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Bertolini Giorgio
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Globalizzazione e sottosviluppo

Bertolini Giorgio

Una interpretazione della teoria keynesiana della crescita alla luce della delocalizzazione produttiva: le dinamiche dei consumi e dell’occupazione

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La produzione delocalizzata dei beni che si consumano nel paese riduce la domanda globale keynesiana, se non è compensata da un livello di esportazioni proporzionale ai beni importati, consumati e prodotti altrove. Infatti, si riduce la occupazione interna e si riduce il livello del consumo. Anche se ipotizziamo che tutti i profitti della produzione nel terzo mondo vengano reimportati nello stesso paese in cui viene venduta la merce, quei profitti, come tali, non si trasformano tutti in investimenti, a causa del tasso di risparmio dei capitalisti, più alto di quello dei lavoratori, e ne consegue che il contributo di tali capitali alla domanda e alla sua crescita è minore del volume di salari aggiuntivi che la produzione interna - sebbene a meno profitti - realizzerebbe. Quindi l’investimento dei profitti nel terzo mondo, anche se multinazionalizzati e tanto più se multinazionalizzati, riduce progressivamente la domanda e non l’accresce. Se i profitti rimanessero nel paese del terzo mondo contribuirebbero allo sviluppo dell’investimento autoctono e aumenterebbero la quota dei salari sulla domanda interna e quindi, in via indiretta grazie agli scambi internazionali, la domanda di paesi del primo mondo e si realizzerebbe tendenzialmente un equilibrio dello sviluppo della domanda; è il caso dello sviluppo cinese rispetto a quello messicano: mentre la domanda mondiale cinese sale quella messicana cala per l’esportazione dei profitti in grande e illimitata quantità al centro del sistema capitalista. Il decentramento produttivo delle multinazionali, con riesportazione del profitto, è quindi un vincolo alla domanda globale e ne determina tendenzialmente la diminuzione nell’ottica keynesiana. Lo sviluppo degli investimenti nel paese del terzo mondo con la reimportazione ciclica dei profitti ha lo stesso effetto di riduzione della domanda al centro a causa del tasso di risparmio - propensione al risparmio - dei capitalisti rispetto al lavoro salariato. Nei paesi delle periferie la carenza dei profitti riduce la formazione del capitale e limita l’investimento che autosostiene lo sviluppo, rendendo il sistema produttivo ancorato soltanto ai capitali stranieri. Gli unici paesi del terzo mondo che si sono sviluppati significativamente sono stati quelli nei quali si è formato un capitale interno sufficiente a permettere l’investimento nazionale di capitalisti nazionali o di imprese statali, mentre non ci sono esempi di sviluppo gestito fino alla sua sostenibilità da capitali transnazionali. L’effetto di un tale processo sui paesi del centro è la discesa progressiva del tasso di crescita, discesa che si è accentuata nei decenni successivi al 1980 unitamente alla progressiva riduzione del salario reale e alla precarizzazione del lavoro, ovvero alla incertezza dei flussi di reddito detenuti in quelle condizioni di marginalità: necessariamente anche la quota dei salari rispetto al reddito totale è in diminuzione (l’Italia è all’avanguardia in questa diminuzione, perdendo ben 8,5 punti negli ultimi 20 anni pari al 20% del peso dei salari nell’economia italiana)1. Tale verifica costituisce anche una ripresa della validità e del funzionamento della teoria Keynesiana della domanda e della accumulazione, come pure della reale rilevanza del coefficiente di moltiplicazione e della teoria della propensione al risparmio. Se pure l’ipotesi prospettata è quella più estrema, nella quale vi è perfetta mobilità dei capitali sia nell’investimento sia nell’ipotesi del loro rientro insieme ai relativi profitti, tuttavia tutte le ipotesi intermedie di questa totale apertura non modificano, se non in negativo, lo sviluppo della curva di domanda nelle economie del centro, poiché la vischiosità del rientro di capitali riduce anche la quota del risparmio sulla quale dovrà essere calcolata la “propensione” dei capitalisti all’investimento coniugata al tasso di interesse del danaro delle banche centrali e al suo invito (calo) o limite (aumento) all’investimento stesso. Un’altra ipotesi collegata alla prima schematizzazione estrema è quella che il capitale disinvestito o i profitti tutti recuperati siano nuovamente reinvestiti nei paesi del centro per permettere il funzionamento del moltiplicatore dell’occupazione e del consumo. Ma se tali profitti in una quota da y al totale sono reinvestiti in altri paesi della periferia ne consegue una riduzione dell’investimento nel centro e quindi - quale che sia la dinamica della propensione al risparmio - una riduzione del contributo all’occupazione e quindi alla domanda aggregata. Si ipotizza tuttavia che la scissione fra lavoro e consumi sia sufficiente a mantenere il moltiplicatore della domanda, poiché il moltiplicatore si basa sui consumi. In realtà i presupposti keynesiani sono due ed entrambi riscontrano la presenza di salari e redditi da lavoro al centro e non nella periferia. La prima condizione è la presenza di piena occupazione che costituisce il presupposto dello sviluppo e della domanda effettiva: “Quando esiste disoccupazione involontaria, la disutilità marginale del lavoro è necessariamente inferiore all’utilità del prodotto marginale; e di fatto può essere assai inferiore”2. La presenza di disoccupazione dovuta al decentramento produttivo è quindi fonte di riduzione della domanda. Inoltre è importante il livello della retribuzione e il livello generale dei salari. Se la decentralizzazione della produzione, come è pacifico, può interessare tutta la produzione ed i servizi, inclusi quelli di progettazione, la riduzione della massa monetaria dei salari e stipendi equivale, nella tesi del monte-salari, ad una riduzione della occupazione ed ha gli stessi effetti della disoccupazione. Si può parlare di sotto-occupazione o di disoccupazione nascosta ma questo conferma la tendenziale riduzione della percentuale di consumi e quindi del contributo dei salari alla crescita della domanda effettiva. Rimangono soltanto le misure di supporto ai salari e alla domanda, misure che sono affidate alle singole decisioni nazionali. L’assenza di capitali interni ed il calo del tasso di risparmio interno sono altri effetti della riduzione della domanda e del peso dei salari sul coefficiente di moltiplicazione del reddito. D’altra parte nella prospettazione di Keynes “l’aumentata occupazione per investimento deve necessariamente stimolare le attività che producono per il consumo e deve quindi suscitare un aumento totale dell’occupazione”3, e la produzione dei beni di consumo invece sfugge per una quota oggi determinante (circa il 50%) al centro capitalista e non determina sviluppo occupazionale, ma soltanto lo sviluppo della occupazione correlata relativa alla distribuzione e ai servizi alla vendita, occupazione che è proporzionalmente ridotta rispetto a quella di produzione e non determina uno sviluppo proporzionale del monte salari dell’economia. Secondo Chossudovsky la suddivisione del superprofitto realizzato dalla produzione transnazionale è tripartita: “1) l’utile commerciale ai distributori internazionali, grossisti e dettaglianti, compresi i proprietari dei centri commerciali ecc. (cioè la fetta più grossa del margine di profitto lordo); 2) i costi effettivi di circolazione (trasporto, magazzinaggio, ecc.); 3) i diritti doganali esatti sulla merce all’ingresso sui mercati dei paesi industrializzati, e imposte indirette (iva) esatte presso il punto di vendita al dettaglio... gran parte della eccedenza creatasi ...viene sottratta sotto forma di pagamenti di noleggio ed interesse da parte di potenti società commerciali, immobiliari e bancarie”4. In realtà se le imposte, in quanto proporzionali al prezzo monetario, sono proporzionalmente ridotte rispetto alle produzioni interne, i costi effettivi di circolazione e distribuzione sono soggetti alla concorrenza interna e rimangono soggetti al tasso di profitto interno e sono vincolati alla riduzione dei costi e dei salari mentre il settore della distribuzione funzionalizza i servizi senza aumentare in modo significativo l’occupazione e senza compensare le perdite subite dal settore della produzione interna. Anche in questo caso i profitti sono quelli medi del centro soggetti alla concorrenza nella distribuzione laddove i distributori non possono controllare la produzione nei paesi della periferia: il super - profitto non è quindi “equamente” suddiviso fra i distributori e i settori dei servizi della distribuzione ma è appropriato dai detentori di capitale e dalle banche. In definitiva il livello di consumo è mantenibile solo alla condizione di tendenziale deflazione dei prezzi, con stabilità o proporzionale riduzione dei salari monetari (salari e beni per le medesime quantità di occupati) e con la conseguenza ulteriore di delocalizzazione della produzione comunque al di fuori dei paesi del centro. Le leggi sulla flessibilità della manodopera non servono a ridurre la disoccupazione ma soprattutto a ridurre progressivamente il monte - salari dell’economia riducendo il salario medio di ciascun settore e riducendo i costi della produzione nazionale salvo mettere in moto il già citato meccanismo di riduzione della domanda aggregata. Keynes sostiene che “Una volta raggiunta l’occupazione piena, qualsiasi tentativo inteso ad accrescere l’investimento porrà in essere una tendenza all’aumento illimitato dei prezzi in moneta, indipendentemente dalla propensione marginale al consumo; sarà così raggiunto uno stato di inflazione vero e proprio”.5 Questa ipotesi si scontra con lo stato attuale, nel quale la piena occupazione (e il calo a 1% del tasso di interesse) non hanno determinato inflazione. Questa è la conseguenza del fatto che la piena occupazione per un monte - salari ridotto corrisponde ad una “sotto - occupazione” che riduce la domanda aggregata per il calo della propensione al consumo, nelle stesse condizioni di una disoccupazione nascosta o palese. Anche il fattore dell’investimento è paralizzato nell’economia del centro e l’investimento nel centro ha tassi di crescita relativamente modesti e calanti in presenza e rispetto allo stesso tasso di crescita: è la stessa struttura della economia americana che lo conferma con i consumi ormai pari all’80% del PNL e in crescita rispetto agli investimenti. Keynes è comunque consapevole dello sviluppo della domanda aggregata in una economia aperta agli scambi quale quella attuale: “In un sistema aperto alle relazioni commerciali con l’estero, una certa parte del moltiplicatore dell’accresciuto accrescimento andrà a vantaggio dell’occupazione in paesi esteri, poiché una parte del maggior consumo interessa il saldo attivo della bilancia commerciale del proprio paese; così che, se si considera soltanto l’effetto dell’occupazione del proprio paese distinta dall’occupazione mondiale, si dovrà diminuire il valore pieno del moltiplicatore”.6 L’ipotesi di Keynes è quella di un recupero del moltiplicatore tramite la domanda aggiuntiva del paese straniero esportatore che è a sua volta importatore. Keynes non sviluppa il problema ma evidenzia soltanto le “tracce” degli effetti del moltiplicatore estero grazie ai salari ed agli investimenti del paese esportatore. Tuttavia occorre che tali salari e quegli investimenti si sostengano sul consumo interno al paese “estero” e producano nuovi investimenti sul paese estero: tali condizioni sono assenti nel caso della globalizzazione, perché la produzione nelle periferie è devoluta al mercato del centro e non sostiene alcun mercato interno. Gli investimenti nel paese periferico dominato dalla scelta di esportazione sul mercato mondiale alimenteranno la domanda di macchinari ed attrezzature prodotte dai paesi del centro mentre gli investimenti interni del paese periferico saranno lenti e limitati dal retaggio di arretratezza proprio di ciascun settore. In definitiva il “moltiplicatore” nel paese estero sarà proporzionalmente ridotto e incapace di compensare il calo - quantitativamente decisivo - subìto dalla domanda aggregata al centro. È il caso delle cosiddette “zone franche” assai diffuse in America Latina. Il livello dei salari in tali aree è talmente basso da risultare pari ai minimi legislativi del paese o ai minimi pagati nel settore privato e tale salario diviene sostitutivo di quello pagato dall’imprenditore locale perché, unitamente alla zona franca, la liberalizzazione economica del sistema “globalizzato” soffoca le produzioni locali e impone i beni prodotti dalle multinazionali del centro e i loro prezzi mondiali. L’effetto è una riduzione della domanda e non il suo aumento e l’occupazione viene solo trasferita dai produttori nazionali alle zone franche con la conseguente stagnazione dei salari o addirittura il calo del monte-salari a causa dell’esercito industriale di riserva prodotto della distruzione dell’economia locale dopo la liberalizzazione economica. Analoghe considerazioni valgono per le produzioni in loco in un paese globalizzato e senza il controllo sul proprio mercato interno. Gli studi più recenti degli economisti della Banca Mondiale non fanno che confermare questa tesi. Innanzitutto hanno sottolineato che “la liberalizzazione degli scambi provoca una diminuzione dei salari nel breve periodo, mentre gli IDE ne determinano un aumento”.7 Addirittura viene specificato che la diminuzione è un fenomeno che è superato dopo almeno quattro anni di apertura agli scambi internazionali. Non solo, ma: “la liberalizzazione degli scambi può determinare una perdita in termini di minore salario per i lavoratori dei settori protetti”8, intendendosi quei tipici lavoratori del settore cosiddetto “formale” dell’occupazione nazionale nella periferia sul quale era basato lo sviluppo della classe media urbana e del mercato interno. Così pure la produzione nelle cosiddette “maquiladoras” comporta una riduzione dei salari relativi di questi addetti rispetto ai salari medi dell’economia, a conferma della pressione sui salari determinata dalla apertura al mercato internazionale e agli investimenti transnazionali e dalla persistenza del basso livello complessivo di produttività del paese periferico. L’aumento della concorrenza nei mercati dei prodotti “potrebbe ridurre le opportunità di fissare i salari (leggi salario minimo di legge) e discriminare le donne per i datori di lavoro”9, comportando una riduzione generalizzata dei salari e una costante pressione alla loro riduzione reale o addirittura monetaria. Se i salari sono destinati a diminuire nella fase di globalizzazione pure non se ne giova il livello complessivo di occupazione. Per la Banca Mondiale in tutti i paesi esaminati l’occupazione è calata e si accompagna ad un elevato turnover che certo riduce la formazione professionale e la capacità produttiva dei lavoratori. Inoltre è cambiata la struttura della occupazione: l’occupazione temporanea è balzata in Messico del 20% in sei anni! Così pure in Uruguay ed in Messico il calo dell’occupazione si è accompagnato a bassi salari, e solo la rivendicazione salariale sindacale ha contenuto le riduzioni ingenti. Non aumenta l’occupazione e non si riduce la disoccupazione che “in diversi paesi... è rimasta costantemente elevata per diversi anni dopo l’avvio delle riforme economiche”10, o addirittura, in America Latina, in venti anni di esposizione al commercio estero ha registrato “solo una lieve tendenza al rialzo”11. La conseguente riduzione della massa salariale e dei consumi comporta un contributo stazionario quando non calante alla domanda aggregata e al tasso del moltiplicatore, con la conseguenza che tale processo non rappresenta quella misura compensativa che era stata ipotizzata da Keynes nella Teoria Generale, quando voleva estendere la sua teoria al di là di una economia chiusa. La conseguente riduzione degli investimenti, dovuta al mancato sviluppo del settore dei beni di consumo, colpisce lo sviluppo dell’economia periferica e liberalizzata e già aggrava anche dal lato della riduzione della domanda interna l’effetto di riduzione delle dimensioni delle imprese “nazionali” ad opera dei produttori di beni di consumo transnazionali: i lavoratori delle periferie lavorano per meno salario e con più difficoltà di occupazione e consumano beni importati riducendo il lavoro complessivo del paese e riducendo tendenzialmente i salari con la riduzione delle strutture produttive rivolte al mercato interno e con decelerazione tendenziale dello sviluppo. D’altra parte l’ipotesi di Keynes circa il contributo autonomo alla domanda aggregata dell’investimento tout court, preso a sé stante rispetto al consumo in cui si realizza l’effetto produttivo dell’investimento, è viziata da una premessa ormai debole. Come sostiene Orati “è la fede che il settore degli investimenti sia autonomo o indipendente dal corso del settore dei beni di consumo”.12 I capitalisti del settore dei beni di investimento possono soltanto realizzare attraverso il mercato la loro offerta di prodotto: “Infatti il settore dei beni di investimento è strettamente legato a quello dei beni di consumo attraverso i segnali che questo produce, attraverso i beni di investimento utilizzati dal settore dei beni di consumo: quando il settore dei beni di consumo declina per la caduta della relativa domanda allora la domanda di mezzi di produzione necessari a produrre beni di consumo cala, e questo, grazie ad un effetto a catena, trasmetterà questa caduta alla sezione dei beni di investimento che produce questi ultimi, e così via”13. Sono le dinamiche del consumo che influenzano e determinano lo sviluppo ed il tasso dell’investimento/risparmio e quindi la domanda aggregata. A monte è la dinamica dei salari reali e di quelli monetari che condiziona il consumo e mette in moto la relazione economica diretta. Da questa acquisizione concettuale Keynes ha dedotto la priorità dell’obbiettivo della piena occupazione alla quale egli associa l’aumento del salario reale. Non è quindi sufficiente la curva dell’andamento dei profitti poiché anche la distribuzione dei redditi è essenziale allo sviluppo della domanda aggregata. Se i profitti crescono ad un saggio maggiore a quello della crescita del reddito (come appare probabile nelle ipotesi di investimento all’estero e reimportazione totale dei profitti senza aumento del consumo indotto interno) verrebbe meno l’equilibrio rispetto alle componenti della domanda, con conseguente riduzione della quota del consumo e si determinerebbe un eccesso di risparmio, ovvero una carenza della domanda effettiva che, riducendo la crescita rispetto al tasso possibile, originerebbe una condizione di ristagno o depressione permanente nell’intera economia: ciò è esattamente quanto accade nei paesi del centro dall’inizio degli anni ’90 con la sola e particolare eccezione degli USA. Se la quota dei salari scende al di sotto del livello necessario a garantire che la domanda effettiva cresca quanto la capacità produttiva, si origina lo squilibrio progressivo degli investimenti, il blocco delle possibilità di realizzo (o profitto interno) e quindi la riduzione o la cessazione ed il calo temporaneo degli investimenti. Per lo sviluppo e la crescita, nell’ipotesi Keynesiana e post-keynesiana, salari produttività e profitti debbono crescere insieme, mantenendo una proporzione costante rispetto al tasso naturale keynesiano di crescita a pena della stagnazione. Il basso tasso di impiego degli impianti è l’effetto della sproporzione fra investimenti e consumi e la traccia della prossima riduzione degli investimenti e permane come e quanto persiste la stagnazione della crescita. Alvin Hansen sostiene che “il volume degli investimenti ‘netti’ è indipendente dal livello del consumo e del risparmio” perché “gli sbocchi dell’investimento sono originati dal progresso tecnico e, fino ad un certo punto, da una politica monetaria che si ponga l’obiettivo di abbassare il tasso di interesse”14. Tuttavia sia la scelta dell’investimento grazie al progresso tecnico che il livello del tasso di interesse sono determinati dalle domande di beni capitali per la produzione di beni o servizi di consumo, quindi per la realizzazione finale sul mercato di consumo del prodotto dell’investimento stesso: il blocco o il calo degli investimenti non ha nulla a che fare con l’andamento del progresso tecnico. La visione di Hansen è perciò quella relativa alla sola funzione dell’investimento e ai fondamenti delle sue dinamiche presupposte: la domanda aggregata o effettiva sufficiente a determinare la necessità di investimenti netti. Data l’esistenza della domanda di beni capitali per la produzione di beni di consumo, tale domanda sarà caratterizzata dal livello del progresso tecnico e influenzata, nella sostituzione degli impianti, dal livello del tasso di interesse, livello che deve essere sufficientemente basso da spingere all’alternativa di investire nella produzione in base al profitto atteso comparato al tasso di interesse. Lo stesso Hansen ci ricorda che un tasso di interesse basso in senso assoluto non stimola l’investimento perché è soltanto il risultato della già intervenuta recessione o stasi della domanda e del reddito. Un contributo determinante alla comprensione del processo di indebolimento della domanda effettiva e della tendenza al ristagno della economia capitalista moderna è quello di Joan Robinson. Non a caso lo schema del sistema a due settori (beni di consumo e beni di produzione) e la riduzione (marxiana) dei costi ai costi-salario impone, secondo l’acquisizione post-keynesiana, una ripartizione, e solo quella, fra salari e profitti quale precondizione perché il saggio di accumulazione si mantenga costante e per evitare che una riduzione dell’investimento o una riduzione dei consumi possano rallentare o fermare la crescita. Se il profitto compreso nel prezzo dei beni di consumo si aggiunge al salario, è questa aggiunta che permette l’occupazione nei settori della produzione di beni di investimento, perché “se quell’eccedenza non sussistesse nessuno potrebbe essere occupato nel settore dei beni capitali”15. Il rapporto fra prezzo dei beni di consumo e salario è “ciò che si definisce margine di profitto”16. Se aumenta, con l’investimento, il settore dei beni capitali o di produzione ne aumenta anche l’occupazione e questo causerà un aumento del prezzo dei beni di consumo se per questi non si espande la produzione. Aumenterà, con il prezzo, anche il profitto che è quella eccedenza sui salari del settore di beni di consumo e quindi ad un aumento della accumulazione aumenterà il saggio di profitto. L’aumento dei beni capitali e il tasso di accumulazione incontrano il loro limite nello sviluppo dei beni di consumo, ovvero nella occupazione di tale settore, e nel monte-salario complessivo. Tale monte-salario può tuttavia svincolarsi dalla produzione dei beni di consumo se gli stessi sono reperiti a “prezzi” (già prodotti) relativamente calanti, alla stregua di una maggiore produttività o produzione interna. Tuttavia anche in tale caso il monte-salari è calante sotto la pressione del diverso (e maggiore) ammontare dei beni di produzione e quindi di salari da pagarsi in quel settore. Se il monte-salari (il consumo) è sproporzionato rispetto al profitto il suo contributo allo sviluppo del capitale è ridotto e calante, riducendo la domanda di beni di consumo e quindi l’accumulazione di capitali per la loro produzione: la conseguenza è la riduzione dello sviluppo quando non la recessione. Se consideriamo poi il diverso tasso di risparmio rispetto al consumo fra capitalisti e salariati ne esce che la riduzione del monte-salari aumenta la propensione marginale al risparmio totale dei due soggetti e quindi riduce ulteriormente la domanda aggregata e l’efficacia del moltiplicatore. Occorre perciò che, dato un saggio “naturale”di sviluppo, corrispondente alla possibilità di crescita di acceleratore e moltiplicatore, la distribuzione deve rimanere invariata: “ossia salari e profitti debbono aumentare alla stessa velocità del reddito (pari alla produttività) affinché non si verifichino squilibri dal lato della domanda”17. “Se in base al loro maggior potere di mercato i capitalisti decidessero di innalzare i prezzi e i margini di profitto nel tentativo di appropriarsi di una quota più ampia del reddito, la domanda diverrebbe insufficiente e il tasso di accumulazione cadrebbe al di sotto del saggio naturale. La conclusione che se ne trae è che il limite posto al saggio di incremento della ricchezza, nel lungo periodo, è rappresentato non da barriere tecniche, ma dall’inerzia che sopravviene quando viene meno lo stimolo della concorrenza e di saggi salariali crescenti”18. In filigrana, se il modello di sviluppo equilibrato della J. Robinson lo estendiamo ad una economia mondiale e non più ad una economia singola e chiusa scopriremo che il capitale rifugge proprio da quell’equilibrio e lotta per romperlo al fine di aumentare le quote dei profitti rispetto ai salari. Tuttavia non potendolo (e non sempre potendolo) fare nell’economia chiusa che si presume “matura” e sviluppata (ricca) del centro, spezza la relazione fra salari e profitti a livello “nazionale” di economia chiusa e la proietta nel rapporto con la periferia di produzione. Produce nei paesi aperti ai capitali e al mercato internazionale puntando a profitti tali e crescenti da deprimere quella eventuale domanda interna locale, che non considera minimamente perché non è quello il luogo di “realizzazione” sul mercato dei beni di consumo della sua rinnovata accumulazione e non si interroga se il monte-salari del centro sostenga l’accumulazione attraverso il consumo dei beni prodotti nella periferia. Nella sua convinzione sembrerebbe così realizzato e risolto il dilemma del rapporto tra profitti e salario. Tuttavia non è così poiché la produzione altrove (ed i profitti altrove) riducono il monte-salari relativo (e poi assoluto) del centro e mettono in pericolo lo sviluppo della stessa accumulazione globale. La domanda aggregata nel centro è quindi ridotta dallo squilibrio incipiente tra salari e profitti che aumenta la propensione marginale al risparmio del volume di domanda potenziale e riduce lo sviluppo dei beni di produzione sia nel centro che nella periferia di produzione. Si ripresenta così l’effetto depressivo della sproporzione fra salari e profitti nella dimensione internazionale e le stesse condizioni del rapporto fra produzione e consumo impediscono l’effetto compensativo dello sviluppo della domanda nei paesi periferici di produzione. Solo il sostegno alla domanda delle autorità pubbliche sia nel centro che nella periferia permettono il mantenimento della crescita, laddove nei paesi periferici la carenza di risparmio è reale ostacolo al sostegno della domanda di parte pubblica poiché impone allo stato nazionale di ridurre i redditi con le imposizioni fiscali e riduce il contributo alla domanda da parte dei consumi con un processo perverso e autoriproducentesi. La concorrenza interna fra paesi del centro poi rivela i paesi capaci di reagire alla riduzione del monte-salari meglio e prima di altri e quelli già subordinati/relegati ad accettare senza reagire alla riduzione del loro livello di domanda aggregata. D’altra parte, come sottolinea la Robinson “Un flusso di output non può essere venduto a prezzi che eccedano il suo costo di produzione, in modo da generare profitti, a meno che non ci sia un flusso di reddito spendibile nel suo acquisto che escluda quello derivante dal suo stesso costo.19 Tutto rimanda perciò al monte-salari (e alle spese di consumo dei capitalisti) del centro e la sua riduzione assoluta o percentuale determina la perdita dell’equilibrio che sostiene il tasso di accumulazione ed innesca il ristagno o la recessione vera e propria. “Quanto precede illustra un paradosso fondamentale del capitalismo. Ciascun imprenditore guadagna individualmente da un bene salario reale in termini del suo proprio prodotto, ma tutti sono danneggiati dal fatto che un basso saggio di salari restringe il mercato”20. È proprio il tentativo di sfuggire al paradosso del capitalismo quello percorso dalla “globalizzazione” della produzione. Il capitalista-produttore guadagna attraverso il basso salario nominale, calcolato sui livelli del centro capitalistico, del lavoratore della periferia e realizza la sua produzione attraverso il consumo del centro determinato dall’alto livello del salario nominale. Il consumatore del centro è “l’unico consumatore” che deve soddisfare i requisiti dell’accumulazione, e cioè realizza i profitti attraverso il livello del prezzo dei beni di consumo. Con quel profitto mantiene il tasso di investimento e quello di accumulazione nella sede periferica di produzione. Il basso salario nominale della periferia è perciò un dato rigido, non modificabile che deve rimanere tale per permettere che si mantenga la realizzazione delle merci nel centro anche se il monte-salari del centro è cedevole, in diminuzione e fonte della disoccupazione e dalla sotto-occupazione come pure della riduzione delle occupazioni produttive a favore di settori meno produttivi e a minor valore aggiunto, quindi capaci di livelli inferiori di salario. È il prezzo dei beni di consumo del centro che contiene sia il profitto che i salari dei lavoratori del centro e di quelli della periferia tutti calcolati al loro prezzo nominale, prescindendo dal salario reale di ciascuno dei due luoghi fisico/economici in cui i salari sono distribuiti. Il capitalista-imprenditore tenta così di sfuggire al paradosso del capitalismo sul problema della realizzazione come pure al problema dello sviluppo equilibrato rispetto al tasso di accumulazione sia del consumo che dell’investimento. La diminuzione del monte-salari determinato dalla riduzione della occupazione, a causa della concorrenza dei produttori della periferia non compensata da servizi realizzati nel centro a favore di tali produttori e da uno sviluppo ulteriore anche del settore dei beni di produzione per tali opere delocalizzate, comporta una riduzione del livello di consumo dei beni con prezzo stabile e crescente e costringe i produttori transnazionali a ridurre i prezzi del livello sufficiente a permettere il consumo, sul mercato del centro, delle quantità necessarie a mantenere il livello della produzione esterna e a permettere una profittabilità media. L’obiettivo nei paesi del centro, può essere raggiunto prescindendo dagli investimenti pubblici di sostegno al consumo, solo riducendo il tasso di profitto o riducendo i costi sia alla produzione che in tutti i settori di gestione e trasporto del prodotto al consumo. Una riduzione del costo alla produzione, di minore efficacia quanto più è già limitato il costo di produzione monetario dei beni, richiede nuovi produttori a salari più bassi e a costi correnti, stabili o calanti: è per questo che i produttori transnazionali Usa si spostano dal Messico all’Asia. Tale riduzione dei costi è comunque foriera di una ulteriore riduzione della domanda aggregata nei paesi periferici di produzione e ne riduce lo sviluppo, tanto più se il settore transnazionale votato alle esportazioni è una parte importante o prevalente della economia del paese periferico21. Nella ipotesi - che può del resto concorrere con quella di riduzione dei costi in periferia - di riduzione dei costi del centro, il calo del salario e del numero degli occupati nei servizi connessi alla distribuzione dei prodotti riduce ulteriormente il monte-salari complessivo e quindi la domanda richiamando il paradosso capitalistico dalla Robinson citato. Si innesca perciò una riduzione progressiva della domanda aggregata che provoca il ristagno della produzione e della accumulazione sia al centro che nella periferia, danneggiando in un colpo solo l’intera economia mondiale tanto più essa è “globalizzata” e rivolta all’esportazione verso i soli paesi del centro. Se queste sono le tendenze determinate dalla “globalizzazione”, la conseguenza è la cosiddetta “tensione deflazionistica” dei prezzi che si rafforza man mano cresce il volume totale dei prodotti realizzati in un quadro globalizzato. L’ulteriore effetto di riduzione della propensione al consumo determinata dal processo deflazionistico non fa che aggravare un processo innescato dallo stesso progetto di transnazionalizzazione accelerata della produzione per il consumo al centro del sistema e a prezzi remunerativi solo per il livello salariale e di consumo del centro stesso. La deflazione è perciò il sintomo e la conseguenza del calo della domanda aggregata, resa possibile dal prezzo nominale dei beni di consumo per i salari del centro e grazie ai mezzi di produzione della periferia: in questa fase il reddito lordo si allontana dal suo livello potenziale, cioè dal livello raggiungibile con il pieno impiego delle risorse produttive esistenti e si determina il gap deflazionistico che rivela la decelerazione della crescita quando non la stagnazione. Al contrario la nascita del gap e la riduzione del reddito e dei prezzi è la conferma della riduzione della domanda aggregata e quindi della difficoltà del consumo rispetto a quella dell’investimento che, al contrario, comporta un aumento dei prezzi e non una loro diminuzione monetaria per poter permettere lo sviluppo del risparmio necessario all’investimento. Il contraltare delle ipotesi di sviluppo indotte dal controllo delle varianti finanziarie del sistema economico è lo stato dei paesi cosiddetti “liberati” e nei quali la “libertà” dei capitali e dei flussi di beni e servizi è mantenuta assoluta dal controllo politico sulle economie periferiche. La premessa di tale analisi è quella che determina il livello teorico necessitato dei salari in una economia esportatrice alle economie del “centro” capitalistico. Se l’economia esportatrice non risolve il suo ritardo tecnologico e si limita alla sola produzione “maquiladora” di montaggio e assemblaggio di tecnologia proveniente (come i semilavorati necessari) dal centro, lo sviluppo del mercato interno comporta un aumento delle importazioni e l’aumento dei salari, qualora ci fosse, svolgerebbe una funzione inflazionistica: “Quanto più peso riveste il mercato estero nella domanda effettiva di prodotto dell’economia locale, più probabile sarà che i salari interni si trovino a raggiungere un livello inflazionario”22, ovvero cresceranno al livello nominale ad un ritmo superiore alla produttività. Man mano che cresce la dipendenza dalle esportazioni il rilievo inflazionistico dei salari si espanderà e la necessità di limitare lo sviluppo inflazionistico porterà i governi a ridurre la crescita dei salari, addirittura nel livello nominale. Questo si rende necessario “per stabilizzare il livello interno dei prezzi ed il tipo di cambio”23. Il pericolo costante dell’inflazione, determinato dallo stesso tipo di sviluppo accelerato di internazionalizzazione della economia, costringe proprio a quel controllo costante dei salari - deprimendo il mercato interno - che caratterizza la produzione internazionalizzata e globalizzata. Poiché la inflazione riduce il salario reale e la domanda effettiva come pure la occupazione, e la produzione media per addetto crescerà come crescerà il tasso di profitto, la distribuzione monetaria si modificherà a favore dei profitti. Al contrario, poiché le imprese contrattano lavoro quanto più economico questo sia offerto, solo in quei paesi nei quali può essere controllato o ridotto il salario reale sarà possibile una espansione della occupazione rivolta alla esportazione verso il “centro”: “Questo è stato il caso di quelle economie che sono state orientate durante gli ultimi trenta o quarant’anni proprio allo sviluppo delle ‘maquiladores’ come settore di punta della propria attività produttiva”24 ovvero si sono incentrati sulle zone speciali o franche nelle quali la contrattazione del salario è inesistente. “Per mantenere la loro competitività e la loro capacità di attrazione sulle imprese mondiali, operano con salari sistematicamente ridotti. Posto che i consumi che settori di questo tipo comprano da altri paesi si quotano a prezzi internazionali e che cercano di mantenere il loro tasso di profitto a livelli internazionalmente attraenti, impiegano la unica fonte disponibile nella economia interna per abbattere i costi e i salari. Queste economie, invece di avere ridotto o superato la loro dipendenza tecnologica, la hanno aggravata provocando con ciò una necessità sempre maggiore di mantenere salari bassi per conservare i livelli di occupazione e la competitività internazionale”25. Infatti un aumento dei salari determinerebbe la “fuga” di quei produttori verso paesi nei quali il livello generale dei salari è più basso. Inoltre la diminuzione dei salari paralizza la concentrazione delle entrate e innesca un processo di riproduzione della povertà indipendente dal livello di occupazione, riducendo la domanda effettiva interna e quindi le premesse dello sviluppo autonomo del paese e le stesse domande di beni produttivi verso i paesi del centro diversi ed ulteriori dai reali consumi necessari alle aziende volte alla esportazione che rafforzano il meccanismo perverso del controllo e compressione dei salari proprio delle condizioni di una economia sottosviluppata. Oltre a questo, la riproduzione della dipendenza tecnologica implica volumi di importazioni sempre più grandi che paralizzano la possibilità interna di occupazione per un effetto di sostituzione del lavoro con consumi importati. Una economia sottosviluppata dipendente dalle esportazioni è condannata a ridurre i suoi livelli di vita con concentrazione crescente delle entrate. Oltre a questo la possibilità di una crescita salariale, dati i presupposti già ricordati in una economia esportatrice della periferia, contrarrà il livello di attività e l’impiego provocando inflazione e incrementando allo stesso tempo le importazioni grazie all’effetto di sostituzione del lavoro con consumi importati. Inoltre provocherà il deficit della bilancia commerciale (proprio a causa dell’incremento delle importazioni) e contrarrà il consumo interno di prodotto nazionale. “L’espansione salariale sarà recessiva, inflazionaria, e riduttiva dei livelli medi di consumo”26 e per questo verrà costantemente combattuta dal governo interno alleato degli imprenditori stranieri. Perché il tasso dei profitti non potrà che essere corrispondente a quello atteso a livello internazionale, la dinamica dei fattori che emergono dalla produzione esportatrice è completa: beni intermedi di produzione importati dai paesi del “centro” a prezzi internazionali, tassi di profitto in termini internazionali da salvaguardare o incrementare e salari da contenere sia per salvaguardare i profitti sia per evitare gli effetti inflazionistici nel sistema produttivo nazionale interno. Il controllo dei salari nel paese periferico esportatore, in assenza del ruolo proprio dello stato nazionale volto al recupero del ritardo tecnologico e alla concentrazione di capitali per lo sviluppo di un mercato interno, deprime la domanda effettiva interna e mina lo sviluppo della economia nazionale volta al mercato interno. Una tale conseguenza è decisiva anche per la domanda dei paesi del “centro” capitalistico. Di fatto l’unica domanda di importazione del paese periferico è quella dei beni intermedi o di produzione necessari al settore esportatore, con la conseguenza che dal paese periferico non arriva alcun contributo alla domanda aggregata diverso o ulteriore rispetto a quello che avrebbero avuto i produttori del “centro” in caso di investimento diretto nel paese del centro. Al contrario, una parte dell’investimento nel paese produttore è comunque volta a beneficio della struttura interna del paese produttore ed è volta alla domanda di beni nazionali: quindi la quota investita di capitali che contribuisce alla domanda del paese di provenienza dei capitali e che sarà quello del consumo, sarà una parte di capitali sottratta alla domanda effettiva del paese del “centro”. La conseguenza è la tendenziale depressione del moltiplicatore keynesiano e la riduzione della crescita del prodotto anche nei paesi del “centro” oltre allo stato di sottosviluppo permanente nei paesi periferici integralmente liberalizzati.

Note

* Esperto problemi della globalizzazione.

1 Dal Bosco E., La leggenda della globalizzazione, pag. 81 e 105.

2 Keynes John M., Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta, pag. 288.

3 Keynes John M., op.cit. pag.278.

4 Chossudovsky Michel, La globalizzazione della povertà pag.89.

5 Keynes John M., op.cit. pagg. 278-279.

6 Ivi, pag. 280.

7 Collier P., Dollar D., Globalizzazione, crescita economica e povertà, pag.153.

8 Ivi, pag. 153.

9 Ivi, pag. 159.

10 Ivi, pag. 162.

11 Ibidem.

12 Orati Vittorangelo, Una Teoria della teoria economica, pag.124.

13 Ibidem.

14 Hansen Alvin H, Find policy, in Saltari Enrico, Keinesismo e crescita economica, pag.148.

15 Saltari Enrico, Keinesismo e crescita economica, op. cit., pag.307.

16 Ivi, pag.308.

17 Ivi, pag.309.

18 Ivi, pag.310.

19 Robinson Joan, Sviluppo e sottosviluppo, pag.37.

20 Robinson Joan in Saltari Enrico, op.cit. pag.366.

21 È il caso delle zone franche dominicane, alle quali la concorrenza Asiatica nel tessile ha determinato una forte riduzione dei costi e dei profitti: l’assemblaggio di un pantalone che costava fino al 1999 2,50 dollari ora costa 1,30 dollari e questo si riflette sui salari.

22 Noriega Urenia Fernando A., Macro economia para el desarollo, pag. 155.

23 Ivi, pag. 155.

24 Ivi, pag. 164.

25 Ivi, pag. 165.

26 Ivi, pag. 192.