Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (terza parte). Dalla partecipazione controllata alla concertazione

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Sabino Venezia

Questo lavoro costituisce una prima bozza di discussione che la redazione di PROTEO presenta ai propri lettori dalle cui osservazioni ci proponiamo non solo di “ imparare” su un argomento storico-economico tutto aperto e in cui sicuramente non siamo specialisti, ma anche di prender spunto per le correzioni di tiro e gli ulteriori approfondimenti.

1. Le “compatibili necessità” di una ristrutturazione del capitale contro il movimento operaio

Il lungo ciclo delle lotte, e delle conquiste, “dell’autunno caldo” si chiude, di fatto nel 1980, con una grave sconfitta del movimento operaio. La grave crisi della FIAT (6800 mld di debito), in linea con la più grande crisi internazionale del settore automobilistico, già figlia della grande crisi di accumulazione degli anni ’70 ed ancora a tutt’oggi in corso, compresi gli shock petroliferi, si abbatte inesorabilmente sulla classe operaia. Lo sciopero dei “35 giorni” segnerà probabilmente anche sul piano simbolico il punto di caduta del movimento sindacale; alla fine della grave vicenda saranno 33.000 gli operai in cassa integrazione a zero ore (fino al 1987) e tra questi centinaia di delegati sindacali (contro ogni accordo); al rientro ci saranno “reparti confino” ad aspettarli.

Siamo in pieno processo di ristrutturazione economico-produttiva ma che viene da lontano, così come da lontano arrivano le avvisaglie di un progetto di attacco al movimento dei lavoratori che si espliciterà ancor più negli anni ’80, ’90 e fino ad oggi grazie alla collaborazione dei sindacati confederali.

In Italia dal dopoguerra ad oggi si possono individuare molti modelli geografici e sociali dello sviluppo economico; in particolare si nota il passaggio da un modello di progressiva concentrazione territoriale della produzione, del reddito e della popolazione, ad un modello di diffusione locale delle dinamiche di sviluppo che ha interessato aree a rilevanza intermedia, che ha come obiettivo quello di disarticolare l’unità di classe dei lavoratori.

Si può affermare che l’economia italiana si è sviluppata con delle caratteristiche particolari che comportano dei paradossi e delle contraddizioni, ma tutte finalizzate a riportare il conflitto a vantaggio del capitale.

Come si è visto nelle puntate precedenti il boom economico degli anni ’50 ha visto la nascita di grandi famiglie capitalistiche che, passate indenni al processo di trasformazione economica-sociale post-conflitto mondiale, hanno inciso profondamente nelle modalità dello stesso sviluppo complessivo. Considerando che l’Italia fino alla seconda guerra mondiale era un paese basato su un’economia prevalentemente agricola, va segnalato che lo sviluppo industriale avutosi tra gli anni ’50 e gli anni ’70 si è concentrato solo su alcune zone del Paese senza estendersi alle aree più depresse.

L’industrializzazione che caratterizza questi anni ha comportato un divario tra il Nord e il Sud del Paese, determinato soprattutto dal fatto che mentre per il Settentrione si sono adoperate politiche di integrazione con gli altri paesi europei, il Mezzogiorno è invece rimasto sempre più isolato economicamente e socialmente. Ed è stata quindi la famiglia padronale, sia essa fondata su aristocrazie cittadine sia caratterizzata da un congiunzione solidale, ad essere la principale protagonista dello sviluppo economico del nostro Paese. Si è passati dall’affermazione della piccola e media impresa familiare allo sviluppo della grande impresa familiare che ha rappresentato la colonna portante del nostro sistema economico per vari decenni.

Negli anni ’70 si attua il cosiddetto “decentramento produttivo” che scorporando alcune fasi del processo di produzione le indirizza verso imprese di minore dimensione. In questo senso la piccola impresa si caratterizza sempre più per una elevata indipendenza dalla grande azienda committente, in quanto si specializza e si caratterizza per la sua innovatività e ciò diventa funzionale allo smembramento delle concentrazioni operaie nelle grandi fabbriche proprio per indebolirne la capacità di conflitto.

Lo scenario che si presenta nella realtà italiana è quindi caratterizzato in primo luogo dalla presenza di grandi holding private (a carattere familiare con il supporto del manager); ci sono poi le imprese pubbliche che hanno sostenuto lo sviluppo ed infine un numero elevato di piccole e medie imprese le quali per la loro innovatività si caratterizzano per un elevato livello di efficienza. In sostanza nella piccola e media impresa vi è una presenza costante e continua dell’imprenditore-proprietario, invece, nelle imprese di grandi dimensioni, caratterizzate da una elevata concentrazione della proprietà, si verifica qualche caso di incrocio azionario tra le più grandi famiglie industriali del Paese.

Va rilevato che mentre nella piccola impresa i lavoratori e l’imprenditore provengono spesso dallo stesso contesto socio-culturale, essendo a volte appartenenti allo stesso nucleo familiare, nella grande impresa basata su rapporti di gerarchia non mediati e su grandi concertazioni operaie è invece presente un forte conflitto tra i diversi soggetti economici interessati.

Si assiste in sostanza ad una forma di imprenditoria di élite tipica delle grandi aziende, all’imprenditoria della piccola e media impresa ed infine all’imprenditoria assistita. Questa situazione fa risaltare lo storico problema delle Tre Italie imprenditoriali, in quanto gli imprenditori d’élite sono concentrati nell’Italia settentrionale, al centro troviamo un tipo di imprenditorialità diffusa mentre al sud si trova il cosiddetto “imprenditore assistito” legato al sistema politico.

Si realizza in sostanza già a partire dagli anni ’70, per poi rafforzarsi negli anni ’80, una forma di industrializzazione diffusa con al centro i distretti che ha il vantaggio di associare i benefici della piccola dimensione con quelli della grande. È in tale chiave che va letta la grande importanza che viene attribuita al nuovo concetto di distretto, industriale e terziario.

Infatti, nell’ambito di un area geografica ben delimitata si raggruppano un agglomerato di imprese appartenenti al medesimo settore (ad esempio: le ceramiche a Sassuolo, le maglierie a Carpi, l’industria delle pelli e del cuoio in Toscana). In questi distretti si viene così a creare un patrimonio di conoscenze tecniche e specializzate nel settore e quindi, la struttura produttiva permette di sviluppare prodotti qualitativamente pregiati. Inoltre, in queste microaree geografiche viene a realizzarsi una quasi piena occupazione, sia diretta che indiretta; e anche se i salari sono mediamente più bassi di quelli delle grandi imprese, grazie alla piena occupazione, nel suo insieme, si realizzano redditi familiari più elevati.

Va ricordato che

L’industria manifatturiera italiana si fonda su alcune particolari caratteristiche che ne definiscono il successo sui mercati internazionali:

- una dimensione media d’impresa più piccola di quelle dei paesi nostri concorrenti (10 addetti in Italia contro i 17 in Giappone, 25 in Germania, 60 negli USA, 85 nel Regno Unito);

- un modello di specializzazione industriale in cui un ruolo importante è giocato da settori ad alta intensità di know-how, di design, di gusto e di creatività e a bassa o medio-bassa intensità di capitale;

- una presenza significativa di sistemi locali d’impresa, di cui circa un centinaio sono Distretti Industriali.

Nei Distretti italiani operano oltre 60.000 imprese con circa 600.000 addetti che realizzano circa 120.000 miliardi di lire di fatturato, pari ad una quota del 10% circa del Prodotto Interno Lordo industriale italiano; sono sistemi di imprese che, nelle fasi congiunturali difficili, hanno dimostrato una capacità di tenuta maggiore di quella media dei settori industriali.

I settori di specializzazione dei Distretti riguardano prevalentemente i beni per la persona o per la casa e i beni strumentali. Il sistema moda (tessile-abbigliamento-calzature) e il sistema legno-arredo costituiscono una parte rilevante nel panorama dei Distretti italiani,in cui sono rappresentati tutti i principali settori del Made in Italy [1].

Un distretto industriale, quindi, come rappresentazione ed evoluzione del modello capitalistico italiano, volto a raggiungere alti livelli di competitività internazionale, attaccando i diritti e le garanzie dei lavoratori, a partire dall’abbattimento del costo del lavoro. È per questo che nell’economia del distretto si trova una forte specificità, una propria dimensione socio-economico e territoriale, definita in funzione delle relazioni di coercizione comportamentale complessiva che si instaurano tra imprese e comunità locale e una specifica forzata capacità autocontenitiva in relazione a domanda e offerta di lavoro.

Una visione delle economie locali e nazionali sempre più classista ed intollerante che assume le modalità relazionali socio-economiche rappresentate dal rafforzamento e trasmissione forzata comportamentale di alcune imprese locali, o gruppi di imprese. Gruppi economici nazionali che in alcuni paesi, come ad esempio l’Italia, stanno assumendo un ruolo guida nell’influenzare le azioni economiche e sociali dei soggetti economici locali che avevano in passato fortemente caratterizzato l’evoluzione dei distretti.

Un modo di fare impresa, uno scompaginamento, modelli comportamentali coercitivi verso la forza lavoro, da parte dell’impresa medio-piccola, ma sussulti ad esempio da tutto il modello capitalistico italiano, che nel contempo suggeriscono un approfondimento a livello sociale in modo più disaggregato.

Sono gli anni della ristrutturazione capitalistica caratterizzata da una atavica necessità per le imprese: estendere ed accrescere il livello di flessibilità della forza lavoro, per fronteggiare l’ampliamento dei mercati e tenere il confronto con la globalizzazione della concorrenza.

È per questi motivi tutti interni alle dinamiche di riconversione produttiva e di ristrutturazione del capitalismo italiano entro il ruolo assegnatogli dalla ridefinizione per aree geoeconomiche del capitale internazionale e alla connessa divisione internazionale del lavoro, che va letta anche la storia sindacale degli anni ’80 e degli anni ’90.

2. Crisi del capitale e subalternità sindacale

Nel marzo del 1979 l’Italia, dopo un lungo e contrastato dibattito politico, aderisce al Sistema Monetario Europeo. È opinione comune che il vincolo esterno della stabilità dei cambi possa obbligare il Paese a seguire una politica di stabilità monetaria. Infatti, con l’entrata nel sistema di cambi stabili, l’Italia non può più affidarsi allo strumento inflazionistico e della svalutazione per fronteggiare l’aspra concorrenza nei mercati mondiali. Gli strumenti più idonei per far fronte a questa nuova realtà sono l’aumento della produttività e la riduzione del costo del lavoro. Ne è una conseguenza diretta il cosiddetto piano Pandolfi, presentato al Parlamento nel febbraio del 1979, che ha come esigenza primaria, quella, appunto, di assicurare l’efficienza del sistema produttivo. Il “piano” si propone di effettuare il blocco dei salari per tre anni, un ampia restaurazione della mobilità del lavoro, una riduzione della spesa sociale e infine un aumento dei trasferimenti a favore delle imprese per incentivare la ristrutturazione e l’ammodernamento tecnologico. Alcuni di questi obbiettivi sono destinati a realizzarsi anche se in un periodo molto lungo di tempo, mentre altri trovano un’applicazione immediata nel settore della politica monetaria. Se in passato, infatti, si era preferito finanziare la spesa pubblica anche diminuendo qualche risorsa al settore privato, ora per accrescere l’ammodernamento del sistema produttivo, si dà l’avvio al processo opposto.

Nel 1980, viene varata la riforma dell’emissione dei Buoni Ordinari del Tesoro, che porta al “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia. Infatti se in passato, a ogni emissione dei BOT, la Banca d’Italia aveva comprato tutti i titoli non sottoscritti dal mercato (2), nel 1980 si stabilisce che il Tesoro si sarebbe affidato soltanto ai titoli emessi dal mercato, senza alcun obbligo da parte della Banca d’Italia di acquistare il residuo. Questa riforma produce dei sostanziali cambiamenti: nel 1978 oltre il 27% del debito totale del settore pubblico era verso la Banca d’Italia; tale percentuale è gradualmente ridotta negli anni fino a raggiungere il 6,7% nel 1994. Obbiettivo immediato raggiunto dalla normativa del “divorzio” è quello di lasciar maggiore spazio al finanziamento del settore privato.

Comunque, questo indirizzo di carattere generale non mitiga il dilagare dell’inflazione. Infatti, l’aumento dei prezzi supera il 20% annuo nel 1980 e rimane molto alto fino al 1984. Mentre negli anni passati tale fenomeno, come si è detto, era di origine prettamente salariale, in questi anni le ragioni che portano all’aumento dell’inflazione sono sostanzialmente tre: inflazione importata; inflazione dei prezzi amministrati; inflazione dei tassi di interesse.

Ma se negli anni dei cambi flessibili l’inflazione era “ben vista” dalle imprese (come strumento per aumentare i prezzi più dei salari e ridurre il costo reale del lavoro), in seguito con la stabilità dei cambi esteri, l’inflazione viene considerata negativamente perché riduce la competitività dalle imprese stesse con l’estero.

Inoltre, la bilancia commerciale italiana va lentamente, ma inesorabilmente, deteriorandosi. Infatti, in quasi tutti i settori dell’industria manifatturiera si hanno saldi passivi. Per arginare questo fenomeno, le autorità italiane adottano un metodo opposto a quello consueto, ovvero considerando il disavanzo dei movimenti di merci come una conseguenza della politica di stabilità dei cambi esteri e quindi, inclini a compensarlo mediante importazioni di capitali.

A tal fine, i tassi di interesse vengono tenuti più alti di quelli degli altri mercati finanziari, in conseguenza di ciò, per gli speculatori stranieri si aprono possibilità di investimenti particolarmente vantaggiose. E per agevolare gli ingressi di capitali, le autorità italiane avviano un processo di liberalizzazione dei mercati finanziari (anticipando addirittura le scadenze comunitarie), realizzando la piena libertà dei movimenti dei capitali nel 1990.

Una conseguenza dei limiti della politica dei “tassi elevati”, è quella di far crescere, fino a livelli ormai non più gestibili, il debito pubblico; una seconda conseguenza sono gli effetti depressivi che tassi così elevati producono sugli investimenti. Un’ultima conseguenza è l’indebitamento crescente dell’economia italiana verso l’estero. L’Italia, quindi, non potendo collocarsi nei settori più avanzati, si specializza nelle produzioni quali abbigliamento, cuoio, calzature, macchinari agricoli, ecc.

Sul terreno reale sono determinanti a rendere fragile la posizione commerciale italiana diverse componenti. In primo luogo, i già citati Nuovi Paesi Industrializzati: questi Paesi hanno produzioni simili a quelle italiane, ma con costi del lavoro decisamente inferiori.

Il secondo fattore, che contribuisce all’indebolimento dell’economia nazionale, è l’allargamento della Comunità Europea ad altri Paesi quali Spagna, Grecia e Portogallo, anch’essi diretti concorrenti dell’industria italiana.

Tutto questo, avvenuto in poco tempo, ha seriamente minato l’industria italiana. Chiuse tra inflazione interna e i cambi stabili, le grandi imprese adottano una politica ostile contro gli aumenti salariali e attuano uno sforzo per aumentare la produttività media del lavoro. Da una parte ingaggiando una battaglia violenta per ottenere la riforma del meccanismo della scala mobile (obbiettivo peraltro raggiunto nel 1992), dall’altra realizzano una profonda revisione dei processi produttivi. Tutti i periodi dello sviluppo economico del nostro Paese hanno creato una crescente differenziazione territoriale e sociale, poiché queste fasi accentuano i flussi migratori e i processi di urbanizzazione, i processi di espulsione dalle garanzie del reddito, con conseguenti fenomeni socio-economici che trasformano e modificano i rapporti centro-periferia in chiave geografica, e garantiti-non garantiti in chiave economica, accrescendo la schiera delle nuove marginalità, delle esclusioni, delle nuove povertà.

Sempre secondo tale interpretazione socio-economica vanno analizzate proprio e soprattutto a partire dagli anni ’80 le trasformazioni tecnologico-produttive che caratterizzano alcune realtà territoriali, determinando la crescita d’importanza di sistemi terziarizzati e reticolari. Questi ultimi si configurano come reti territoriali che si formano intorno a grandi imprese, anche di servizi, con forti connotazioni locali e reti risultanti dalla deverticalizzazione congiunta di grandi imprese industriali e terziarie in ambiti locali e con forti connotati a specializzazione produttiva locale.-----

Il ruolo affidato nell’ambito della divisione internazionale del lavoro, in particolare dalla fine degli anni ’70 proprio per comprimere la forza espressa dal movimento operaio nei due decenni precedenti, porta il capitalismo ad ipotizzare un superamento dell’era fordista e pone anche l’Italia in una fase di ridefinizione del capitalismo con caratteri post-industriali, superando nei fatti le logiche interpretative di tipo industrialista ed “operaista”. Si passa, così, ad una gerarchizzazione dei modelli dello sviluppo basata principalmente sulle modalità di trasformazione sociale ed economica che vedono emergere modalità dello sviluppo incentrate sul terziario e sempre più nuove soggettività del lavoro precario e non garantite. Si evidenzia, quindi, un terziario che interagisce e si integra sempre più con le altre attività produttive, soprattutto quelle industriali, determinando un nuovo modello organizzativo di sviluppo con al centro le attività del terziario tradizionale fino ai servizi più avanzati, passando dal modello delle “Tre Italie” allo sviluppo cosiddetto a “pelle di leopardo”, fino a quello che in altri lavori abbiamo definito come “tessuto a multilivello di irradiazione terziaria”. Si tratta in sostanza di un terziario implicito ed esplicito, esternalizzato, che ha assunto in particolare poi negli anni ’90, un ruolo sempre più propulsivo e trainante del modello di sviluppo economico, non spiegabile soltanto da semplici processi di deindustrializzazione o di ristrutturazione e riconversione industriale, ma dalle esigenze di ristrutturazione e diversificazione del modello di capitalismo italiano.

In questi anni riappare una figura quasi dimenticata dopo la grande crisi degli anni trenta, ossia il disoccupato classico da crisi strutturale. Questo si evidenzia sempre più frequentemente nelle regioni della grande industria, dove i grandi poli industriali hanno progressivamente ridotto la manodopera. Se nel Nord un fatto di questo genere risulta fuori dall’ordinario, nel Meridione quello che era un problema strutturale assume una valenza cronica.

In tale schema macroeconomico cambia la considerazione dell’impresa non più da individuare come aggregato indistinto, ma piuttosto in funzione del grado di flessibilità imposta al lavoro, finalizzato all’interazione con le altre imprese in modo da realizzare aggregazioni territoriali che caratterizzano il nuovo modello di sviluppo basato sulla fabbrica sociale generalizzata.

Nascono, quindi, forme di occupazione tra le più svariate: contratti a tempo determinato, contratti di formazione, apertura di agenzie di lavoro interinale, ecc...

Non stupisce quindi che l’Istat classifichi un insieme di figure fino ad allora marginalmente conosciute quali:

- gli irregolari: lavoratori dipendenti pienamente occupati, ma non registrati nei libri paga del datore di lavoro;

- gli occupati non dichiarati: persone che, svolgendo un’attività insufficiente o insoddisfacente, si dichiarano disoccupati;

- gli stranieri: coloro che non risultano in regola con il permesso di soggiorno;

- i lavoratori che svolgono un secondo lavoro (6).

In quegli anni le relazioni dell’Istat indicano che sul totale dell’unità di lavoro, il 15-20% sarebbe non regolare. Tale cifra sale al 30-35% nel Mezzogiorno e addirittura al 40% nell’industria meridionale.

Contribuiscono, ad aggravare il fenomeno della disoccupazione, le grandi masse di immigrati che affluiscono nel nostro Paese. Infatti, mentre in questi anni si riduce drasticamente il fenomeno di emigrazione, al contempo cresce in maniera esponenziale quello delle immigrazioni. C’è da dire poi che molti immigrati, pure essendo in possesso di regolare permesso di soggiorno, esercitano anche attività lavorative non regolari. Questi trovano occupazione nel Centro-Nord nel settore industriale e scarsamente nei servizi, mentre nel meridione nel settore agricolo, in prevalenza con lavori di tipo stagionale.

Una nuova struttura del mercato del lavoro realizzata tramite marginalizzazione, precarizzazione ed espulsione dei soggetti economici e sociali non compatibili.

Nell’ultimo periodo in esame, peggiora ulteriormente il numero degli occupati nell’industria, mentre continuano ad aumentare i lavoratori impiegati nella piccola e media impresa, ovvero nei distretti industriali.

I distretti industriali vengono a costituire un soggetto economico e geografico del tutto particolare.

A tal proposito è significativa la tabella 2, che evidenzia come i distretti industriali siano ancora per tutti gli anni ’80 effettivamente una componente fondamentale della nostra economia (Fonte: Istat).

In percentuale abbiamo, infatti, che le piccole e le medie aziende nazionali esportano quote del fatturato pari a quelle grandi. Ma mentre le grandi aziende hanno subìto nel periodo 1983-1992 un calo, le piccole realtà hanno mantenuto sostanzialmente gli stessi valori; invece per quanto riguarda le medie imprese notiamo addirittura un netto miglioramento negli anni.

La competitività delle piccole imprese, quindi, non differisce molto da quelle grandi nel settore manifatturiero. Va notato, tuttavia, che questo dato è fortemente influenzato dal fatto che le piccole e medie imprese sono generalmente sub-fornitrici e non fornitrici dirette di prodotti e quindi, più propense ad agire sul mercato nazionale che su quello internazionale. Questo comporta che i dati relativi alle piccole e medie imprese potrebbero essere più alti se considerati in settori differenti da quello manifatturiero.

Gli anni ’80 si sono caratterizzati, oltre che per una diminuzione degli occupati nel settore agricolo, anche e soprattutto per una forte espansione di occupazione nel settore terziario che è cresciuto del 6% rispetto all’anno 1971.

La caratteristica principale di questi anni fu comunque l’emergere di una classe lavoratrice intermedia che andò a sostituire mano a mano le precedenti figure occupazionali operaie tradizionali.

Nel ramo dell’industria, si attua negli anni un calo del tasso medio di variazione della produttività, soprattutto nel settore manifatturiero che evidenzia una tendenza al ribasso alla fine degli anni ’80, inizio del ’90, dopo la lunga fase di sviluppo che l’ha interessata dal 1980; ossia nell’industria si ha uno sviluppo riguardante i rami innovativi a svantaggio di quelli tradizionali, nei quali si usa un’elevata intensità di lavoro.

In sostanza gli occupati nell’industria crescono fino al 1981 (il valore di quest’anno è il massimo registrato) e cominciano a diminuire negli anni seguenti sia per un aumento della produttività dovuta all’innovazione tecnologica sia per la competizione internazionale.

Analogamente a questo andamento decrescente, si ha invece un accentuato mutamento nel settore dei servizi.

La crescita di occupazione nel settore terziario necessitava di qualifiche e istruzione superiori rispetto agli anni precedenti in quanto, mentre per gli occupati nel settore primario e secondario non era necessaria una istruzione adeguata, l’inserimento nel settore terziario prevedeva una formazione più elevata.

Prende forma in quegli anni una rinnovata strategia capitalistica (una ripresa dell’imperialismo simile a quella precedente il primo conflitto mondiale) che si concretizzerà successivamente in un nuovo ciclo produttivo legato alla produzione immateriale (il capitale informazione), che affonderà le sue radici nella finanziarizzazione dell’economia, subordinando il sindacalismo riformista al potere del capitale, e che produrrà importanti trasformazioni nel mondo del lavoro.

Il declino della grande impresa fordista basata sulle risorse del capitale materiale modifica anche i rapporti fra il sindacato e la direzione dell’impresa. Se in passato la prevalenza della grande impresa ha dato luogo a un rafforzamento del sindacato e di conseguenza un miglioramento e una tutela della vita lavorativa, il sopravvento delle imprese più piccole porta a un capovolgimento della situazione. L’occupazione dei lavoratori diviene molto più instabile e precaria, vi è, infatti, una minore tutela delle condizioni normative (rispetto delle norme sull’orario di lavoro, sullo straordinario e sulle ferie) e sulla sicurezza del lavoro.

Se gli anni ’70 appaiono come quelli in cui il conflitto sociale ha raggiunto livelli importanti (in un contesto di capitalismo internazionale fortemente in crisi e che in apparenza si avvia verso un processo irreversibile), non va però sottaciuto che, proprio in quegli anni di crisi del capitalismo, si sviluppa la crisi della soggettività di classe. Infatti in questi anni si è ridotto molto il ruolo dei sindacati che non hanno saputo imporsi, anzi che hanno scelto la via dell’istituzionalizzazione consociativa, svendendo le conquiste che i lavoratori avevano ottenuto negli anni precedenti; questo è avvenuto anche se i numeri delle iscrizioni ai sindacati rimasero pressoché costanti.

Il sindacalismo confederale si è trasformato in una appendice istituzionale funzionale solo ai progetti di gestione e di ristrutturazione della società determinati dai gruppi politici dirigenti e dai grandi centri di potere finanziario, appendice istituzionale che deve però mantenere aperti spazi e prospettive a quelle sacche di iscritti e simpatizzanti, specie nella CGIL, che ancora credono nella necessità del conflitto sociale; da qui la necessità, sporadica, di “funzionare” l’ipotesi di piazza attraverso lo spauracchi dello sciopero, con due tragici aspetti: inflazionare l’istituto rivendicativo dello sciopero, già delegittimato dalle norme di autoregolamentazione (vero bavaglio al dissenso organizzato) e normalizzare gli strumenti di condivisione delle politiche (elemento che tra qualche anno darà vita all’infelice epoca della CONCERTAZIONE).

3. Istituzionalizzazione versus democrazia

L’intervento sulla forza lavoro diventa inevitabile e si concretizza con la messa in crisi del compromesso keynesiano: sindacato e Stato sociale non bilanciano più la potenza dell’impresa capitalistica, che diventa egemone.

È la conseguenza logica della “linea dell’EUR”, la linea del contenimento delle rivendicazioni, della “compatibile necessità”, per meglio affrontare la crisi e la conseguente ristrutturazione, una pratica che produrrà “una profonda amputazione della democrazia del sindacato...”  [2] nella quale neanche la CGIL riesce a svolgere un ruolo efficace.

I 35 giorni della FIAT segnano inesorabilmente un punto di svolta nell’ordinamento democratico del sindacato, “in esso ci sono già tutti gli elementi di un regime di democrazia autoritaria, della centralizzazione delle decisioni, dell’emarginazione dei delegati. Sono proprio queste negative premesse che troveranno sviluppo negativo negli anni ’80.”  [3]

Quello citato è solo un aspetto della crisi di rappresentanza democratica che caratterizza gli anni a venire o, per meglio dire, è uno strumento che contribuirà al processo di istituzionalizzazione del sindacato; accanto ad esso la borghesia, che articola il percorso di ristrutturazione capitalistica, ha necessità di sviluppare altri due importanti filoni:

1. agevolare la “normalizzazione” del partito operaio in partito classico compatibile;

2. separare lo Stato dalla società, al fine di rendere il primo non condizionabile dal fiorire dei movimenti antagonisti.

Volendoci soffermare un istante sulla diminuzione di autonomia (fino alla scomparsa) e sul conseguente processo di istituzionalizzazione del sindacato, dobbiamo dire che questo fenomeno ha radici antiche, anche se sarebbe sbagliato inserirlo in un “percorso continuato”. Se analizziamo il sindacato dei Consigli, pur con tutte le riserve del secondo periodo della sua esistenza, quando già la democrazia interna veniva meno, vediamo come l’agire sindacale scaturiva da un mandato attribuito dai lavoratori. Negli anni ’80 cambia il senso di questo agire ed il sindacato è legittimato da un consenso che viene dall’impresa (o dal Governo) e che poi trasforma in agire proprio per determinare il consenso dei lavoratori, accettando, di fatto, la perdita della propria autonomia e l’inserimento (istituzionalizzazione) tra quelle forze: Governo (partiti, schieramenti,...) e imprenditori (Confindustria, lobby, gruppi di potere,...) che rappresentano il potere costituito.

“Si impone l’esigenza... di cogliere, attraverso nuovi contenuti contrattuali (partendo già dall’applicazione dei contratti nazionali) le esigenze di flessibilità nella produzione e nei servizi, le aspettative e i bisogni dei lavoratori nei confronti del lavoro” oppure, “nella contrattazione di nuove occasioni di ingresso al lavoro di giovani in cerca di prima occupazione... si può considerare, per periodi temporaneamente definiti, la possibilità di livelli inferiori di retribuzione (salario di ingresso) da definirsi in sede di Contratto Collettivo Nazionale” e ancora, “...obiettivi prioritari: a) la contrattazione di calendari di lavoro rispetto all’andamento della produzione e della specificità produttive (punte di mercato, stagionalità, ecc.) affermando anche una varietà di regimi di orario nella stessa azienda” [4].-----

Il decennio che segue segna svariati punti di caduta e le ripercussioni sul mondo del lavoro sono sotto gli occhi di tutti, ma anche il sindacato accusa il colpo, e anche il sindacato “più lontano” da queste soluzioni: “la CGIL rivolge in primo luogo un appello affinché il tentativo di scaricare sul sindacato e sui lavoratori la responsabilità di produrre nel sindacato stesso elementi di crisi e di scoraggiamento, sia battuto, come condizione per perseverare la forza dei lavoratori e la potenzialità del cambiamento. L’attacco al sindacato si configura ormai chiaramente come contestazione e messa in mora del proprio ruolo rappresentativo di agente contrattuale” [i].

Con l’aumentare del processo di istituzionalizzazione viene meno, come si è visto, il concetto di democrazia nel sindacato.

Quello che si comincia a registrare è una pratica mai vista in forme così generalizzate: l’arbitrio sindacale. La consultazione dei lavoratori diventa facoltativa, di fatto, come di fatto il suo esito, qualora richiesto, può essere tenuto o meno in considerazione dal sindacato.

Viene meno la democrazia perché viene meno l’autonomia che ha prodotto un unico soggetto sindacato-classe; viene meno l’autonomia del sindacato perché vengono meno le fondamenta, democratiche e partecipative, nella costruzione di un progetto sindacale.

Perdita di democrazia, processo di istituzionalizzazione, arbitrio sindacale, facce di un unico poligono che annovera un ulteriore segmento, la “maggiore rappresentatività”, una logica protezionistica, un “elemento di possibile e sistematica corruzione dell’impegno democratico nella verifica della sua azione” [i].

Mentre la CGIL puntualizza almeno nelle intenzioni dichiarate la ferma opposizione alla politica dei redditi ed a qualsiasi limitazione all’autonomia sindacale come elementi non superabili dalla pratica della partecipazione, la CISL apre all’ipotesi di una “responsabile partecipazione allo studio, all’elaborazione, alla formulazione ed all’applicazione del programma ...perché l’importanza che nel mondo moderno assumono le organizzazioni sindacali dei lavoratori, dà ad esse il diritto ed il dovere di influire sui comportamenti della politica e economica” [5].

Siglare accordi determina un gioco al ribasso: il 22 gennaio dell’83 si diminuisce il costo del lavoro con l’alleggerimento della scala mobile (che ben presto verrà cancellata) e in cambio si ottiene una riduzione del carico fiscale in busta paga e l’adeguamento degli assegni famigliari. I tre sindacati confederali applicano da subito una programmazione istituzionalizzata contro il conflitto concertando con la Confindustria sul costo del lavoro. Unico rattoppo - che però non accontenta nessuno - è quello di decurtare il punto di contingenza del 15 per cento. Si bloccano le contrattazioni aziendali e si diminuisce l’orario di lavoro; l’inizio della concertazione passa per programmazione nella quale tutta la politica, come capacità alta di mediazione, è assente dai gravi problemi economici che sta attraversando il Paese e anzi l’unico progetto politico sembra essere quello di distruggere completamente ogni residua ipotesi di affermare l’autonomia di classe.

I commenti dei vertici confederali, subito dopo la firma dell’accordo sulla riduzione del costo del lavoro, erano contrassegnati dalla convinzione e dalla certezza che questa firma sbloccava le trattative sui contratti, scaduti da oltre 14 mesi e fermi al punto di partenza.

Passata l’euforia del post-accordo (scriveranno le RdB in una analisi retrospettiva in occasione della presentazione del Progetto di legge sulle libertà sindacali nei posti di lavoro) è ripreso il balletto degli scioperi burla da parte del sindacato e delle dichiarazioni di fuoco del padronato con accuse, che rimbalzano da una parte all’altra di non rispettare i contenuti dell’accordo. E così, mentre questo balletto si trascina tutt’ora, i contenuti ufficiali delle piattaforme subiscono un ulteriore ridimensionamento e la firma dei contratti avviene su un terreno ancora più basso”  [6].

Vengono immediatamente accantonati i lavoratori di basso livello (2°-3°), “quello che gli spettava l’hanno avuto il 22 Gennaio” dirà Lama al Comitato Direttivo CGIL del 17 e 18 Febbraio, perché i contratti devono servire per premiare la professionalità, la produttività, i quadri e l’orario di lavoro. La distanza salariale torna a diventare enorme e si sposta per una riparametrazione a favore dei vertici più alti delle gerarchie dei posti di lavoro. Il salario riassume tutto il valore discriminatorio degli anni 69 - 70; viene inserita per la prima volta in un contratto privato la voce “indennità di funzione” (chimici), vecchio strumento clientelare nel pubblico impiego per i livelli più alti. A fronte di ridicole riduzioni di orario, vengono accettati sfondamenti nell’uso dello straordinario anche di 80 ore (calzaturiero) e 120 ore (chimico) mentre nel metalmeccanico le riduzioni a 40 ore previste per il ’79 vengono spostate all’86. Nella sanità, il 10 % dei lavoratori (i medici) portano a casa un rinnovo contrattuale pari al 60% del valore stanziato dal Ministero della Sanità. Eppure, nonostante tutto questo, i sindacati confederali continuano a chiamare allo sciopero, impoverendo ancora di più le tasche dei lavoratori, per dimostrare che quel poco che otterranno sarà stato frutto di sacrifici e di lotte, mentre invece la frequentazione del “potere” piace ai vertici sclerotizzati e sempre più sulla strada del definitivo abbandono degli interessi di classe.

Gli scioperi nella “programmazione istituzionalizzata” e nella “partecipazione controllata” sono davvero troppo poco per rappresentare degnamente un conflitto sociale, troppo poco per non sentire, forte, il grido di allarme della classe operaia che si ribella e della società che non ha più fiducia nella sponda sindacale.

Sono questi gli anni in cui l’attacco al sindacato autoritario e burocraticizzato arriva da più fronti, anche da frange di estremismo e della stessa area della “lotta armata” che proprio nelle fabbriche aveva ricostruito la sua rinascita, favorita dalla politica di rinuncia e di accettazione consapevole delle scelte padronali in quel terreno di cultura fatto di alienazione, di precariato, di connivenze dei capi e capetti con i padroni e di clientelismo mediato dallo stesso sindacato tradizionale, ormai del tutto istituzionalizzato, che non rappresenta gli interessi di classe. Un sindacato che si svuota progressivamente di democrazia e che si struttura in senso verticistico, trascurando il diritto alla rappresentanza, elemento sostanziale della democrazia dei consigli che aveva caratterizzato gli anni ’70; un sindacato che sperimenta la mediazione moderata (che diventerà concertazione), che indica la strada della partecipazione al ribasso e controllata dai voleri padronali e dei vertici sindacali corrotti senza più spinta ideale e assorbiti dalla logica clientelare e dal favoritismo; una sorta di logica di scambio in cui gli interessi dei lavoratori sono lesi a favore di quelli del sindacato.

Un vero e proprio assedio ha stretto in questi anni il sindacato. Si sono aperte divisioni al suo interno, tra esso e i lavoratori, si è ristretto il fronte di lotta, in particolare quello tra occupati e disoccupati, si è registrata una grave caduta dell’unità tra Nord e Sud”  [7].

Le RdB, che denunciano con largo anticipo i risvolti nefasti di questo accordo e le ripercussioni in termine di garanzia di adeguati livelli salariali, scriveranno il 1° Maggio: “...il rifiuto di questa farsa, il boicottaggio attivo delle scadenze sindacali appare il terreno migliore per impegnare le nostre forze nel progetto di ricostruzione di una organizzazione sindacale di classe per la difesa degli interessi materiali dei lavoratori ai quali aggiungere il diritto alle libertà sindacali nel momento in cui CGIL-CISL-UIL RIVENDICANO OBIETTIVI CONTRARI agli interessi della stragrande maggioranza dei lavoratori” [8].

4. Ripresa dell’iniziativa di classe e sviluppo del sindacalismo di base

È in questo contesto di ribellione che si consoliderà l’alternativa ai sindacati confederali attraverso un percorso che non mira né alla legittimazione del sindacato-istituzione, né alla gestione del potere ma esclusivamente a dar voce alle istanze dei lavoratori, attraverso un sistema di delega diretta e rapidamente sostituibile. Si intersecano e si rielaborano con successo le esperienze dei Comitati di lotta e dei Comitati Unitari di Base, si confrontano le esperienze dei Consigli di Fabbrica e di Zona, con l’operazione delle Liste di Lotta, con le realtà in lotta per la casa, per la soluzione del precariato (L.285/80).

Verso la fine del decennio degli anni ’70, grazie alla riproposizione del contesto politico e sindacale che ne aveva determinato la nascita e grazie anche alla corretta individuazione degli elementi che ne avevano decretato la fine, si svilupperanno modelli simili di sindacalismo di base che faranno dell’autonomia di classe, dell’indipendenza dai partiti e dalla politica consociativa e concertativa dei sindacati storici la strategia di lunga durata e della coerente rappresentanza della base lo strumento di lotta quotidiana.

Già nell’Aprile ’79 alcuni rappresentanti dei lavoratori della sede centrale dell’INPS di Roma, componenti del Consiglio dei Delegati, regolarmente eletti, tentano di ridisegnare un modello di democrazia partecipativa in forte contrasto con la segreteria provinciale FLEP e con il resto del CdD (CGIL-CISL-UIL) dando vita ad un Comitato di Lotta contro il rifiuto costante del CdD di tener conto delle volontà dell’assemblea: “I ‘signori delle tessere’ della FLEP, questa sorta di monarchia sindacale, non si sono resi conto ... che lo scontro che si è determinato in questi anni ha fatto crescere la coscienza dei lavoratori, il rifiuto delle deleghe in bianco e della accettazione della ragion di stato che ha sempre segnato le più pesanti sconfitte per i lavoratori” [9].

Le RdB (Rappresentanze Sindacali di Base) nate da alcune esperienze di fabbriche metalmeccaniche alla fine degli anni ’70, si svilupperanno poi nel Pubblico Impiego e nelle lotte del precariato costituito con la legge 285/77 avviando un percorso di organizzazione stabile. Si affermano poi come realtà sindacale consolidata, con strutture di federazione radicate su tutto il territorio nazionale, fortemente caratterizzata da una attenta analisi e da una corretta strategia che ne legittima il peso sullo panorama sindacale nazionale. Le RdB sapranno coniugare gli elementi portanti dell’esperienza dei sindacati di base del decennio precedente (l’indipendenza dai partiti e il costante rapporto con la base) adeguando costantemente le strategie alla fase politica di riferimento, con un occhio sempre attento (dalla base) all’involuzione delle dinamiche sociali frutto del capitalismo selvaggio ed un altro vigile sullo scenario internazionale. Le RdB saranno elemento indispensabile per la costruzione della Confederazione Unitaria di Base (CUB), da alcuni anni ormai unica realtà di base tra le Confederazioni maggiormente rappresentative presenti nel Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL).

“La nascita della Rappresentanza di Base è una risposta nuova e più avanzata alle loro illusioni di aver chiuso la partita coi lavoratori. È la proposta non di un nuovo sindacato, ma di un terreno di organizzazione dei lavoratori dove si scontreranno da una parte la volontà di continuare con la gestione “monarchica” del sindacato e dall’altra l’iniziativa di base di coloro che hanno interessi giusti da difendere e vogliono rafforzare il potere contrattuale dentro l’istituto. I principi a cui si ispira la rappresentanza di base sono quelli delle decisioni assembleari e della determinazione di strutture che siano interne ai posti di lavoro e la cui rappresentatività è in funzione delle decisioni che in quelle sedi vengono prese dai lavoratori. La rappresentanza di base, che nasce come strumento unitario, si riconosce nella tradizione di lotta che i lavoratori italiani hanno fino ad oggi espresso per la loro emancipazione e con essa vuole stabilire una continuità ideale”. (da “Statuto della Rappresentanza di Base dell’INPS”).

Negli anni successivi le RdB si svilupperanno nella Pubblica Amministrazione come nel privato e nelle fabbriche adeguando le proprie strategie alle varie fasi politiche, contrastando sempre le pratiche consociative, anche quando queste si determineranno come unica strategia di sopravvivenza per il sindacato confederale (accordi di Luglio del ’93) ed anche quando il sindacato tradizionale da “istituzionalizzabile” diventerà istituzione, quando cioè ci sarà completa osmosi tra ruoli sindacali e ruoli di partito e/o di governo. Le RdB rappresenteranno addirittura quasi l’unica voce fuori dal coro quando i processi di trasformazione della Pubblica Amministrazione si sposteranno prepotentemente verso la privatizzazione e lo smantellamento dello Stato sociale diverrà l’unica meta delle compagini governative, spostate alternativamente a destra a sinistra di quel grande centro che si riproporrà dopo la farsa conclusiva della prima Repubblica.

Alla metà degli anni ’80 alla esperienza delle RdB, già realtà confederata seppure ancora ridotta quantitativamente, si aggiungono due importanti momenti di lotta che rompono l’isolamento dei primi nuclei del sindacalismo di base. Il primo è quello dei macchinisti delle Ferrovie dello Stato che, con una serie lunghissima di scioperi, tutti riusciti, vince la propria battaglia e costituisce “Il Coordinamento Macchinisti Uniti”(COMU).

Il secondo è quello degli insegnanti che, in modo inaspettato e storicamente inedito per il nostro Paese, scioperano e scendono in piazza a decine e decine migliaia; una categoria, fino a quel momento, sempre estranea al conflitto sociale nel nostro Paese. Da quella esperienza nascono i Cobas della scuola.

Questi due momenti di lotta e di organizzazione seppure molto radicati nelle necessità specifiche della categoria rompono l’egemonia di CGIL-CISL-UIL in modo palese e pongono obiettivamente la questione della ricostruzione di una nuova rappresentanza sindacale di classe.

5. A passi svelti verso la concertazione

L’inadeguatezza del quadro sindacale confederale dimostrerà tutta la sua pressoché totale subordinazione al potere del capitale nella stagione dei rinnovi contrattuali dell’83.

Il 13 marzo si chiude il contratto dei chimici.

Scaduto il 30 Giugno 1982, le trattative sono durate 9 mesi con circa 70 ore di sciopero (300.000 £ circa a lavoratore)la prossima scadenza è fissata per il 30.6.86 con una durata contrattuale di 4 anni.

Nessun recupero salariale per i 6 mesi dell’82.

Aumenti scaglionati in 3 anni a partire dall’1.1.’83 e fortemente differenziati a favore dei quadri e dei livelli + alti. Per un operaio di 3° livello l’aumento lordo complessivo sarà di 82.000£ nel triennio. Per i quadri, 7° e 8° liv. è prevista una indennità di funzione pari a 40.000 £ al 7° e 70.000£ all’8°da sommare agli aumenti contrattuali di 114 e 124.000£ lorde.

L’orario di lavoro resta a 40 ore.

Flessibilità dell’orario settimanale. Viene utilizzata questa forma per far fronte alle esigenze produttive dell’azienda. In sostanza si prevede la possibilità, a fronte di un piano annuo di lavoro, di poter stabilire un regime di orario settimanale diverso da quello contrattuale, sia aumentandolo che diminuendolo.

Viene fissato un orario annuo flessibile per combattere l’assenteismo, da 2024 a 2144 ore anno. Il lavoratore che realizzerà l’orario completo, 2144 ore, avrà un premio presenza pari al pagamento delle 120 ore lavorate in più del minimo orario annuo con maggiorazione del 30%. Si tratta di uno straordinario mascherato sotto forma di lotta all’assenteismo e che rappresenta un incentivo alla produttività [10].

Il 31 luglio si rinnova del contratto dei Tessili, scaduto il 31 Maggio dell’82, durata della trattativa 14 mesi con 200 ore di sciopero (circa 1.000.000 £ per dipendente).

Il contratto scadrà il 31.5.86 con una durata superiore ai 4 anni, gli aumenti salariali scaglionati in 3 anni, 1.7.83, 1.7.84, 1.7.85, nessun recupero per i 7 mesi dell’82, 120.000 £ una tantum come recupero dei primi 6 mesi dell’83 (in 3 rate). Aumenti complessivi nel triennio per le fasce operaie (2° e 3° liv.) dove sono ammassati l’80% dei dipendenti, di 70 e 80.000 £ che al netto scendono a 50, 60.000£.

In questo caso i lavoratori tessili impiegheranno qualche anno per poter recuperare una parte del salario perso per “strappare” questo contratto.-----

Inquadramento: il sindacato chiedeva un passaggio in massa al 3° liv. (il 50% dei tessili era al 2°), ottiene solo una minima parte dei passaggi, e media, accettando una indennità di mansione di 10.000£ mensili per la riduzione dell’orario di lavoro il sindacato accetta 40 ore annue di riduzione per gli addetti al settore tessile non turnisti con assorbimento del pagamento di 2 ex-festività soppresse, 36 ore annue per i turnisti con assorbimento delle stesse ex festività.

Malattia: pagamento del 100% solo dopo il 13° giorno di malattia, i primi 13 giorni sono vergognosamente pagati sensibilmente ridotti [11].

Il 1 settembre, infine, si rinnova il contratto dei metalmeccanici, scaduto il 31.12.81, durata della trattativa 20 mesi, con oltre 160 ore di sciopero ogni lavoratore ha perso dalle 700.000 alle 900.000 Lire. scadenza del contratto 31.12.’85, durata contrattuale 4 anni. nessun recupero salariale per il 1982. Per gli otto mesi dell’83 viene concesso un recupero di 226.000 £ lorde. Per compensare lo scivolamento della scadenza contrattuale, 6 mesi, vengono concesse 130.000£ lorde nella busta di Gennaio ’84.

L’orario di lavoro rimane di 40 ore, aumenti salariali scaglionati in 3 anni, Sett.’83, Genn.’84, Genn.’85 e tali da non compensare minimamente la perdita del potere d’acquisto dei salri registrato negli anni di inflazione selvaggia.

Tra gli operai, dove è concentrata l’80% della categoria(2°,3°, 4° livello), gli aumenti netti alla fine del triennio saranno rispettivamente di 55, 60 e 65.000 £.

Per la 7° categoria, quadri e tecnici dirigenti, viene erogato un ulteriore aumento di 70.000£ che li porta ad un aumento di lordo di 192.000£ nel triennio. [12]

Gli anni ’80 verranno quindi ricordati, dal punto di vista sindacale, come la stagione della flessibilità, “la crisi economica rendeva certamente difficile pretendere troppo per i lavoratori, ma il sindacato andò oltre, si fece carico della ‘compatibilità economica’ e del ‘quadro di insieme’, allo scopo di arginare la reazione e di salvare i posti di lavoro anche a costo di rinunciare a qualche tutela”.

Giusto o sbagliato che fosse in teoria, ciò contribuì in pratica, insieme alla crisi economica e all’irrompere delle parole d’ordine del liberismo, all’inizio di un arretramento dei diritti dei lavoratori. Inizia la parabola discendente: verso la flessibilità

Alla fine degli anni ’70 cominciò quindi la stagionedella flessibilità, sul presupposto della stretta correlazione, non provata e discussa in economia, tra la disoccupazione e l’eccessiva rigidità del mercato, pensando soprattutto ai vincoli legislativi per i licenziamenti.

Bisognava quindi o ridurre i vincoli o utilizzare sempre di più rapporti di lavoro non subordinati o non a tempo indeterminato e cioè rapporti che per loro natura si sottraevano a quei vincoli.

Cominciò quindi un percorso di riduzione della “stabilità” del posto di lavoro e quindi di “precarizzazione” del lavoro.

Ciò fu realizzato, ad esempio, con il contratto di formazione e lavoro, che è in sostanza un contratto a termine, a cui non si applicano quindi le norme generali di tutela dal licenziamento e che può non essere trasformato in rapporto indeterminato alla scadenza, con il contratto di “solidarietà” (riduzione dell’orario e della retribuzione per riassorbire eccedenze di personale o per consentire l’incremento dell’occupazione), con il contratto “part-time”.

Ma soprattutto cominciarono ad allargarsi le maglie del contratto a termine in particolare con una legge del 1987, che ha consentito il ricorso a tale istituto in ogni ipotesi prevista dai contratti collettivi” [13].

E a titolo di esempio, andando avanti negli anni, si può vedere come la scelta concertativa dei sindacati confederali, era già stata assunta ed esplicitata nelle trattative contrattuali di molti anni prima del fatidico 1993.

Nel Dicembre ’91 dopo 10 mesi di trattative che hanno visto l’opposizione di molti lavoratori ed anche mobilitazioni e scioperi (25 ottobre e 6 Dicembre), si firma un accordo ponte tra Governo, Confindustria e CGIL - CISL - UIL sul costo del lavoro; la trattativa definitiva è rimandata a giugno del ’92, per ora: scompare la scala mobile, si avvia la privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici e si aumenta l’IRPEF dell’1% che va direttamente all’industria privata come finanziamento.

Trentin si dimetterà e il PDS criticherà l’accordo ma ormai il danno è fatto, per milioni di lavoratori inizierà la stagione dei salari iniqui, che non si è ancora conclusa. Per il sindacato in Italia, il sindacato che conta, quello dei quadri e degli apparati a mezzo servizio con i governi (e l’altra metà con la Confindustria) l’adeguamento del salario alle condizioni di vita non è più una necessità, nel 2000 quasi un milione di famiglie, per lo più monoreddito, vivranno sotto la soglia di povertà

Le proteste di Trentin e le sue indicazioni di fare i ricorsi legali, non saranno altro che i sintomi di una difficoltà nel difendere tra i lavoratori l’accordo.

Il sindacalismo storico italiano, quello confederale, ha prodotto una frattura nella base sociale, frattura limitata ma vera che non si arresterà se consideriamo l’accentuarsi della crisi sociale.

Come vedremo questo processo non si svolgerà in maniera organizzata e lineare e determinerà scelte sindacali articolate, anche nelle strutture del sindacalismo di base. Alcuni si orienteranno verso chi afferma la necessità di riunificazione del terreno sindacale con quello politico; altri addirittura verso chi addita la centralità organizzativa come male da combattere ed afferma la centralità delle strutture locali, pensando che la solidarietà, e la successiva unificazione tra lavoratori, sia automatica ed inevitabile; altri ancora ritengono funzionale una struttura che raccolga entrambi le posizioni, sia cioè legata ad un percorso politico - partitico e che conservi un livello territoriale (di base) radicalmente strutturato sui posti di lavoro, riservando a questi ultimi la centralità del processo di avanguardia. In pochi si preoccupano di conciliare, in antitesi alle posizioni sopra riportate, la capacità di esprimere una differenza di ruolo e di funzioni tra il livello politico e quello sindacale e la necessità di organizzazione come elemento di gestione della solidarietà in un ambito di riaffermazione dell’identità di classe nell’indipendenza del movimento dei lavoratori per ricostruire la vera autonomia di classe. Tentativo portato avanti ormai soltanto dalle RdB e dalla CUB.

Gli anni 90 [14] saranno caratterizzati dalle politiche di Maastricht e dalla crisi finanziaria europea; gli accordi di Luglio del ’93 e la concertazione disporranno il sindacato confederale in una situazione di privilegio costringendo il sindacalismo di base ad estenuanti battaglie per la difesa della democrazia sindacale e la rappresentatività.

La stagione delle RSU si era aperta con un accordo nel Pubblico Impiego, firmato da CGIL - CISL - UIL, che garantiva la designazione del 33% dei delegati confederali. Le inique velleità di unificazione dei confederali spinsero molti a credere che il nuovo modello delle rappresentanze sindacali unitarie potesse rappresentare una sorta di steccato plurirappresentativo nel quale imbavagliare qualunque spirito antagonista. Figlie dell’altra norma anti-democratica, la maggiore rappresentatività, le RSU erano state appositamente studiate come contenitore di “quadri sindacali”, spesso soggetti avulsi dalle dinamiche di apparato ma comunque espressione di realtà locali consolidate sotto vari aspetti, con l’unico compito di innescare meccanismi di confronto e di analisi dai tempi estenuanti; Componenti della RSU furono, e sono tuttora, un numero impressionante di eletti, diversi per estrazione sindacale e professionale, tenuti insieme da una necessità di democrazia incompiuta che porterà questi organismi, nella logica della concertazione, a trascorrere intere giornate alla ricerca di un accordo da sottoporre all’Amministrazione, accordo che rappresenta il Contratto Integrativo Aziendale. Mentre decine, a volte centinaia, di delegati eletti cercano la “quadra” nel modello imposto dalla contrattazione nazionale, l’altra faccia del sindacalismo territoriale, i quadri delle organizzazioni maggiormente rappresentative, i “funzionari di apparato”, chiudono gli accordi decentrati con le Amministrazioni, anche se le RSU non concordano e l’accordo è valido ugualmente.

Le Rappresentanze Sindacali Unitarie saranno lo strumento prescelto per costringere i livelli di contrattazione periferica a regolamentare la “guerra tra poveri” intervenendo nella spartizione (spesso meritocratica) di quei “quattro soldi” di contratto messi a disposizione dal livello nazionale e la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore, sull’onda delle rivendicazioni accettate in Francia, sarà per molti una chimera. In sanità, dove i tagli di personale e la politica dei sacrifici costringono molti dipendenti a turni massacranti, non solo le 35 ore saranno frutto di poche realtà aziendali, ma non sarà apprezzabile il riscontro in termini occupazionali né in termini di diminuzione reale dell’orario di servizio. Nelle 80, 100 ore mensili di straordinario programmato non si noterà la politica delle 35 ore ma l’assenza di una reale politica del lavoro e le ripercussioni sulla possibilità di fruire di un diritto costituzionalmente riconosciuto saranno devastanti e rappresenteranno lo strumento operativo di una politica di sacrifici che contrapporrà il taglio dei salari agli sprechi della gestione politicista del bene salute.

Sulle RSU si è già detto, ma è importante ribadire alcuni concetti: chi sono i candidati confederali a rappresentare i lavoratori? Di norma elementi sindacalizzati ma privi di esperienza, spesso facce nuove con un ruolo visibile nelle strutture e con incarichi di coordinamento e/o di gestione del personale; la politica del clientelismo, che ha fatto la fortuna di molte organizzazioni negli ultimi anni, sceglie nuove strategie di legittimazione dello strapotere ottenuto “illecitamente”. Che l’era di Tangentopoli abbia solo sfiorato il sindacalismo confederale è convinzione comune ma che era indispensabile, in quegli anni ed in quelli immediatamente successivi, assicurarsi un incarico o una integrazione economica grazie alle conoscenze di qualche noto dirigente sindacale di struttura, è altrettanto noto. “I portatori d’acqua” sono spesso procacciatori di contratti di assicurazione per l’agenzia “affiliata” al sindacato, sono i terminali territoriali di una rete di servizi che il sindacato, sempre più vertice e meno base, offre sul posto di lavoro per supplire all’assenza di iniziativa, di conflitto; la base è scontenta, ma almeno può pagare l’assicurazione auto con rate mensili in busta paga, può fare un viaggio all’estero e pagare in 10 comode rate, può comprare sempre a rate e con forti sconti, dalla lavatrice alla macchina: una sorta di agenzia dei servizi per ripagarti della tessera. È facile comprendere come questi affaristi di mestiere possano rappresentare i diritti dei lavoratori. Il sindacato concertativo si fa istituzione e ne sussume tutti gli aspetti corruttivi.

La firma degli accordi di Luglio del ’93 arriva a legittimare una situazione che si è ormai delineata da alcuni anni. “La fase della concertazione... l’innovazione più originale e fruttuosa degli ultimi anni, ...ha consentito di tenere sotto controllo le dinamiche retributive senza perdere il consenso sociale e di avviare un risanamento controllato ed equilibrato dei conti pubblici” [15].

Nel ’93 secondo l’ISTAT si sono “persi” 556.000 posti di lavoro, nel ’94 l’occupazione nell’industria e diminuita del 5% e nei servizi del 3.2%. La situazione è particolarmente esplosiva nel Sud: il tasso di disoccupazione è del 18% contro una media nazionale del 12%; al Sud si concentra il 24.6% della popolazione che vive in situazione di povertà, contro il 15.4% della media nazionale. Le regioni del Sud sono a scarsa industrializzazione, hanno una presenza notevole delle Partecipazioni Statali che in questo anno sono in dismissione, in Campania: Alenia, Italsider, Fincantieri, SME (e chiude anche la SEVEL per la ristrutturazione della FIAT), 30.000 iscritti nelle liste di mobilità, 8000 già usciti senza alcun sostegno né alcun ammortizzatore sociale; 7000 dipendenti exGepi;

- in Calabria la deindustrializzazione è iniziata negli anni ’80, successivamente è stato chiuso il polo chimico di Crotone e sono state smantellate tutte le aziende ex Gepi;

- in SICILIA il tasso di disoccupazione è del 23%, a Palermo del 33%, ristrutturazione e chiusura di medie e grandi industrie, blocco dell’edilizia e dell’agricoltura.

Al congresso del Pds D’Alema attacca le posizioni di Cofferati, dichiarandosi favorevole ad una riforma che dia flessibilità e mobilità al lavoro. Si sarebbe portati a considerare le due posizioni antagoniste tra loro, non è così. Ambedue i leader ritengono che la flessibilità e la mobilità sono elementi indispensabili per la soluzione del problema del lavoro. D’altro canto il “cinese” si affermerà sulla scena politica a fine mandato (nel 2002) come “unico” garante dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma non parteciperà alla raccolta di firme proposta da Rifondazione Comunista e dal sindacalismo di base per estendere quei diritti alle imprese con meno di 15 dipendenti. Cofferati, per la CGIL, ha già firmato innumerevoli patti concertativi (non ultimo il “pacchetto Treu”) che hanno ampia ricaduta sul mondo sociale in termini di precarizzazione del mondo del lavoro: si estende la percentuale del lavoro part-time, si estende la possibilità al ricorso al lavoro interinale; Lavoratori Socialmente Utili o di Pubblica Utilità saranno l’esempio costante di una politica di precarizzazione del rapporto di lavoro, nel verso della flessibilità e della mobilità, che non si arresterà più; inoltre il decentramento, la delocalizzazione, l’esternalizzazione, la crescita del lavoro autonomo salariato a cottimo, hanno permesso la modifica dei rapporti di forza nei luoghi della produzione materiale a favore del capitale, accentuata anche dall’aumento della disoccupazione, dalla riduzione dello Stato sociale, dalle politiche immigratorie, ecc.

“Introdusse, inoltre, il c.d. lavoro interinale o temporaneo, dimostrando definitivamente il venir meno del “disfavore” del legislatore verso il contratto a termine o comunque la durata temporanea del rapporto e quindi la “precarietà”. Nel frattempo la “precarizzazione” seguiva anche un’altra strada.

Le caratteristiche del mondo del lavoro stavano infatti cambiando: sempre meno lavoro nella grande industria e sempre più lavoro nel commercio e nei servizi, con modalità di lavoro sempre più diversificate.

È ovvio che il lavoro fuori della fabbrica e delle vecchie catene di montaggio, presenta caratteristiche nelle quali la “subordinazione” è meno evidente, possono non essere richiesti orari di lavoro rigidi e diverse attività vanno svolte fuori dall’azienda.

Ciò comportò l’opportunità per il datore di lavoro di sottrarsi ai vincoli del lavoro subordinato, utilizzando sempre di più il rapporto autonomo, in cui peraltro restava la subordinazione, tecnica, funzionale, ma soprattutto economica” [16].

E questo avviene in perfetta simbiosi con le politiche europee, è la politica degli accordi di Luglio del 1993, è la concertazione, i cui frutti nefasti si continueranno a vedere nel decennio successivo, con la politica liberista dei Governi Prodi - D’ Alema e con quello dell’iperliberista Berlusconi. Comportamenti e modello, però, che vanno sempre più determinando nuove soggettualità del lavoro e del lavoro negato, che hanno rappresentazioni sociali caratterizzate soprattutto dalla presenza di forme di precarizzazione e flessibilizzazione del vivere complessivo, forme derivanti dagli assetti di ristrutturazione e ridefinizione sociale e, sul sociale, del capitalismo.

L’obiettivo Maastricht è quindi in via di realizzazione: costruire una Europa dei poteri finanziari, forte, con l’intento di subordinare le politiche economiche dei paesi membri alla creazione di un nuovo polo economico e di potere internazionale, alternativo al polo USA, da una parte, e al Giappone (più corretto Asiatico con la Cina nel WTO tra qualche anno). L’obiettivo è importante, urgente e la strategia non deve subire rallentamenti di sorta, il prezzo? alto!

Una politica figlia della crisi internazionale e nazionale, una politica insufficiente ai mercati ed alle imprese che la riproporranno, ancor più pesantemente, nel 2004 con il neo-presidente di Confindustria (e della FIAT) Montezemolo.


[1] http://www.vigevano.it/distretto/distretti.htm

[2] F. Bertinotti, La democrazia autoritaria, Datanews, Roma, settembre 1996, pag. 20

[3] Idem pag. 51

[4] Tratto da: “Conferenza Nazionale dei delegati sulle politiche rivendicative e contrattuali”, Chianciano, 17
 19 Aprile 1984, Relazione introduttiva di F. Vigevano, Segretario Nazionale CGIL, commissione V°, oggi su: “I documenti CGIL dal X° all’XI° Congresso”, volume II°, EDIESSE, Roma, 1986 pagg. 251 e seg.

[i] “ La Segreteria CGIL alla ripresa post - feriale” 2/9/1982, oggi su: “I Documenti CGIL dal X° all’XI° Congresso” Volume I°, EDIESSE, Roma 1986, Pag. 92

[i] “La democrazia autoritaria” F. Bertinotti, Datanews, Roma settembre 1996, pag. 103.

[5] Vittorio Valli, “Programmazione e sindacati in Italia” F.Angeli Editore, Milano 1970

[6] “Noi” Periodico delle Rappresentanze di Base, n°6 - 1 Maggio 1983 pag.3

[7] Relazione di G. Rastrelli, della Seg. Nazionale CGIL, alla Conferenza Nazionale di Organizzazione della CGIL, Rimini 14 -17 Luglio 1983. Oggi in: “I Congressi CGIL dal X° all’XI°” EDIESSE 1986, Vol. 2°, pag. 221.

[8] “Noi” Periodico delle Rappresentanze di Base, n°6 - 1 Maggio 1983 pag.3.

[9] Documentazione curata dalla Rappresentanza di Base della sede INPS di Roma, oggi presso l’Archivio della Federazione Nazionale RdB/CUB.

[10] Per approfondimenti vedi: “Noi” periodico delle Rappresentanze di Base - n°7 pag.7

[11] Per approfondimenti vedi: “Noi” periodico delle Rappresentanze di Base - n°7 pag. 8.

[12] Per approfondimenti vedi: “Noi” periodico delle Rappresentanze di Base - n° 7 pag.6 e 7.

[13] Giovanni Cannella (magistrato di Corte d’Appello) pubblicato su “D&L, Rivista di critica del diritto del lavoro “ 4/2001, p.873

L’articolo, che è pubblicato anche su Omissis (www.omissis.too.it), e sul numero monografico di marzo 2002 della rivista “Il Ponte” intitolato “Quale governo quale giustizia” riproduce la relazione introduttiva per l’assemblea pubblica e dibattito dal titolo “No al lavoro senza diritti”, organizzata a Roma il 14/12/01 dal Forum Diritti-Giustizia (Social Forum Roma)-Antigone,Cred, Giuristi democratici, Progetto diritti, Camera del lavoro e del non lavoro, Cobas, Rdb, Avvocati progressisti italiani, Magistratura democratica romana.

[14] Per approfondimenti: http://online.cisl.it/arc.storico/%237641793.0/Cinquant’anni%20della%20Fim-Cis.doc

*(www.uil.it/storia.htm) Ivo Camerini: “Articolo per ViaPo, Firstclass-Cisl,Documentazione,ArchiviOnline” www.cronologia.it

[15] S. Cofferati, “A ciascuno il suo mestire”, Mondadori, 1997, pag.50

[16] Giovanni Cannella, op. cit.