di un più ampio progetto di spartizione di nuovi mercati nella sfera d’influenza delle grandi potenze e dei gruppi economici transnazionali da esse tutelati (istituti di credito, compagnie di assicurazione, banche, grandi gruppi imprenditoriali, ecc.). La variante europea del “nuovo ordine economico mondiale” (Ignacio Ramonet) ratificata a Maastricht confermava anche dal punto di vista militare la natura sfrenatamente competitiva del “nuovo ordine mondiale” (George Bush Sr.) che andava configurandosi in maniera sempre più esplicita in quegli anni. Non a caso la Prima Guerra del Golfo e le Guerre Balcaniche ebbero inizio proprio in tale periodo. La partecipazione in forma diretta e massiccia degli stati europei a queste campagne militari va interpretata come un messaggio dell’Europa ai diretti concorrenti nella competizione globale: essa era finalizzata a posare le pietre per l’edificazione di una vasta area economica che facesse da trampolino di lancio per il consolidamento della rampante divisa europea (il futuro Euro) in aree geopolitiche “stabili” e geograficamente strategiche22. In altre parole, intervenendo militarmente in quei territori l’Europa rese pubblico l’intento di voler creare un’area economica appetibile per i mercati esteri (in special modo per i vicini mercati euro-asiatici in espansione quali Russia, Medio Oriente, Cina), sulla quale gettare le basi per l’ascesa dell’Euro a divisa di riserva internazionale23. L’accettazione unanime, acritica, del ‘pensiero unico’ e l’adesione delle democrazie occidentali al progetto di ricomposizione del “nuovo ordine mondiale” modellato su tale pensiero ebbe perciò notevoli implicazioni politiche. Nella decade passata infatti si assistette ad un mutamento profondo di quasi tutti i principali partiti politici della sinistra europea, i quali frettolosamente si liberarono del loro retroterra storico e culturale per poter lasciar spazio a programmi politici di chiaro stampo neoliberista. Con il loro ‘nuovo corso’, le socialdemocrazie europee (in uno spettro di posizioni che andava dalla ‘Terza Via’ blairiana alla Gauche Plurielle di Lionel Jospin) vollero dimostrare di essere capaci di contenere e regolare politicamente i disastri sociali generati dal neoliberismo. In realtà, legittimandone di fatto i principi, e facendosene oltretutto alfieri in prima persona, esse hanno finito con il perdere la loro identità originaria e la loro funzione sociale. La caduta del muro di Berlino e l’accettazione supina del liberismo come unica scelta plausibile in politica economica, hanno trasformato le socialdemocrazie europee in tenaci sostenitrici di un capitalismo “gentile”, o più semplicemente in burocrazie appiattite sulle rivendicazioni delle grandi multinazionali e delle istituzioni che di fatto manovrano le dinamiche di sviluppo del mercato globale. La fagocitazione del pensiero liberale da parte del neoliberismo, del suo discorso e delle sue pratiche liberiste, ha contribuito quindi in maniera determinante ad avviare il processo di scardinamento di strutture che costituivano il tradizionale tessuto connettivo sociale europeo. I concetti liberali di tolleranza, rispetto della pluralità delle idee, bilanciamento dei poteri, sono stati rimpiazzati da un arrogante ‘pensiero unico’ il cui obiettivo principale è quello di rimuovere tutto ciò che può fungere da freno all’espansione del capitale privato. Le istanze sociali, il rispetto per i diritti, la ricerca di maggiori spazi di giustizia ed eguaglianza trovano spazio nelle propagande elettorali, ma non nelle agende politiche dei principali partiti “riformisti” europei, né tanto meno nelle loro piattaforme di programmazione economica. Invece di utilizzare le proprie energie ed attingere alla propria eredità culturale per contrastare l’ideologia forte che sostiene la globalizzazione, le “sinistre” di governo europee vi si sono adeguate, appiattendosi sugli interessi dei grandi gruppi economici. Il progetto naïve (o, più semplicemente, ipocrita) dei governi di centro-”sinistra” europei, secondo il quale sarebbe stato possibile gestire politicamente con efficacia il processo di espansione del capitale, temperandolo con strumenti legislativi adeguati a livello sia nazionale che comunitario, è stato ampiamente sbugiardato e smascherato. Questo, in parte, spiega le ragioni che stanno dietro al colossale fiasco politico dei governi di centro-”sinistra” della decade scorsa, e lascia intendere come mai le formazioni di destra o centro-destra abbiano dilagato negli ultimi anni. Il tentativo fallito di perseguire un progetto ‘moderato’ di gestione delle trasformazioni sociali indotte dalle politiche liberiste ha lasciato il re nudo, affossando la credibilità politica, morale ed intellettuale dei leader di centro-”sinistra” che avevano avvallato questo sgangherato disegno ‘riformista’. Il sogno riformatore del centro-“sinistra” europeo e mondiale (il “Grande Ulivo Mondiale”) è andato in frantumi, e il risultato è che oggi lo scacchiere politico dell’Europa che conta (ad eccezione, forse, della Spagna della sfinge Zapatero) è interamente occupato da governi di destra o centro-destra: infatti, a meno che qualche irriducibile fan del neoliberismo soft in salsa riformista insista nel definire i governi di Blair o Schroeder “di sinistra”, risulta evidente come il conservatorismo abbia definitivamente messo il proprio sigillo sull’Europa e sulle sue istituzioni (la Commissione Barroso ne è un ulteriore conferma). Al momento attuale non è lecito sperare che una vittoria, seppur auspicabile, della GAD nel 2006 in Italia (unico paese in cui vi sono margini di speranza per un cambio di linea politica rispetto a quella dell’attuale governo) possa contribuire ad invertire questa sconfortante tendenza. Il successo delle coalizioni di centro-destra può essere visto come la logica estensione del trend politico che ha segnato la decade passata, nella quale i governi di centro-”sinistra” non solo hanno fatto poco o nulla per imporre politiche realmente progressiste, ma anzi si sono affrancati dalla loro natura ‘sociale’ per schierarsi al fianco del capitale, iniziando quel processo di smantellamento del patrimonio pubblico che le destre non hanno fanno altro che assecondare ed, eventualmente, radicalizzare. Il piano “riformista” è in sostanza fallito proprio per l’incapacità da parte delle “sinistre” di governo di proporre alternative al liberismo. L’asse portante dei governi di centro-”sinistra” è stato il medesimo in tutti i paesi europei: deregulation e privatizzazione dei servizi pubblici essenziali (sanità, educazione, sistemi previdenziali) e delle infrastrutture di interesse nazionale (trasporti, energia, telecomunicazioni, mass media); schemi occupazionali welfare-to-work, pugno di ferro nelle politiche di controllo sociale (leggi restrittive sull’immigrazione, “Tolleranza Zero” contro il crimine, ecc.), polarizzazione urbana e interventismo attivo in politica estera. Nelle sfere di competenza più puramente politiche (guerra, lavoro, stato sociale, ambiente, scuola) i governi di centro-”sinistra” non hanno fatto altro che spianare la strada all’azione dei successivi esecutivi di centro-destra. Come riportato in un documento congiunto a firma Tony Blair e Gerhard Schroeder pubblicato nel 199924, la nuova leadership europea del centro-“sinistra” ha definitivamente tagliato i ponti con la propria tradizione socialdemocratica, al fine di avviare una ‘modernizzazione’ politica centrata su un agenda nella quale, come sostiene l’ideologo della Terza via blairiana Anthony Giddens: “la funzione essenziale dei mercati... deve essere integrata e migliorata, non ostacolata dall’azione politica”25. Uno dei punti più bassi raggiunti durante questa discesa a valanga verso posizioni conservatrici (iniziata dal New Labour di Blair, ma sottoscritta e avvallata da tutti gli altri partner europei di centro-“sinistra”) venne toccato durante l’Internazionale Democratica, forum di due giorni tenutosi a Aylesbury, in Gran Bretagna, il 10 giugno 2002, durante il quale i più illustri esponenti dell’intelligentsia “riformista” mondiale si ritrovarono per elaborare la route map per i partiti di centro-“sinistra” europei. La scioccante dichiarazione ivi rilasciata dall’ex direttore delle relazioni con i media del Labour Party (ed attuale Commissario Europeo per il Commercio) Peter Mandelson: “We are all Thatcherities now” [Oggi possiamo dirci tutti thatcheriani], riassume in maniera cristallina l’identità neoliberista e neoconservatrice della “sinistra” “riformista” europea odierna. L’enunciato di Mandelson rappresenta una svolta qualitativa decisiva, che solleva inquietanti interrogativi circa la reale portata dei progetti di “riforma” caldeggiati dai sostenitori europei della Terza Via. Esso illustra in forma diretta il percorso iniziato dalle socialdemocrazie europee negli anni novanta e culminato con il completo, consapevole, radicale e definitivo approdo del “riformismo” nella sfera ideologica del conservatorismo. Come riportato da Tempest:

Mister Mandelson, direttore del Policy Network, afferma: ‘La globalizzazione punisce severamente quei paesi che provano a gestire la propria economia ignorando le realtà del mercato o la necessità di amministrare in maniera prudente le finanze pubbliche. In questo senso specifico, e in merito alla necessità di rimuovere le rigidità per immettere flessibilità nei capitali, nel mercato produttivo e del lavoro, oggi possiamo dirci tutti thatcheriani26.

Le successive affermazioni di Mandelson lasciano intendere come la dichiarazione sopra riportata non sia stata uno scivolone imprevisto, ma piuttosto la testimonianza di uno spostamento di orizzonte epistemologico per quanto riguarda la politica sociale teorizzata dai “riformisti”, confermando in tal maniera la loro compatibilità politica con un modello rivisitato di neo-thatcherismo:

Mister Mandelson invita i socialdemocratici a non cedere terreno su questioni controverse come il crimine e l’immigrazione, e a ‘non lasciare che questi spazi vacanti vengano occupati dalla destra’... egli denuncia sintomi quali l’obsolescenza di amministrazioni prive di dinamismo, la carenza di personalità dotate di leadership, l’assenza di prospettive su proposte economiche e sociali più decise, e la mancanza di coraggio nel sostenere riforme necessarie”27.

Il messaggio di Mandelson porta alla luce l’errore che sta alla radice di tutto il discorso relativo alla Terza Via: l’idea che la sola strada percorribile dalla sinistra europea per mantenere o riconquistare posizioni di governo sia quella di inseguire la destra sul suo tradizionale terreno ideologico. Sulla base di tali premesse è facile dedurre come, sulla scia del nuovo corso neoliberista, la priorità dei governi di centro-“sinistra” nella fase di governo degli anni novanta divenne quella di creare un clima favorevole all’espansione delle imprese. L’unico modo per potersi garantire consenso elettorale fu perciò quello di farsi portatori di un progetto politico invitante per la libera iniziativa e per l’indipendenza delle compagnie e degli investimenti privati, riformando l’assetto dei mercati interni attraverso la privatizzazione del settore pubblico e l’incremento della flessibilità del lavoro. Il settore pubblico, il campo d’azione ‘naturale’ della politica, divenne perciò una scomoda testimonianza archeologica della stagione socialdemocratica del secondo dopoguerra: in virtù di ciò andava cancellato, e con esso tutte le normative e le inibizioni che avrebbero potuto infastidire l’ascesa delle imprese nazionali e multinazionali. Cavalcando questa logica, i leader di centro-“sinistra” operarono una pragmatica “svolta a destra”, rivelatasi strategicamente conveniente a brevissimo termine, ma politicamente e culturalmente miope nel medio e lungo raggio. Il risultato di tale “modernizzazione” epocale è che oggi i partiti socialdemocratici europei sono diventati dei tristi simulacri autoreferenziali, completamente estranei alle esigenze e ai richiami del proprio tradizionale elettorato. Politicamente, questo passaggio ha inoltre comportato un avvicinamento tra destre e “sinistre” di governo europee. Da questo insolito connubio culturale bipartisan, dalla comunione sugli obiettivi economici a lungo termine, dalla sostanziale convergenza di visioni sul futuro del continente, nacque il “Grande Patto Neoliberista” firmato il 7 febbraio 1992 a Maastricht, il cui programma fu sintetizzato nel piano economico-guida dell’UE denominato PSC (v sopra). Attualmente lo scenario politico europeo è cannibalizzato, a livello sia nazionale che comunitario, da pochissime grandi coalizioni di centro-destra e centro-“sinistra”, le quali riproducono programmi neoliberisti conformi, senza che vi sia spazio d’azione concreto per formazioni che propongono progetti politici alternativi. Tale ristrettezza di opzioni politiche disponibili produce scontento e apatia, generando pericolose conseguenze quali diffuso disinteresse e disattenzione nei confronti del dibattito politico istituzionale e una generale de-politicizzazione dell’opinione pubblica europea. Queste lacune vengono tristemente a galla in occasione, per esempio, delle elezioni nazionali per il rinnovo del Parlamento Europeo (unico organo rappresentativo dell’UE eletto attraverso voto popolare diretto), caratterizzate da tassi elevatissimi di astensione. Il risultato materiale che deriva dal gap crescente tra il potere politico e i cittadini è la progressiva burocratizzazione delle istituzioni comunitarie, il loro graduale distacco dalle questioni d’interesse popolare, e la loro sempre maggiore dipendenza dai “poteri forti” nazionali e internazionali. Nessuna delle coalizioni di centro-“sinistra” al governo ha finora accennato a proporre una visione del mondo differente, più equa e futuribile, di quella imposta dalle imprese multinazionali, basata sull’assunto che il mondo (che per le imprese coincide con il mercato mondiale), può funzionare adeguatamente solo se gli stati continueranno ad avere un ruolo sempre più limitato nella gestione diretta delle risorse. Questo è un approccio a dir poco passivo alle grandi problematiche del mondo contemporaneo: esso dà per scontato il principio conservatore secondo cui la globalizzazione sia un processo irrefrenabile, che i mercati si autoregolino e che non abbiano bisogno di alcun quadro sociale e istituzionale per funzionare. In realtà la globalizzazione è il risultato della decisione squisitamente politica di de-regolamentare i mercati e di favorire l’invasione degli interessi privati nella sfera pubblica. Al fine di smontare i sistemi di stato sociale attualmente vigenti, le autorità politiche ed economiche continuano a premere per un ridimensionamento delle tutele sociali garantite “dall’alto” (top down), che, a detta loro, dovrebbero a poco a poco scomparire, sostituite da un seducente mix a base di sussidiarietà, privatizzazione, pari opportunità, maggiori responsabilità individuali e maggior coinvolgimento dei cittadini e delle comunità: concetti ammirevoli, che però altro non sono che eufemismi (dolci maschere...) dietro cui celare lo sfascio del welfare. Fatto ancora più grave, mentre da un lato le autorità sollecitano questa mobilitazione ‘dal basso’ (bottom up), richiedendo ulteriori responsabilità e sacrifici (o, per ricordare il Prodi-pensiero “lacrime, sudore e sangue”) ai cittadini, dall’altro lato esse non mettono minimamente in discussione i meccanismi che regolano le attuali decisioni politiche prese “dall’alto”, provenienti da istituzioni di dubbia credibilità democratica. D’altro canto organismi non democratici quali i consigli di amministrazione delle grandi multinazionali, meglio s’intendono con organismi politici svincolati da controllo popolare diretto: se e solo se si tiene a mente questa ovvia considerazione si può giustificare l’esistenza stessa di strutture quali (per citare i casi più evidenti) la NATO “post-1 luglio 1991”28, le 36 Direzioni Generali e servizi specializzati (veri e propri organismi di pressione interni alla Commissione Europea), la Banca Europea per gli Investimenti (che finanzia, tra l’altro, le compagnie europee coinvolte direttamente nei progetti di ricostruzione delle infrastrutture nelle zone di conflitto) e via dicendo. Nessuna di queste strutture è soggetta a forme di reale vigilanza democratica, e di fatto rappresentano i bracci armati degli interessi economici delle compagnie multinazionali in seno alle istituzioni politiche. I leader politici sono pertanto ridotti a complici delle imprese multinazionali: il loro ruolo diviene quello di fornire un quadro istituzionale formalmente “legittimo” per lo sviluppo di progetti e decisioni politico-economiche che hanno poco o nulla a che vedere con la volontà della maggioranza popolare che essi rappresentano. Il caso delle recenti campagne militari in Afghanistan e Iraq (osteggiate da più dell’80% dell’opinione pubblica europea, ma fortemente appoggiate dalle grandi industrie costruttrici, petrolifere, militari, energetiche, ecc.), illustra questo ragionamento meglio di qualsiasi stucchevole retorica sulla natura più o meno democratica delle istituzioni comunitarie.

3. Considerazioni finali

Nel corso degli ultimi trent’anni il capitalismo europeo ha reso esplicito il proprio disegno offensivo di rafforzamento, imperniato su due obiettivi strategici, strettamente correlati fra loro e di lunga portata che, se realizzati, garantirebbero solide basi d’appoggio al controllo diretto del capitale sulla maggior parte delle attività umane: tali obiettivi sono la marginalizzazione dal tessuto sociale delle organizzazioni operanti a tutela del lavoro29 e la progressiva riduzione del costo del lavoro stesso che, direttamente e indirettamente, avviene attraverso lo sgretolamento dello stato sociale. Nella visione neoliberista del futuro dell’Europa la combinazione di questi due fattori di ‘aggiustamento strutturale’ dovrebbe costituire la panacea per garantire la competitività delle imprese europee a livello internazionale. Questo pensiero fondamentalista ha già prodotto devastanti effetti sulle società europee: ha agevolato una sistematica disgregazione della società civile, in tutte le sue tradizionali strutture organizzative, e ha “geneticamente modificato” i principi fondativi di gran parte dei discorsi scientifici, accademici e culturali, obbligandoli a prodursi e ri-prodursi esclusivamente all’interno di una cornice economica e commerciale. Ciò ha disarticolato gran parte dei tradizionali legami antropologici tra concrete esigenze umane, progresso scientifico e sviluppo sociale. Invece di migliorare gli standard di vita e il livello di benessere generale, la globalizzazione neoliberista sta incrementando le disparità economiche e sociali, sia a livello di sistemi nazionali che su scala internazionale. A buon grado si può affermare che nessun altra epoca precedente abbia mai prodotto una dicotomia più stridente tra sviluppo tecnologico e progresso umano. La prova più concreta di tale antinomia socio-politica è data dal fatto irrefutabile che la più drammatica e immediata conseguenza dello sviluppo economico promosso dalla globalizzazione è l’aumento vertiginoso della povertà. Ovviamente gli effetti prodotti da tale modello economico sono molto più evidenti nei Paesi in Via di Sviluppo dell’Africa, dell’America latina e dell’Asia. Gli ‘aggiustamenti strutturali’ imposti dalle roccaforti del capitalismo globale (FMI, BM, OMC) a questi paesi stanno provocando disastri ambientali, sanitari, sociali ed umani di dimensioni inaudite: il risultato di tali politiche è che oggi più di metà della popolazione mondiale è costretta a “vivere” con meno di 2 dollari al giorno. Nonostante il degrado delle condizioni di vita occorso negli ultimi decenni sia più marcato nei vari Sud del mondo, anche gli europei non sono immuni da questa tendenza globale all’espansione della povertà. Infatti secondo uno studio pubblicato dall’istituto Europeo di statistiche Eurostat nel settembre 200430, il 15% della popolazione totale dell’Europa dei 15 vive con un reddito che è inferiore al 60% della media nazionale. In termini numerici questo significa che le persone a rischio di povertà in tale area sono all’incirca 56 milioni. Geograficamente, i paesi con la percentuale più alta di popolazione in tale situazione, sono i paesi delle fascia mediterranea (Grecia, Portogallo, Spagna e Italia) e l’Irlanda. Dato ancora più allarmante, queste statistiche non includono i dati dei paesi inclusi nell’ultima fase di allargamento-annessione dell’UE, paesi che, nella maggior parte di casi presentano indicatori socio-economici oggettivamente preoccupanti31. Questi dati mostrano chiaramente come il passaggio repentino ad un economia di mercato e la privatizzazione massiccia dei beni pubblici favoriscano i processi di polarizzazione sociale ed economica. I frutti di tale esperienza sono chiaramente visibili nell’esperienza della Russia e dei PECO, i quali, debilitati della carenza cronica di efficienti infrastrutture pubbliche, faticano a garantire livelli accettabili di welfare nell’attuale, interminabile, fase di ‘transizione democratica’. Di fatto nei paesi dell’ex blocco sovietico si è assistito ad un vero e proprio saccheggio delle risorse pubbliche, che ha permesso che i capitali si concentrassero nelle mani di un gruppo ristrettissimo di grandi corporations, senza tener conto delle devastanti conseguenze che ciò avrebbe comportato in termini sociali. Criticando il motto “privatizzazione = modernizzazione” che fa da sfondo al discorso neoliberista, Hardin ricorda come, a differenza di quanto avvenuto nell’ex blocco scoietico, “i boom economici verificatisi in Francia, Italia, Finlandia e Austria nel secondo dopoguerra furono trainati da settori finanziati in gran parte dallo stato”32. Sulla stessa linea il discusso “finanziere-filantropo” George Soros metteva in guardia contro i rischi insiti in una privatizzazione incontrollata nei PECO, avanzando la proposta alternativa, inascoltata, di istituire un “Piano Marshall” per meglio gestire la ricostruzione di quell’area geografica33. I risultati delle scelte attuate sono purtroppo sotto gli occhi di tutti: mentre il gruppo di PECO compresi nell’ultima fase dell’allargamento-annessione fatica non poco a tenere il passo di quell’UE che ha scelto come modello-guida, la Russia e i rimanenti paesi dell’Est registrano la maggior contrazione degli standard di vita mai registrata in assenza di guerra. Per la seconda volta in meno di un secolo questi paesi stanno subendo una trasformazione rivoluzionaria dagli effetti economici catastrofici, e dopo la tragedia dello stalinismo sono oggi costretti ad affrontare la tragedia altrettanto grave del ‘capitalismo di rapina’. Sulla base di queste considerazioni, siamo spinti a rivalutare alcune parti del pensiero del Premio Nobel per l’economia Amartya Sen, il quale nella sua acclamata teoria delle “capacitazioni” sostiene che la povertà non deriva solo dalla mancanza oggettiva di risorse, ma anche dalla negazione indiretta di diritti acquisiti (entitlement)34. Non vi è dubbio che le risorse nell’opulenta Europa odierna siano enormi: ciononostante l’accesso ad esse può essere realmente garantito solo attraverso uno sviluppo bilanciato di crescita economica e ridistribuzione dei profitti derivati da tale crescita. È fuor di dubbio che lo sviluppo economico sia essenziale per la crescita dei livelli di benessere generali della società. Infatti, se regolato da adeguate politiche espansive, esso incrementa la disponibilità di beni materiali, promuove integrazione e interdipendenza, ed estende lo spettro di diritti acquisibili da parte dei lavoratori. In altri termini, esso apporta evidenti benefici agli standard di vita generali della società. D’altro canto però, quando non viene regolato in maniera equa e trasparente, ma viene ‘pilotato’ per andare incontro solo ed esclusivamente alle esigenze delle imprese, delle banche, ecc., tale sviluppo economico finisce con l’indurre notevoli perdite sul terreno sociale: rende le fasce più deboli ancora più vulnerabili; distrugge pratiche di vita stabili e consolidate; conduce ad una polarizzazione e all’esclusione sociale di fette sempre più ampie della società. Pertanto, sebbene lo sviluppo economico rivesta un ruolo fondamentale nel generale processo di avanzamento sociale, esso da solo non basta a garantire una corretta protezione sociale. Laddove l’influenza del capitale privato si espande in maniera selvaggia, solo la ristretta minoranza che può avere accesso alle risorse cedute al mercato può effettivamente tutelare i propri bisogni primari. Gli standard di vita di coloro che rimangono esclusi dal mercato tende inevitabilmente a scivolare verso il basso, costringendo un intera fascia sociale composta da nuovi poveri (giovani, pensionati, classi medie impoverite, migranti e, più genericamente, i nuovi working poor) a dipendere in maniera sempre più vincolante da un welfare divenuto, gioco forza, residuale e paternalistico. Questa underclass non solo è in costante espansione in tutta Europa, ma subisce oramai da decenni i pubblici anatemi delle istituzioni, della classe politica, dei media, in virtù della sua natura presumibilmente “parassitaria”, ed è bollata dai teorici delle politiche di controllo sociale come uno dei principali ostacoli al pieno sviluppo di un UE economicamente stabile35. La concezione riduttiva dei cittadini in meri lavoratori ‘flessibili’e consumatori passivi, sta conducendo necessariamente verso una progressiva individualizzazione di quel sistema di diritti collettivi che rappresentava il cuore del concetto di ‘cittadinanza’ che si era andato sviluppando in Europa occidentale negli ultimi sessant’anni. Spezzando i fili che compongono le reti di coesione sociale, questo approccio spinge verso una mercificazione universale delle relazioni umane, trasformando i cittadini in unità atomizzate e tra esse ostili. In termini sociologici resta a mio avviso valido l’assunto di Marx secondo cui la mercificazione dei rapporti umani è un fattore di disumanizzazione che inquina l’intera società: infatti, anche nella società globale l’alienazione non mortifica solamente il proletariato post-fordista, ovvero coloro che sperimentano sulla propria pelle le nuove pratiche di sfruttamento del modo di produzione capitalista, ma anche (sebbene in forme diverse) gli stessi capitalisti, dal momento che anch’essi sono ingranaggi di un sistema basato su relazioni umane mercificate, regolato non più (o non solo), come ai tempi di Marx, dal dominio della tecnologia e delle macchine, ma dalla supremazia della finanza, del credito, della competitività esasperata. Ed è all’interno di questo corpo sociale scisso che è possibile problematizzare lo smarrimento esistenziale, tratto immanente del precario universo post-industriale e post-ideologico in cui il cittadino europeo postmoderno è costretto a muoversi, in assenza pressoché totale di stabili punti di riferimento culturali e istituzionali. Nessun soggetto politico può ritenersi immune da colpe di fronte al declino sociale e culturale che mina la società europea: sotto questo punto di vista è ancor più esecrabile l’atteggiamento delle sinistre, le quali dovrebbero teoricamente essere più sensibili alle istanze di pace, giustizia e uguaglianza che, nell’epoca della disoccupazione endemica, delle ‘guerre permanenti’ e degli ‘scontri di civiltà’, si configurano come paradigmi non solo utili ma addirittura indispensabili, per poter provare a immaginare scenari meno inquietanti di quelli attuali. È anche (o soprattutto) a causa della rinuncia della sinistra al tentativo di recuperare le categorie migliori del proprio patrimonio, e del suo intestardirsi in difesa di un modello rivelatosi fallimentare, che oggi l’Europa non offre prospettive incoraggianti a chi auspicherebbe un suo rilancio in senso sociale e culturale. Il futuro del continente si giocherà molto probabilmente sulla volontà e sulla capacità che le forze politiche progressiste avranno di recepire gli incalzanti suggerimenti che vengono loro rivolti dall’universo popoloso e creativo dei soggetti sociali e della società civile. Se così non fosse, i cittadini europei (nativi e migranti) saranno costretti a muoversi dentro uno quadro sempre più ostile, dove sarà sempre più arduo costruire reali spazi di libertà. È sulla base di queste riflessioni che attendiamo quel tanto agognato rinascimento culturale da parte della sinistra europea, a partire dal quale si potrebbe pensare di poter cambiare volto all’Europa. Così come si presenta oggi davanti ai nostri occhi, nascosta maliziosamente dietro una maschera che tradisce falsità e malafede, questa Europa ci pare oggettivamente indifendibile.

Note

* Ricercatore di Lingue e Letterature Germaniche e Romanze - Università di Udine.

1 Sull’applicazione del concetto generale di “sorveglianza” nelle società a capitalismo avanzato vedi: Lyon, D., La Società Sorvegliata, Feltrinelli, Milano, 2002.

2 Il mezzo televisivo, nella sua veste attuale di strumento di disinformazione, è stato definito un’ “arma di distrazione di massa”.

3 Arriola, J., Vasapollo, L., La Dolce Maschera dell’Europa, Jaca Book, Milano, 2004, p.10.

4 Ibid. p. 24. Sulla competizione globale tra blocchi di potere interstatali vedi Vasapollo, L., Casadio, M., Petras, J., Veltmeyer, H., Competizione Globale, Jaca Book, Milano, 2004.

5 Wallach, L., Sforza, M., WTO, Feltrinelli, Milano, 2002, p.241.

6 Bourdieu, P., “The essence of neoliberalism”, Le Monde Diplomatique, Dicembre 1998, disponibile sul sito: http://mondediplo.com/1998/12/08bourdieu

7 Arriola, J., Vasapollo, L., op.cit., p. 136.

8 Nell’ormai celebre The End of History and the Last Man, Fukuyama descrive l’avvento di una “Worldwide Liberal Revolution” [Rivoluzione Liberale Mondiale]. Questo è il capitolo che illustra in maniera più nitida la monocromatica visione che l’autore ha del mondo all’indomani del crollo del muro di Berlino. Fukuyama, F., The End of the History and the Last Man, Hamish Hamilton LTD, London, 1992, pp. 39-51.

9 Luttwak, E., Turbo-Capitalism: Winners and Losers in the Global Economy, Harper Collins, 1999.

10 Giorgio Ruffolo “L’economia mondiale è rimasta senza un re”, La Repubblica, 12/08/2002.

11 Sul tema vedi Arriola, J., Vasapollo, L., op.cit., pp. 25-30 e pp. 127-131.

12 Tra le più recenti ricordiamo le crisi verificatesi in Messico (1994), Sud-est asiatico (1997), Russia (1998), Brasile (1999) e Argentina (2002).

13 A tal riguardo vedi Arriola, J., Vasapollo, L., op.cit., tabella pp. 20-22.

14 Working Group: Alternative Economic Policy for Europe (European Memorandum-Group). Our fifth critique on neoliberal hegemony in Europe: Memorandum 2002: Better Institutions, Rules and Tools for Full Employment and Social Welfare in Europe. Disponibile sul sito: http://www.memo-europe.uni-bremen.de/euromemo/indexmem.htm

15 http://www.memo-europe.uni-bremen.de/euromemo/Euromemo_Short_Final_Version_2002.pdf

16 A differenza della Federal Reserve (la quale suggerisce le linee guida per lo sviluppo economico del paese attraverso i Summary of Commentary on Current Economic Conditions by Federal Reserve District, o ‘Libri Beige’, che otto volte all’anno vengono inoltrati al Congresso) la BCE non è tenuta a partecipare attivamente all’elaborazione delle politiche economiche dell’UE.

17 Correggendo parzialmente quanto scritto in precedenza sarebbe forse più corretto parlare di capitalismo “ultra-regolato”: il mercato globale infatti non è libero, ma regolato da precise misure economico-politiche protezionistiche imposte dagli stati più potenti attraverso le istituzioni sovranazionali che sostengono il grande disegno neoliberista. Lo stesso PSC non è certamente un prodotto del libero mercato, ma il risultato di uno specifico progetto politico.

18 Marco Nesci, “Redistribuzione alla rovescia”, Liberazione, 21/08/2002.

19 Il testo della proposta è disponibile sul sito: http://europa.eu.int/eur-lex/it/com/pdf/2004/com2004_0002it02.pdf

20 Butler, J., Vite Precarie, Meltemi, Roma, 2004.

21 La quarta fase della globalizzazione, quella attualmente in corso, ha avuto inizio nell’ ottobre 2001, data d’inizio della guerra in Afghanistan.

22 Ci si permetta di sollevare dubbi sul carattere “umanitario” della partecipazione dell’Italia alle guerre nei Balcani. In accordo con Arriola e Vasapollo è più ragionevole supporre che essa sia piuttosto legata a interessi regionali in settori specifici quali, per esempio, lo sviluppo delle reti di trasporto paneuropee (op. cit. p.85).

23 Arriola, J., Vasapollo, L., op.cit. p.115.

24 Blair, T., Schroeder, G., Europe: The Third Way - die Neue Mitte, Labour Party and SPD, London, 1999.

25 Giddens, A., The Third Way and its Critics, Polity Press, Cambridge, 2000, p.6 (traduzione e corsivo miei).

26 Matthew Tempest, “Mandelson: we are all Thatcherites now”, The Guardian, 10/06/2002. Edizione on-line disponibile sul sito: http://politics.guardian.co.uk/labour/story/0,9061,730718,00.html. (traduzione mia).

27 Ibid.

28 Data in cui, durante il summit di Praga, venne ufficialmente sciolto il Patto di Varsavia.

29 Le cifre dimostrano come tale progetto sia stato, in gran parte, realizzato. Come riportato da Umut Erel e Steve Jeffreys nella loro analisi sulle politiche migratorie nel regno Unito: “Secondo le stime della LFS [Labour Force Survey - Indagine sulla Forza Lavoro] dell’autunno 2001, essi [i sindacati] contavano 7,6 milioni di aderenti, ossia solo il 29,1% di tutti gli occupati del Regno Unito contro il picco superiore al 50% registrato nel 1979, prima che iniziasse l’era Thatcher”. Erel, U., Jefferys, S., “Immigrati” e “minoranze etniche” in Gran Bretagna: tra razzismo e “pari opportunità””, in Immigrati in Europa. Disuguaglianze, razzismo, lotte, Basso, P., Perocco, F. (a cura di), Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 270-271.

30 Poverty and Social Exclusion In Europe, disponibile sul sito: http://www.eu-datashop.de/service/EN/infos/sta_kurz/thema3/stat_k_3.htm

31 A tal proposito vedi la dettagliatissima Parte seconda de La Dolce Maschera dell’Europa. Arriola, J., Vasapollo, L., op.cit., pp. 47-105.

32 Hardin, H., The Privatization Putsch, Institution for Research on Public Policy, Halifax, Canada, 1989, p.2, citato in: King, L., “Shock Privatization: The Effects of Rapid Large Scale Privatization on Enterprise Restructuring”, in Politics and Society, Volume 31, n.1, March 2003, Sage Publications, London, p.23.

33 Soros, G., Globalizzazione, Ponte alle Grazie, Milano, 2002, p.139.

34 Sen, A., Lo Sviluppo è Libertà, Mondadori, Milano, 2000.

35 La letteratura sulla criminalizzazione e l’internamento del proletariato nelle fasi di espansione del capitale è vastissima. Un testo relativamente recente che ben illustra le dinamiche di incarcerazione delle classi subalterne nell’Occidente globalizzato è: Wacquant, L., Parola d’ordine: tolleranza zero, Feltrinelli, Milano, 2000.