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Elezioni RSU nel pubblico impiego: una opportunità colta, una sfida vinta!
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Elezioni RSU nel pubblico impiego: una opportunità colta, una sfida vinta!

Domenico Provenzano

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Possiamo riassumere in questo titolo il senso del risultato che come RdB/CUB P.I. siamo riusciti a conseguire.

Dovevamo essere capaci di rovesciare gran parte del rischio contenuto in questo ennesimo appuntamento elettorale (e per le ragioni che illustreremo più avanti di rischio ce n’era tanto) in nuove opportunità e uscirne rafforzati.

Ed è esattamente quello che è avvenuto.

Con le elezioni del 2004 siamo giunti al terzo appuntamento elettorale.

Su questo ultimo si sono addensate, oltre alle solite, nuove difficoltà rispetto alle volte precedenti.

Intanto una prima differenza; nel 1998 si è votato quando era al governo il centrosinistra e nel 2001 aveva da poco lasciato il governo Amato.

Governi che non si erano certo risparmiati nel portare avanti politiche neoliberiste concretizzatesi con attacchi a diritti e tutele in ogni ambito e la Pubblica Amministrazione non è stato certo l’ultimo.

Con questi governi, nel solco della concertazione, Cgil, Cisl e Uil hanno continuamente e chiaramente collaborato ripartendosi quota parte delle responsabilità derivanti dalle scelte operate.

Era quindi più chiaro il loro ruolo agli occhi dei lavoratori e più giustificata la proposta di una alternativa sindacale.

Oggi c’è il governo Berlusconi contro il quale, anche obtorto collo, pure la Cisl e la Uil si sono viste costrette alla mobilitazione in un crescendo imposto dalle scelte del governo.

Infatti, nonostante avessero accettato di rompere con la Cgil, fino ad arrivare alla firma del famigerato patto per l’Italia con annessi e connessi, nella speranza di ottenere un rapporto privilegiato di contrattazione e di spartizione, il governo ha proceduto a testa bassa nelle sue scelte politiche e sociali prescindendo da qualsiasi mediazione.

In forte deficit di ossigeno Cgil, Cisl e Uil hanno deciso così di interrompere la fase di bipolarismo sindacale e si sono aggrappate alla nuova Confindustria di Montezemolo nell’illusione che un nuovo patto tra produttori potesse imporre al governo un ripensamento e recuperare così il terreno della concertazione che tanti danni ha già causato ai lavoratori.

Ma anche questa volta si sono sbagliati, il governo non solo ha tirato dritto per la sua strada ma ha rafforzato l’attacco su tutti i terreni: dal blocco dei contratti si è passati ad una Finanziaria che ha assunto la Pubblica Amministrazione a bersaglio privilegiato per rastrellare risorse destinate a coprire i buchi di bilancio e a finanziare il grande imbroglio della riduzione delle tasse.

È successo così che proprio nelle settimane precedenti il voto abbiamo assistito al massimo di opposizione da parte della Triplice, rivelatasi però inefficace sul terreno del conflitto.

È servita però a rifarsi una verginità che, anche se di facciata e di breve periodo, ha certamente funzionato in termini di immagine. Non è poi solo Berlusconi che ricorre al lifting!

Da questa posizione e nella prospettiva, tutta da verificare, di un possibile cambio della guardia a Palazzo Chigi il nemico principale di tutti, della Cgil in particolare, è diventato la RdB.

Colpevole di rappresentare una spina nel fianco su terreni importanti quali la lotta alla precarietà, allo scippo del TFR, alla politica dei redditi, ecc. e di essere riuscita nell’ultimo anno a dar vita a lotte significative su diversi terreni.

E sì che non sarebbero mancati altri bersagli, pensiamo alla pletora di sindacati corporativi, cosiddetti autonomi, che vivono in simbiosi con esponenti del governo in carica con il compito di ridurre l’area di dissenso tra i lavoratori.

Basti pensare alla UGL che ha mobilitato parlamentari e ministri di A.N. e i nuovi vertici di Enti e Amministrazioni di nomina governativa per rilanciarsi sul terreno del più bieco clientelismo.

Una seconda differenza è rappresentata dal tasso di usura di questa esperienza delle RSU.

Con il passare del tempo è diventato sempre più evidente, non a noi che l’abbiamo denunciato fin dall’inizio ma alla stragrande maggioranza dei lavoratori, che le RSU così come sono state concepite non svolgono, nella generalità dei casi, alcun ruolo significativo.

Non ci sono riuscite sul piano del ripristino di una dinamica democratica nel rapporto sindacato-iscritti-lavoratori.

Continuano a prevalere, infatti, gli apparati sindacali che “affiancano” gli eletti RSU, nonchè gli accordi di cartello e quelli sottobanco che precedono il confronto pubblico.

Le RSU, inoltre, non sono state in grado di esercitare potere reale né d’imporre questo tema come centrale della loro funzione.

Esse, infatti, sono escluse dalla contrattazione nazionale e regionale, non concorrono alla definizione delle piattaforme né alla validazione degli accordi, vanno solo a trattare materie marginali o residuali.

Non ci riescono nemmeno nella misura in cui ci si riesce nel settore privato (o perché formalmente previsto o perché imposto dalle lotte).

A tal proposito ci capita di registrare di tanto in tanto lo sconcerto di qualche compagno che nel sindacato lavora nel settore privato, che davanti a queste valutazioni ci rimprovera di essere un po’ troppo severi o esigenti.

Buona parte dello sconcerto nasce dal fatto che dall’esterno quelle del pubblico impiego appaiono RSU di gran lunga più democratiche perché non vige la regola del 33% attribuito in partenza a Cgil, Cisl e Uil nel settore privato.

Questo è vero dal punto di vista formale, un po’ meno nella sostanza.

Cgil, Cisl e Uil si sono potute permettere il lusso di rinunciare alla mazzetta del 33% per almeno due motivi:

- il primo che le RSU sono state escluse istituzionalmente dalla contrattazione che conta;

- il secondo è che nella Pubblica Amministrazione godono di privilegi e strumenti di potere inimmaginabili nel privato.

Possono contare su strumenti di corruzione e di clientelismo gestiti direttamente.

Sono in grado di recitare due parti in commedia perché hanno nelle loro fila le stesse controparti, direttori generali e dirigenti di ogni livello.

È anche questa la ragione per la quale, al contrario delle divisioni che hanno caratterizzato i rapporti tra loro per un certo periodo a livello di confederazione o di alcune categorie, nel pubblico impiego l’unità non si è mai rotta anche nel periodo di maggior conflitto.

Ebbene, anche in un quadro così pesantemente condizionato, siamo riusciti ad ottenere un ottimo risultato puntando sulla storia, sulla pratica e su un programma che siamo riusciti a far vivere in concreto anche nel corso della lunga campagna elettorale.

In sintesi i risultati:

ai 6 comparti dove avevamo la maggiore rappresentatività se ne è aggiunto un settimo, l’Università con l’8% di voti;

in 5 comparti raggiungiamo un consenso a due cifre: il 12% nel Parastato, il 13% nella Presidenza del Consiglio dei ministri, l’11% nelle Agenzie Fiscali, il 10% nelle Aziende Autonome, il 15% nella Ricerca.

Nel comparto Ministeri consolidiamo la nostra presenza con il 7%, registriamo un incremento negli Enti Locali, manteniamo i nostri voti dopo la rottura del cartello di sigle che avevamo costruito nel 2001 nella Sanità.

Siamo risultati primo sindacato in centinaia di posti di lavoro, in alcuni ambiti in modo eclatante, e il fatto che questi risultati si ripetano o si rafforzino anche nelle stesse realtà sta a significare che non è una fiammata passeggera dovuta a qualche particolare evenienza ma è sintomo di un consenso consapevole e di un saldo radicamento.

Un risultato particolarmente rilevante se si tiene conto che, anche in ragione della vastità e frammentarietà dei posti di lavoro (circa 14.000 sedi elettorali), la presenza delle nostre liste riguardava un bacino ridotto dell’elettorato.

Un solo esempio, nel comparto Università le nostre liste coprivano solo un terzo circa delle sedi.

Come si può ben intuire il confronto non è solo tra pratiche, modelli, linee sindacali ma anche tra apparati, disponibilità di strumenti e di risorse economiche ed in questo campo la sproporzione è enorme.

Un altro dato da mettere in evidenza è che il nostro risultato è in controtendenza rispetto ai risultati conseguiti da altre sigle del sindacalismo di base in questa occasione e nell’ultimo anno.

L’anno scorso nelle elezioni per il rinnovo delle RSU della Scuola i Cobas hanno perso 10.000 voti a vantaggio della Cgil, confermando così che civettare con la stessa dentro e fuori i Social Forum non paga, specie se si teorizza l’inutilità di creare organizzazione.

Un risultato, infine, che aumenta il peso politico e contrattuale della nostra organizzazione, ci dà più prestigio nel rapporto con i lavoratori ma ci carica anche di una ulteriore responsabilità.

Sul piano politico innanzitutto.

Siamo davanti ad un quadro che vede non solo il rischio di declino del paese ma anche dell’istituzione Sindacato.

Gli anni della concertazione hanno rappresentato, oltre che un pesante danno economico, anche il disarmo ideologico dei lavoratori e Cgil, Cisl e Uil fanno fatica a praticare il terreno della lotta se non rompono con la solita logica.

E il sostanziale fallimento delle mobilitazioni degli ultimi mesi lo dimostra ampiamente.

D’altronde è fin troppo chiaro che non abbiano alcuna intenzione di rivedere le scelte del passato, anche se è oramai evidente che è anche per effetto della concertazione se le imprese italiane sono in crisi, perché sono state spinte ad agire sul costo del lavoro e a dirottare i maggiori profitti sulla finanza piuttosto che sugli investimenti in innovazione e ricerca.

Pesa anche su di noi l’onere di indicare una strada e di saperla praticare, a partire dall’affermazione di una sostanziale indipendenza dal quadro politico che avremo davanti nei prossimi mesi, per essere espliciti, decidendo di praticare con la stessa determinazione gli stessi obbiettivi sia in presenza di un governo di centrodestra che di centrosinistra.

Bisogna saper ricostruire la coscienza di sé dei lavoratori, l’identità che si è appannata non poco, e restituire loro l’arma del conflitto, unico strumento in grado di affermare una autentica autonomia di classe e di ribaltare i rapporti di forza.

Anche se in modo discontinuo e contraddittorio, l’ultimo anno insegna che è possibile: stanno a dimostrarlo le lotte degli autoferrotranvieri, di Scanzano, di Melfi, dei Vigili del Fuoco o delle Agenzie Fiscali nel pubblico impiego.

I terreni della sperimentazione non mancano certo.

Sono quelli della lotta contro lo smantellamento della Pubblica Amministrazione che non è solo riduzione delle prestazioni e dei diritti, ulteriore riduzione dello Stato sociale ma è soprattutto demolizione dello Stato, la privatizzazione persino dei rapporti sociali.

È lotta alla precarietà in ogni sua accezione, di lavoro, di reddito, di prospettive di vita.

È lotta contro il carovita e per il reddito, per una diversa distribuzione della ricchezza, per il ripristino della scala mobile, per aumenti salariali veri, per lo sviluppo dell’occupazione.

È lotta contro lo scippo del TFS, il TFR del privato, per il rilancio della Previdenza pubblica.

È lotta per una definizione certa dello status giuridico dei dipendenti pubblici che non può più essere la condizione per negare loro diritti riconosciuti nel settore privato come, ad esempio, il riconoscimento delle mansioni superiori.

Su questo terreno e su questi temi saremo chiamati ad esercitarci nei prossimi mesi e la coincidenza con l’avvio della fase congressuale sarà l’occasione per definire meglio l’analisi della situazione generale, i nostri tratti d’identità e gli strumenti organizzativi più idonei ad esaltare le nostre capacità.