Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (terza parte). Dalla partecipazione controllata alla concertazione
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Sabino Venezia
|
Stampa |
Questo lavoro costituisce una prima bozza di discussione che
la redazione di PROTEO presenta ai propri lettori dalle cui osservazioni ci
proponiamo non solo di “ imparare” su un argomento storico-economico tutto
aperto e in cui sicuramente non siamo specialisti, ma anche di prender spunto
per le correzioni di tiro e gli ulteriori approfondimenti.
1. Le “compatibili necessità” di una ristrutturazione del capitale
contro il movimento operaio
Il lungo ciclo delle lotte, e delle conquiste, “dell’autunno
caldo” si chiude, di fatto nel 1980, con una grave sconfitta del movimento
operaio. La grave crisi della FIAT (6800 mld di debito), in linea con la più
grande crisi internazionale del settore automobilistico, già figlia della
grande crisi di accumulazione degli anni ’70 ed ancora a tutt’oggi in corso,
compresi gli shock petroliferi, si abbatte inesorabilmente sulla classe operaia.
Lo sciopero dei “35 giorni” segnerà probabilmente anche sul piano simbolico
il punto di caduta del movimento sindacale; alla fine della grave vicenda
saranno 33.000 gli operai in cassa integrazione a zero ore (fino al 1987) e tra
questi centinaia di delegati sindacali (contro ogni accordo); al rientro ci
saranno “reparti confino” ad aspettarli.
Siamo in pieno processo di ristrutturazione
economico-produttiva ma che viene da lontano, così come da lontano arrivano le
avvisaglie di un progetto di attacco al movimento dei lavoratori che si
espliciterà ancor più negli anni ’80, ’90 e fino ad oggi grazie alla
collaborazione dei sindacati confederali.
In Italia dal dopoguerra ad oggi si possono individuare molti
modelli geografici e sociali dello sviluppo economico; in particolare si nota il
passaggio da un modello di progressiva concentrazione territoriale della
produzione, del reddito e della popolazione, ad un modello di diffusione locale
delle dinamiche di sviluppo che ha interessato aree a rilevanza intermedia, che
ha come obiettivo quello di disarticolare l’unità di classe dei lavoratori.
Si può affermare che l’economia italiana si è sviluppata
con delle caratteristiche particolari che comportano dei paradossi e delle
contraddizioni, ma tutte finalizzate a riportare il conflitto a vantaggio del
capitale.
Come si è visto nelle puntate precedenti il boom economico
degli anni ’50 ha visto la nascita di grandi famiglie capitalistiche che,
passate indenni al processo di trasformazione economica-sociale post-conflitto
mondiale, hanno inciso profondamente nelle modalità dello stesso sviluppo
complessivo. Considerando che l’Italia fino alla seconda guerra mondiale era
un paese basato su un’economia prevalentemente agricola, va segnalato che lo
sviluppo industriale avutosi tra gli anni ’50 e gli anni ’70 si è
concentrato solo su alcune zone del Paese senza estendersi alle aree più
depresse.
L’industrializzazione che caratterizza questi anni ha
comportato un divario tra il Nord e il Sud del Paese, determinato soprattutto
dal fatto che mentre per il Settentrione si sono adoperate politiche di
integrazione con gli altri paesi europei, il Mezzogiorno è invece rimasto
sempre più isolato economicamente e socialmente. Ed è stata quindi la famiglia
padronale, sia essa fondata su aristocrazie cittadine sia caratterizzata da un
congiunzione solidale, ad essere la principale protagonista dello sviluppo
economico del nostro Paese. Si è passati dall’affermazione della piccola e
media impresa familiare allo sviluppo della grande impresa familiare che ha
rappresentato la colonna portante del nostro sistema economico per vari decenni.
Negli anni ’70 si attua il cosiddetto “decentramento
produttivo” che scorporando alcune fasi del processo di produzione le
indirizza verso imprese di minore dimensione. In questo senso la piccola impresa
si caratterizza sempre più per una elevata indipendenza dalla grande azienda
committente, in quanto si specializza e si caratterizza per la sua innovatività
e ciò diventa funzionale allo smembramento delle concentrazioni operaie nelle
grandi fabbriche proprio per indebolirne la capacità di conflitto.
Lo scenario che si presenta nella realtà italiana è quindi
caratterizzato in primo luogo dalla presenza di grandi holding private (a
carattere familiare con il supporto del manager); ci sono poi le imprese
pubbliche che hanno sostenuto lo sviluppo ed infine un numero elevato di piccole
e medie imprese le quali per la loro innovatività si caratterizzano per un
elevato livello di efficienza. In sostanza nella piccola e media impresa vi è
una presenza costante e continua dell’imprenditore-proprietario, invece, nelle
imprese di grandi dimensioni, caratterizzate da una elevata concentrazione della
proprietà, si verifica qualche caso di incrocio azionario tra le più grandi
famiglie industriali del Paese.
Va rilevato che mentre nella piccola impresa i lavoratori e l’imprenditore
provengono spesso dallo stesso contesto socio-culturale, essendo a volte
appartenenti allo stesso nucleo familiare, nella grande impresa basata su
rapporti di gerarchia non mediati e su grandi concertazioni operaie è invece
presente un forte conflitto tra i diversi soggetti economici interessati.
Si assiste in sostanza ad una forma di imprenditoria di
élite tipica delle grandi aziende, all’imprenditoria della piccola e media
impresa ed infine all’imprenditoria assistita. Questa situazione fa risaltare
lo storico problema delle Tre Italie imprenditoriali, in quanto gli
imprenditori d’élite sono concentrati nell’Italia settentrionale, al centro
troviamo un tipo di imprenditorialità diffusa mentre al sud si trova il
cosiddetto “imprenditore assistito” legato al sistema politico.
Si realizza in sostanza già a partire dagli anni ’70, per
poi rafforzarsi negli anni ’80, una forma di industrializzazione diffusa con
al centro i distretti che ha il vantaggio di associare i benefici della piccola
dimensione con quelli della grande. È in tale chiave che va letta la grande
importanza che viene attribuita al nuovo concetto di distretto, industriale e
terziario.
Infatti, nell’ambito di un area geografica ben delimitata
si raggruppano un agglomerato di imprese appartenenti al medesimo settore (ad
esempio: le ceramiche a Sassuolo, le maglierie a Carpi, l’industria delle
pelli e del cuoio in Toscana). In questi distretti si viene così a creare un
patrimonio di conoscenze tecniche e specializzate nel settore e quindi, la
struttura produttiva permette di sviluppare prodotti qualitativamente pregiati.
Inoltre, in queste microaree geografiche viene a realizzarsi una quasi piena
occupazione, sia diretta che indiretta; e anche se i salari sono mediamente più
bassi di quelli delle grandi imprese, grazie alla piena occupazione, nel suo
insieme, si realizzano redditi familiari più elevati.
Va ricordato che
L’industria manifatturiera italiana si fonda su alcune
particolari caratteristiche che ne definiscono il successo sui mercati
internazionali:
- una dimensione media d’impresa più piccola di quelle
dei paesi nostri concorrenti (10 addetti in Italia contro i 17 in Giappone, 25
in Germania, 60 negli USA, 85 nel Regno Unito);
- un modello di specializzazione industriale in cui un
ruolo importante è giocato da settori ad alta intensità di know-how, di
design, di gusto e di creatività e a bassa o medio-bassa intensità di
capitale;
- una presenza significativa di sistemi locali d’impresa,
di cui circa un centinaio sono Distretti Industriali.
Nei Distretti italiani operano oltre 60.000 imprese con circa
600.000 addetti che realizzano circa 120.000 miliardi di lire di fatturato, pari
ad una quota del 10% circa del Prodotto Interno Lordo industriale italiano; sono
sistemi di imprese che, nelle fasi congiunturali difficili, hanno dimostrato una
capacità di tenuta maggiore di quella media dei settori industriali.
I settori di specializzazione dei Distretti riguardano
prevalentemente i beni per la persona o per la casa e i beni strumentali. Il
sistema moda (tessile-abbigliamento-calzature) e il sistema legno-arredo
costituiscono una parte rilevante nel panorama dei Distretti italiani,in cui
sono rappresentati tutti i principali settori del Made in Italy [1].
Un distretto industriale, quindi, come rappresentazione ed
evoluzione del modello capitalistico italiano, volto a raggiungere alti livelli
di competitività internazionale, attaccando i diritti e le garanzie dei
lavoratori, a partire dall’abbattimento del costo del lavoro. È per questo
che nell’economia del distretto si trova una forte specificità, una propria
dimensione socio-economico e territoriale, definita in funzione delle relazioni
di coercizione comportamentale complessiva che si instaurano tra imprese e
comunità locale e una specifica forzata capacità autocontenitiva in relazione
a domanda e offerta di lavoro.
Una visione delle economie locali e nazionali sempre più
classista ed intollerante che assume le modalità relazionali socio-economiche
rappresentate dal rafforzamento e trasmissione forzata comportamentale di alcune
imprese locali, o gruppi di imprese. Gruppi economici nazionali che in alcuni
paesi, come ad esempio l’Italia, stanno assumendo un ruolo guida nell’influenzare
le azioni economiche e sociali dei soggetti economici locali che avevano in
passato fortemente caratterizzato l’evoluzione dei distretti.
Un modo di fare impresa, uno scompaginamento, modelli
comportamentali coercitivi verso la forza lavoro, da parte dell’impresa
medio-piccola, ma sussulti ad esempio da tutto il modello capitalistico
italiano, che nel contempo suggeriscono un approfondimento a livello sociale in
modo più disaggregato.
Sono gli anni della ristrutturazione capitalistica caratterizzata da una
atavica necessità per le imprese: estendere ed accrescere il livello di
flessibilità della forza lavoro, per fronteggiare l’ampliamento dei mercati e
tenere il confronto con la globalizzazione della concorrenza.
È per questi motivi tutti interni alle dinamiche di
riconversione produttiva e di ristrutturazione del capitalismo italiano entro il
ruolo assegnatogli dalla ridefinizione per aree geoeconomiche del capitale
internazionale e alla connessa divisione internazionale del lavoro, che va letta
anche la storia sindacale degli anni ’80 e degli anni ’90.
2. Crisi del capitale e subalternità sindacale
Nel marzo del 1979 l’Italia, dopo un lungo e contrastato
dibattito politico, aderisce al Sistema Monetario Europeo. È opinione comune
che il vincolo esterno della stabilità dei cambi possa obbligare il Paese a
seguire una politica di stabilità monetaria. Infatti, con l’entrata nel
sistema di cambi stabili, l’Italia non può più affidarsi allo strumento
inflazionistico e della svalutazione per fronteggiare l’aspra concorrenza nei
mercati mondiali. Gli strumenti più idonei per far fronte a questa nuova
realtà sono l’aumento della produttività e la riduzione del costo del
lavoro. Ne è una conseguenza diretta il cosiddetto piano Pandolfi, presentato
al Parlamento nel febbraio del 1979, che ha come esigenza primaria, quella,
appunto, di assicurare l’efficienza del sistema produttivo. Il “piano” si
propone di effettuare il blocco dei salari per tre anni, un ampia restaurazione
della mobilità del lavoro, una riduzione della spesa sociale e infine un
aumento dei trasferimenti a favore delle imprese per incentivare la
ristrutturazione e l’ammodernamento tecnologico. Alcuni di questi obbiettivi
sono destinati a realizzarsi anche se in un periodo molto lungo di tempo, mentre
altri trovano un’applicazione immediata nel settore della politica monetaria.
Se in passato, infatti, si era preferito finanziare la spesa pubblica anche
diminuendo qualche risorsa al settore privato, ora per accrescere l’ammodernamento
del sistema produttivo, si dà l’avvio al processo opposto.
Nel 1980, viene varata la riforma dell’emissione dei Buoni
Ordinari del Tesoro, che porta al “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia.
Infatti se in passato, a ogni emissione dei BOT, la Banca d’Italia aveva
comprato tutti i titoli non sottoscritti dal mercato (2), nel 1980 si stabilisce
che il Tesoro si sarebbe affidato soltanto ai titoli emessi dal mercato, senza
alcun obbligo da parte della Banca d’Italia di acquistare il residuo. Questa
riforma produce dei sostanziali cambiamenti: nel 1978 oltre il 27% del debito
totale del settore pubblico era verso la Banca d’Italia; tale percentuale è
gradualmente ridotta negli anni fino a raggiungere il 6,7% nel 1994. Obbiettivo
immediato raggiunto dalla normativa del “divorzio” è quello di lasciar
maggiore spazio al finanziamento del settore privato.
Comunque, questo indirizzo di carattere generale non mitiga
il dilagare dell’inflazione. Infatti, l’aumento dei prezzi supera il 20%
annuo nel 1980 e rimane molto alto fino al 1984. Mentre negli anni passati tale
fenomeno, come si è detto, era di origine prettamente salariale, in questi anni
le ragioni che portano all’aumento dell’inflazione sono sostanzialmente tre:
inflazione importata; inflazione dei prezzi amministrati; inflazione dei
tassi di interesse.
Ma se negli anni dei cambi flessibili l’inflazione era “ben
vista” dalle imprese (come strumento per aumentare i prezzi più dei salari e
ridurre il costo reale del lavoro), in seguito con la stabilità dei cambi
esteri, l’inflazione viene considerata negativamente perché riduce la
competitività dalle imprese stesse con l’estero.
Inoltre, la bilancia commerciale italiana va lentamente, ma
inesorabilmente, deteriorandosi. Infatti, in quasi tutti i settori dell’industria
manifatturiera si hanno saldi passivi. Per arginare questo fenomeno, le
autorità italiane adottano un metodo opposto a quello consueto, ovvero
considerando il disavanzo dei movimenti di merci come una conseguenza della
politica di stabilità dei cambi esteri e quindi, inclini a compensarlo mediante
importazioni di capitali.
A tal fine, i tassi di interesse vengono tenuti più alti di
quelli degli altri mercati finanziari, in conseguenza di ciò, per gli
speculatori stranieri si aprono possibilità di investimenti particolarmente
vantaggiose. E per agevolare gli ingressi di capitali, le autorità italiane
avviano un processo di liberalizzazione dei mercati finanziari (anticipando
addirittura le scadenze comunitarie), realizzando la piena libertà dei
movimenti dei capitali nel 1990.
Una conseguenza dei limiti della politica dei “tassi
elevati”, è quella di far crescere, fino a livelli ormai non più gestibili,
il debito pubblico; una seconda conseguenza sono gli effetti depressivi che
tassi così elevati producono sugli investimenti. Un’ultima conseguenza è l’indebitamento
crescente dell’economia italiana verso l’estero. L’Italia, quindi, non
potendo collocarsi nei settori più avanzati, si specializza nelle produzioni
quali abbigliamento, cuoio, calzature, macchinari agricoli, ecc.
Sul terreno reale sono determinanti a rendere fragile la
posizione commerciale italiana diverse componenti. In primo luogo, i già citati
Nuovi Paesi Industrializzati: questi Paesi hanno produzioni simili a quelle
italiane, ma con costi del lavoro decisamente inferiori.
Il secondo fattore, che contribuisce all’indebolimento dell’economia
nazionale, è l’allargamento della Comunità Europea ad altri Paesi quali
Spagna, Grecia e Portogallo, anch’essi diretti concorrenti dell’industria
italiana.
Tutto questo, avvenuto in poco tempo, ha seriamente minato l’industria
italiana. Chiuse tra inflazione interna e i cambi stabili, le grandi imprese
adottano una politica ostile contro gli aumenti salariali e attuano uno sforzo
per aumentare la produttività media del lavoro. Da una parte ingaggiando una
battaglia violenta per ottenere la riforma del meccanismo della scala mobile
(obbiettivo peraltro raggiunto nel 1992), dall’altra realizzano una profonda
revisione dei processi produttivi. Tutti i periodi dello sviluppo economico del
nostro Paese hanno creato una crescente differenziazione territoriale e sociale,
poiché queste fasi accentuano i flussi migratori e i processi di
urbanizzazione, i processi di espulsione dalle garanzie del reddito, con
conseguenti fenomeni socio-economici che trasformano e modificano i rapporti
centro-periferia in chiave geografica, e garantiti-non garantiti in chiave
economica, accrescendo la schiera delle nuove marginalità, delle esclusioni,
delle nuove povertà.
Sempre secondo tale interpretazione socio-economica vanno
analizzate proprio e soprattutto a partire dagli anni ’80 le trasformazioni
tecnologico-produttive che caratterizzano alcune realtà territoriali,
determinando la crescita d’importanza di sistemi terziarizzati e reticolari.
Questi ultimi si configurano come reti territoriali che si formano intorno a
grandi imprese, anche di servizi, con forti connotazioni locali e reti
risultanti dalla deverticalizzazione congiunta di grandi imprese industriali e
terziarie in ambiti locali e con forti connotati a specializzazione produttiva
locale.
[1]
http://www.vigevano.it/distretto/distretti.htm