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Per la critica del capitalismo

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Ricardo Antunes
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Professore Titolare di Sociologia, UNICAMP/Brasil. “Visiting Research Fellow”, Università del Sussex (Inghilterra) e autore di Os Sentidos do Trabalho (Boitempo Editorial) e Addio al Lavoro? (Biblioteca Franco Serrantini e pubblicato anche in Brasile, Spagna, Argentina, Venezuela e Colombia). È membro di redazione delle riviste Margem Esquerda (Brasil), Herramienta (Argentina), Latin American Perspectives (EUA) e Asian Journal of Latin American Studies (Korea)

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L’umanità nel secolo XXI:distruzione o emancipazione

Ricardo Antunes

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I. Capitalismo distruttivo

Siamo consapevoli del fatto che stiamo assistendo, a livello globale, all’esistenza di una società del capitale estremamente distruttiva, inglobante e generatrice di sprechi e di superficialità, la cosiddetta era dell’entertainment, che fa affiorare, con tutta evidenza, il senso di sperpero che caratterizza la logica della società contemporanea. Questa distruttività si esprime in tanti modi: per esempio, scartando, licenziando, precarizzando e rendendo superflua un’enorme fetta della forza umana mondiale che lavora, della quale un’enorme contingente o trova solo lavori precari, parziali e temporanei, o è disoccupato (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro lo quantifica in quasi 200 milioni di persone). Questo perché i capitali globali necessitano di sempre meno lavoro stabile e di sempre più lavoro part time, terziarizzato e precarizzato, in continuo aumento in tutto il mondo della produzione industriale e dei servizi. Questa distruttività si esprime anche attraverso la distruzione della natura e dell’ambiente. Dalle piogge torrenziali fuori controllo causate dalle alterazioni climatiche, alle alte emissioni di monossido di carbonio capaci di distruggere lo strato di ozono, alle petroliere che hanno disperso tonnellate di petrolio sulle spiagge della Galizia, in Spagna. Segni, questi, di una distorsione strumentale che guida la logica del capitale su scala mondiale, dove gli USA utilizzano risorse energetiche mondiali, come le materie prime esistenti sulla terra, assorbendo circa il 25% di tali risorse a beneficio della propria popolazione, che rappresenta meno del 5% della popolazione mondiale, degradando l’ambiente e mettendo a rischio la sopravvivenza stessa dell’umanità, come è stato indicato, in maniera radicale, tanto da Robert Kurz quanto da István Mészáros.2 Questa distruttività è anche rappresentata dall’accentuata crisi globale, che ha visto il radicalizzarsi della politica distruttiva e imperialista degli USA, della quale la Guerra contro l’Iraq è un esempio eclatante: l’Iraq oggi, l’Afganistan ieri, l’Iran, la Corea del Nord e Cuba (ciò che George Bush chiama «l’asse del male»), domani.

II. L’impero USA

Riflesso della sua crisi strutturale, come delle ripercussioni degli attentati spettacolari dell’11 settembre - quando per la prima volta l’Impero nordamericano ha assistito a una tragedia sul proprio territorio - gli USA avanzano in direzione di un imperialismo egemonico globale, per riaffermare in modo inequivocabile la propria posizione dominante nello scenario inter-imperialista. Le concezioni di Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Condolezza Rice et caterva, sotto il comando di Bush, sono chiare: gli USA devono riaffermare, in questa fase strutturale del capitale, il proprio potere in quanto superpotenza egemonica globale. Imperialismo globale egemonico in cui la competizione tra i gruppi transnazionali e i propri governi «ha un importante fattore limitante: l’enorme potere degli Stati Uniti, che tende pericolosamente ad assumere il ruolo di Stato del sistema del capitale in se, sottomettendo, con tutti i mezzi che ha a portata di mano, tutte le potenze rivali».3

III. La dimensione militare

Questa logica presente nella politica di Bush e degli USA è il risultato di quattro fattori interni, che si sono radicalizzati sotto il governo di G.W. Bush e che si sono rafforzati con la sua rielezione: a) la difesa diretta degli interessi di monopolio vincolati al petrolio, in un’era di chiara crisi energetica mondiale, dove l’Iraq ha un ruolo di rilievo grazie alle riserve delle quali dispone; b) la presenza egemonica degli interessi dell’industria bellica nucleare, che sono rappresentati dall’apparato bushiano, e che garantiscono gli interessi dei grandi gruppi come Boeing, Raytheon, Lockheed Martin e Northrop Gruman; c) il governo Bush è l’apoteosi della deliquenza dei falchi nordamericani e della loro smania di cercare nemici che riescano a colmare le lacune esistenti dai tempi della «fine della guerra fredda». La propulsione della «guerra giusta», che scatena un irrazionalismo estremo, portò Lukacs a dire, a metà degli anni 50, nell’appendice de L’assalto alla ragione, che gli USA avrebbero potuto ricorrere al fascismo o al nazismo, pur di garantire la loro politica ultramonopolista: «La Costituzione degli Stati Uniti fu fin dall’inizio, al contrario di quella tedesca, una Costituzione democratica. E la classe dominante era riuscita, specialmente nel suo periodo imperialista, a mantenere le forme democratiche in modo da preservare, attraverso la legalità democratica, una dittatura del capitale monopolista tanto vigorosa quanto quella ottenuta da Hitler attraverso i suoi procedimenti tirannici. Le prerogative del Presidente degli USA, il potere di decisione della Corte Suprema in materia costituzionale..., il monopolio finanziario sulla stampa, la radio, ecc., gli enormi costi elettorali, che hanno impedito la formazione e il funzionamento di veri partiti democratici insieme ai partiti tradizionali dei monopoli capitalisti, e, infine, l’impiego di metodi terroristi,..., tutto ha contribuito ad erigere una macchina ben lubrificata in grado di raggiungere, senza formalmente rompere con la democrazia, tutto ciò a cui aspirava Hitler. A tutto ciò si deve aggiungere la base economica che è incomparabilmente più estesa e più solida negli USA».4 Si tratta di un testo premonitore, dato che oggi la politica degli USA ha un evidente senso nazi-fascista (se compresa nell’universo dell’emergente secolo XXI), tipico dell’era irrazionale, dello spettacolo distruttivo e della barbarie. Se ricordiamo ancora che la caratterizzazione elaborata da Carl Schmitt, giurista ufficiale di Hitler, per definire il principio della politica estera degli USA, durante il «secolo americano», era marcata dalla cujus economia, ejus regio5, possiamo comprendere ancora oggi la pretesa di dominio mondiale assoluto da parte USA. Questo ci suggerisce che stiamo assistendo alla nascita del (nuovo) fascismo, adeguato ai condizionamenti economici, sociali, politici e ideologici del Secolo XXI. Questi elementi ci permettono di affermare che la Guerra contro l’Iraq è l’inizio di una profonda fase di instabilità internazionale: da un lato, per l’opposizione antinordamericana che si espande nel mondo come polvere, da oriente a occidente, che fa in modo che la gioventù esca dall’universo patinato dell’american way of life, aumentando in maniera significativa lo scontento e la repulsione mondiale verso gli USA e il loro «modo di vita». E contrastando con gli anni duraturi dell’egemonia degli USA del secolo passato. Sul piano economico, non esiste nessun elemento che ci indica che questa politica della «guerra giusta» riequilibri il disastro economico decorrente dalla crisi strutturale oggi vigente. E, sul piano politico, si apre un nuovo periodo di ricollegamento (in un certo senso) con gli altri poli della triade: l’Europa (con la Francia e la Germania in testa), il Giappone e i paesi asiatici (che hanno dimostrato una volta di più il loro servilismo nei confronti degli USA) e, in special modo, la Cina che, con il potere della sua economia che, secondo le previsioni, nel 2020 sarà circa tre volte più forte di quella americana, mina il dominio degli USA.6 Il sottoimperialismo britannico rappresenta l’appendice e dimostra il senso più orrendo di ciò che veniva ironicamente chiamato la Terza Via. Secondo le parole di Mészáros «la dimensione militare di tutto ciò è grave. Pertanto non esagero quando affermo che - anche tenendo ben in mente il potere distruttivo, prima inimmaginabile, degli armamenti accumulati durante la seconda metà del secolo XX - stiamo entrando nella fase dell’imperialismo più pericolosa di tutta la storia. Poiché quello che oggi è in gioco non è il controllo di una regione limitata del pianeta, per quanto grande e in condizione sfavorevole, continuando a tollerare le azioni indipendenti di alcuni avversari, ma il controllo della sua totalità da parte di una superpotenza economica e militare egemonica, con tutti i mezzi - inclusi i più autoritari e violenti mezzi militari - a sua disposizione. È questa la razionalità ultima che il capitale sviluppato globalmente esige, nel tentativo di assumere il controllo dei suoi antagonisti inconciliabili. La questione è che tale razionalità (...) è allo stesso tempo la forma più estrema dell’irrazionalità nella storia, inclusa la concezione nazista di dominio del mondo, nella quale ci si riferisce alle condizioni necessarie per la sopravvivenza dell’umanità.»7

IV. Un altro mondo (socialista) è possibile Questa logica bellica ci colloca sotto il dominio di un impero centrale, imperialista, che vuole imporre al mondo la sua (non)ragione strumentale e bellica. Obbligandoci a scegliere tra la Mcdonaldizzazione del mondo, nella migliore delle ipotesi, e la desertificazione del pianeta. Forse G.Bush sogna un mondo di «convivenza fraterna» tra lui e gli scarafaggi, che saranno gli unici a sopravvivere a una guerra nucleare mondiale. Non sarebbe una buona compagnia per gli scarafaggi. Ma, contraddittoriamente, ci sono, in questo nuovo ciclo (e secolo), elementi nuovi e favorevoli. Aumentano le lotte sociali antiglobalizzazione e antimondializzazione, da Seattle al Social Forum Mondiale; aumentano altresì il malcontento per la mercificazione del mondo, la sua superficialità, il suo senso distruttivo. Dopo la reazione nordamericana all’attentato dell’11 settembre, lo slogan Un altro mondo (socialista) è possibile ha acquisito maggior forza e propulsione sociale, e i movimenti si sono moltiplicati in varie parti del mondo. L’esplosione dei movimenti e delle lotte sociali in tutto il mondo sono un chiaro segnale che una nuova fase delle lotte sociali è già cominciata. Anche il continente latinoamericano passa dalla letargia neoliberale degli ultimi due decenni, alle esplosioni sociali e le ribellioni in Argentina e Bolivia, a una forte resistenza popolare antigolpista in Venezuela, all’eroica resistenza a Cuba, alla lotta armata in Colombia, alla ribellione in Messico. Forse si può dire che l’internazionalizzazione di queste lotte mondiali, globali, è la sfida più urgente delle forze sociali e politiche che si oppongono alla logica distruttiva del capitale. Potremmo essere davanti al risorgimento dell’opposizione proprio nel cuore dell’Impero, dato che non si assisteva a manifestazioni così significative negli USA dalla Guerra nel Vietnam. Il che potrebbe di fatto segnare l’inizio di una nuova era per l’umanità sociale.

V. Diritti dell’umanità e Resistenza Globale Alle soglie del secolo XXI, il progetto socialista si trova nelle condizioni di poter fare un bilancio più conclusivo: sconfitte le sue esperienze più importanti, con l’URSS in testa, è possibile constatare che questi progetti non sono stati capaci di sconfiggere il sistema del metabolismo sociale del capitale. Questo sistema, come ci ricorda Mészáros, è costituito dal capitale, dal lavoro e dallo Stato, e non può essere superato senza l’eliminazione dell’insieme degli elementi che esso comprende. Non basta eliminare uno o anche due dei suoi poli. La sfida consiste nel superare i tre elementi, nei quali è inclusa la divisione gerarchica sociale del lavoro che subordina il lavoro al capitale. Per non aver avanzato in questa direzione, i paesi postcapitalisti sono stati incapaci di rompere la logica del capitale. Anche l’esperienza del «socialismo in un solo paese» o nello stesso insieme limitato di paesi, come l’est europeo, è stata sconfitta. Vale la pena ricordare Marx e Engels, che hanno affermato che il socialismo è anche un processo storico mondiale; le rivoluzioni politiche possono inizialmente assumere una conformazione nazionale, più limitata e parziale. Ma le rivoluzioni sociali hanno un significato intrinseco universalizzante. Nella fase del capitale mondializzato, il socialismo potrà essere concepito solamente in quanto impresa globale/universale. L’esperienza di Cuba, per esempio, mostra la necessità imprescindibile dell’intensa solidarietà estera, capace di aiutarla nell’eroica azione di resistenza che il suo popolo ha opposto, da quasi mezzo secolo, al dominio degli USA e al suo nefasto blocco. Cuba resiste e ci dimostra che c’è futuro per il socialismo in America Latina. E noi di Nuestra América, dobbiamo dimostrare che la difesa di Cuba è la difesa della nostra umanità. Così come, adesso, è parte della lotta dell’America Latina anche la Rivoluzione Bolivariana del nostro Venezuela. In questo contesto, l’avanzamento dei movimenti sociali della sinistra, capaci di affrontare alcune delle sfide più dure di questo fine secolo, si dimostra decisivo per il futuro delle lotte sociali e del socialismo in America Latina. L’esempio degli Zapatisti, in Messico, l’avvento del Movimento dei Lavoratori Senza Terra (MST) in Brasile, la ripresa delle lotte operaie e sindacali in America Latina degli anni ’90, le esplosioni sociali in Bolivia, la guerra civile in Colombia, la resistenza in Perù e, infine, la battaglia dei lavoratori disoccupati, i movimenti sociali degli indigeni e dei contadini, tra gli altri movimenti e lotte che affiorano e che si espandono nel mondo contemporaneo, sono esempi di nuove forme di organizzazione dei popoli, dei lavoratori del mondo, uomini e donne che si ribellano contro il senso distruttivo del capitale e della sua barbarie. E questa azione deve articolare lotta sociale e lotta politica in maniera indissociabile. Per finire, il mondo del lavoro ha sempre di più una conformazione mondializzata e polisemica. Con l’espansione del capitale su scala globale e la nuova forma assunta dalla divisione internazionale del lavoro, anche le risposte del movimento dei lavoratori assumono sempre di più un senso mondializzato e universalizzante. Internazionale. Sempre di più le lotte nazionali devono articolarsi con una lotta di carattere internazionale. La transnazionalizzazione del capitale e del suo sitema produttivo obbliga ancora di più la classe lavoratrice, i partiti della sinistra, i movimenti sociali e politici a pensare alle forme internazionali della sua azione, della solidarietà e di confronto. La classe lavoratrice nel mondo contemporaneo è più complessa e eterogenea di quella del periodo di espansione del fordismo. Il riscatto del senso di appartenenza di classe, contro le innumerevoli fratture, obiettive e soggettive, imposte dal capitale, è una delle sue sfide più importanti. Impedire che i lavoratori precari rimangano al margine delle forme di organizzazione sociale e politica di classe è una sfida imperiosa nel mondo contemporaneo. La comprensione delle complesse connessioni tra classe e genere, tra lavoratori e lavoratrici, tra salariati «stabili» e quelli più precari, tra lavoratori nazionali e lavoratori immigrati, tra lavoratori qualificati e lavoratori non qualificati, tra lavoratori vecchi e giovani, tra i disoccupati e, infine, tra le tante fratture che il capitale impone alla classe lavoratrice, è fondamentale, tanto per il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici latinoamericani, quanto per la riflessione della sinistra socialista. Il riscatto del senso di appartenenza di classe è, in questo momento, una questione cruciale, poiché potrebbe recuperare i valori più essenziali del socialismo in questo inizio del nuovo Secolo e del nuovo Millennio e, in questo modo, riscattare il valore principale dell’umanità sociale (Marx), che sia all’altezza delle grandi sfide del nostro tempo, dove la distruzione dell’ambiente e della natura, la degradazione del lavoro, la superficialità della merce, il feticismo delle cose, l’estraniamento della soggettività, il predominio quasi inevitabile della merce/denaro e della sua finanziarizzazione, per non parlare della barbarie bellica imposta dagli USA, il suo impero imperialista e i suoi seguaci, oggi dominanti, possano definitivamente sparire. Stiamo assistendo al fiorire di uno di questi momenti di ribellione, di lotte e azioni che emergono dalle forze sociali del lavoro e delle vittime più penalizzate di questo sistema distruttivo e esclusivo. Se una parte degli anni ’70 e ’80 possono forse essere visti come anni nei quali si sono mischiati (in maniera contraddittoria) fascino, rassegnazione e disincanto, gli anni ’90 e questo decennio sono certamente differenti. Il che può rendere possibile la ripresa di ciò che Goethe, ne Gli Anni di Apprendistato di Wilhelm Meister, sintetizzò così: «Tanto propenso è l’uomo a dedicarsi a ciò che ha di più volgare, con tanta facilità gli si ottundono lo spirito e i sensi rispetto alle impressioni dovute al bello e al perfetto, che dovremmo con tutti i mezzi conservare in noi questa facoltà di sentire. Poiché non c’è chi possa passare completamente senza un piacere come questo, e solo la mancanza del costume di godere di qualcosa di buono è la causa per la quale molti uomini trovano il piacere nel frivolo e nell’insulto, purché sia nuovo. Dovremmo quotidianamente sentire almeno una piccola canzone, un bel poema, ammirare un quadro magnifico e, se possibile, pronunciare qualche parola sensata.»

Viva la Rivoluzione in America Latina. Viva il Socialismo. Viva l’umanità!

Note

1 Prof. Univ. di Campinas (UNICAMP/BRASIL).

2 Conforme Mészáros, I., Para Além do Capital (Ed. Boitempo) e Kurz, R., Colapso da Modernização (Ed. Paz e Terra).

3 Mészaràros, I., Socialismo ou Barbàrie (Boitempo), 2001.

4 Lukacs, G., El Asalto a la Razón, Grijalbo, Barcellona, 1967, p. 622/3.

5 A tale re, tale economia.

6 Sunday Times, 01/07/1999, p.25, citata da Mészáros in Socialismo ou Barbrie, op.cit.

7 Idem.