Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (terza parte). Dalla partecipazione controllata alla concertazione
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Sabino Venezia
|
Stampa |
Inquadramento: il sindacato chiedeva un passaggio in massa al
3° liv. (il 50% dei tessili era al 2°), ottiene solo una minima parte dei
passaggi, e media, accettando una indennità di mansione di 10.000£ mensili per
la riduzione dell’orario di lavoro il sindacato accetta 40 ore annue di
riduzione per gli addetti al settore tessile non turnisti con assorbimento del
pagamento di 2 ex-festività soppresse, 36 ore annue per i turnisti con
assorbimento delle stesse ex festività.
Malattia: pagamento del 100% solo dopo il 13° giorno di
malattia, i primi 13 giorni sono vergognosamente pagati sensibilmente
ridotti [1].
Il 1 settembre, infine, si rinnova il contratto dei
metalmeccanici, scaduto il 31.12.81, durata della trattativa 20 mesi, con oltre
160 ore di sciopero ogni lavoratore ha perso dalle 700.000 alle 900.000 Lire.
scadenza del contratto 31.12.’85, durata contrattuale 4 anni. nessun recupero
salariale per il 1982. Per gli otto mesi dell’83 viene concesso un recupero di
226.000 £ lorde. Per compensare lo scivolamento della scadenza contrattuale, 6
mesi, vengono concesse 130.000£ lorde nella busta di Gennaio ’84.
L’orario di lavoro rimane di 40 ore, aumenti salariali
scaglionati in 3 anni, Sett.’83, Genn.’84, Genn.’85 e tali da non
compensare minimamente la perdita del potere d’acquisto dei salri registrato
negli anni di inflazione selvaggia.
Tra gli operai, dove è concentrata l’80% della
categoria(2°,3°, 4° livello), gli aumenti netti alla fine del triennio
saranno rispettivamente di 55, 60 e 65.000 £.
Per la 7° categoria, quadri e tecnici dirigenti, viene
erogato un ulteriore aumento di 70.000£ che li porta ad un aumento di lordo di
192.000£ nel triennio. [2]
Gli anni ’80 verranno quindi ricordati, dal punto di vista
sindacale, come la stagione della flessibilità, “la crisi economica
rendeva certamente difficile pretendere troppo per i lavoratori, ma il sindacato
andò oltre, si fece carico della ‘compatibilità economica’ e del ‘quadro
di insieme’, allo scopo di arginare la reazione e di salvare i posti di lavoro
anche a costo di rinunciare a qualche tutela”.
Giusto o sbagliato che fosse in teoria, ciò contribuì in
pratica, insieme alla crisi economica e all’irrompere delle parole d’ordine
del liberismo, all’inizio di un arretramento dei diritti dei lavoratori.
Inizia la parabola discendente: verso la flessibilità
Alla fine degli anni ’70 cominciò quindi la stagionedella
flessibilità, sul presupposto della stretta correlazione, non provata e
discussa in economia, tra la disoccupazione e l’eccessiva rigidità del
mercato, pensando soprattutto ai vincoli legislativi per i licenziamenti.
Bisognava quindi o ridurre i vincoli o utilizzare sempre di
più rapporti di lavoro non subordinati o non a tempo indeterminato e cioè
rapporti che per loro natura si sottraevano a quei vincoli.
Cominciò quindi un percorso di riduzione della “stabilità”
del posto di lavoro e quindi di “precarizzazione” del lavoro.
Ciò fu realizzato, ad esempio, con il contratto di
formazione e lavoro, che è in sostanza un contratto a termine, a cui non si
applicano quindi le norme generali di tutela dal licenziamento e che può non
essere trasformato in rapporto indeterminato alla scadenza, con il contratto di
“solidarietà” (riduzione dell’orario e della retribuzione per riassorbire
eccedenze di personale o per consentire l’incremento dell’occupazione), con
il contratto “part-time”.
Ma soprattutto cominciarono ad allargarsi le maglie del contratto a termine
in particolare con una legge del 1987, che ha consentito il ricorso a tale
istituto in ogni ipotesi prevista dai contratti collettivi” [3].
E a titolo di esempio, andando avanti negli anni, si può
vedere come la scelta concertativa dei sindacati confederali, era già stata
assunta ed esplicitata nelle trattative contrattuali di molti anni prima del
fatidico 1993.
Nel Dicembre ’91 dopo 10 mesi di trattative che hanno visto
l’opposizione di molti lavoratori ed anche mobilitazioni e scioperi (25
ottobre e 6 Dicembre), si firma un accordo ponte tra Governo, Confindustria e
CGIL - CISL - UIL sul costo del lavoro; la trattativa definitiva è rimandata a
giugno del ’92, per ora: scompare la scala mobile, si avvia la
privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici e si aumenta l’IRPEF
dell’1% che va direttamente all’industria privata come finanziamento.
Trentin si dimetterà e il PDS criticherà l’accordo ma
ormai il danno è fatto, per milioni di lavoratori inizierà la stagione dei
salari iniqui, che non si è ancora conclusa. Per il sindacato in Italia, il
sindacato che conta, quello dei quadri e degli apparati a mezzo servizio con i
governi (e l’altra metà con la Confindustria) l’adeguamento del salario
alle condizioni di vita non è più una necessità, nel 2000 quasi un milione di
famiglie, per lo più monoreddito, vivranno sotto la soglia di povertà
Le proteste di Trentin e le sue indicazioni di fare i ricorsi
legali, non saranno altro che i sintomi di una difficoltà nel difendere tra i
lavoratori l’accordo.
Il sindacalismo storico italiano, quello confederale, ha
prodotto una frattura nella base sociale, frattura limitata ma vera che non si
arresterà se consideriamo l’accentuarsi della crisi sociale.
Come vedremo questo processo non si svolgerà in maniera
organizzata e lineare e determinerà scelte sindacali articolate, anche nelle
strutture del sindacalismo di base. Alcuni si orienteranno verso chi afferma la
necessità di riunificazione del terreno sindacale con quello politico; altri
addirittura verso chi addita la centralità organizzativa come male da
combattere ed afferma la centralità delle strutture locali, pensando che la
solidarietà, e la successiva unificazione tra lavoratori, sia automatica ed
inevitabile; altri ancora ritengono funzionale una struttura che raccolga
entrambi le posizioni, sia cioè legata ad un percorso politico - partitico e
che conservi un livello territoriale (di base) radicalmente strutturato sui
posti di lavoro, riservando a questi ultimi la centralità del processo di
avanguardia. In pochi si preoccupano di conciliare, in antitesi alle posizioni
sopra riportate, la capacità di esprimere una differenza di ruolo e di funzioni
tra il livello politico e quello sindacale e la necessità di organizzazione
come elemento di gestione della solidarietà in un ambito di riaffermazione dell’identità
di classe nell’indipendenza del movimento dei lavoratori per ricostruire la
vera autonomia di classe. Tentativo portato avanti ormai soltanto dalle RdB e
dalla CUB.
Gli anni 90 [4]
saranno caratterizzati dalle politiche di Maastricht e dalla crisi finanziaria
europea; gli accordi di Luglio del ’93 e la concertazione disporranno il
sindacato confederale in una situazione di privilegio costringendo il
sindacalismo di base ad estenuanti battaglie per la difesa della democrazia
sindacale e la rappresentatività.
La stagione delle RSU si era aperta con un accordo nel
Pubblico Impiego, firmato da CGIL - CISL - UIL, che garantiva la designazione
del 33% dei delegati confederali. Le inique velleità di unificazione dei
confederali spinsero molti a credere che il nuovo modello delle rappresentanze
sindacali unitarie potesse rappresentare una sorta di steccato
plurirappresentativo nel quale imbavagliare qualunque spirito antagonista.
Figlie dell’altra norma anti-democratica, la maggiore rappresentatività, le
RSU erano state appositamente studiate come contenitore di “quadri sindacali”,
spesso soggetti avulsi dalle dinamiche di apparato ma comunque espressione di
realtà locali consolidate sotto vari aspetti, con l’unico compito di
innescare meccanismi di confronto e di analisi dai tempi estenuanti; Componenti
della RSU furono, e sono tuttora, un numero impressionante di eletti, diversi
per estrazione sindacale e professionale, tenuti insieme da una necessità di
democrazia incompiuta che porterà questi organismi, nella logica della
concertazione, a trascorrere intere giornate alla ricerca di un accordo da
sottoporre all’Amministrazione, accordo che rappresenta il Contratto
Integrativo Aziendale. Mentre decine, a volte centinaia, di delegati eletti
cercano la “quadra” nel modello imposto dalla contrattazione nazionale, l’altra
faccia del sindacalismo territoriale, i quadri delle organizzazioni maggiormente
rappresentative, i “funzionari di apparato”, chiudono gli accordi decentrati
con le Amministrazioni, anche se le RSU non concordano e l’accordo è valido
ugualmente.
Le Rappresentanze Sindacali Unitarie saranno lo strumento
prescelto per costringere i livelli di contrattazione periferica a regolamentare
la “guerra tra poveri” intervenendo nella spartizione (spesso meritocratica)
di quei “quattro soldi” di contratto messi a disposizione dal livello
nazionale e la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore, sull’onda delle
rivendicazioni accettate in Francia, sarà per molti una chimera. In sanità,
dove i tagli di personale e la politica dei sacrifici costringono molti
dipendenti a turni massacranti, non solo le 35 ore saranno frutto di poche
realtà aziendali, ma non sarà apprezzabile il riscontro in termini
occupazionali né in termini di diminuzione reale dell’orario di servizio.
Nelle 80, 100 ore mensili di straordinario programmato non si noterà la
politica delle 35 ore ma l’assenza di una reale politica del lavoro e le
ripercussioni sulla possibilità di fruire di un diritto costituzionalmente
riconosciuto saranno devastanti e rappresenteranno lo strumento operativo di una
politica di sacrifici che contrapporrà il taglio dei salari agli sprechi della
gestione politicista del bene salute.
Sulle RSU si è già detto, ma è importante ribadire
alcuni concetti: chi sono i candidati confederali a rappresentare i lavoratori?
Di norma elementi sindacalizzati ma privi di esperienza, spesso facce nuove con
un ruolo visibile nelle strutture e con incarichi di coordinamento e/o di
gestione del personale; la politica del clientelismo, che ha fatto la fortuna di
molte organizzazioni negli ultimi anni, sceglie nuove strategie di
legittimazione dello strapotere ottenuto “illecitamente”. Che l’era di
Tangentopoli abbia solo sfiorato il sindacalismo confederale è convinzione
comune ma che era indispensabile, in quegli anni ed in quelli immediatamente
successivi, assicurarsi un incarico o una integrazione economica grazie alle
conoscenze di qualche noto dirigente sindacale di struttura, è altrettanto
noto. “I portatori d’acqua” sono spesso procacciatori di contratti di
assicurazione per l’agenzia “affiliata” al sindacato, sono i terminali
territoriali di una rete di servizi che il sindacato, sempre più vertice e meno
base, offre sul posto di lavoro per supplire all’assenza di iniziativa, di
conflitto; la base è scontenta, ma almeno può pagare l’assicurazione auto
con rate mensili in busta paga, può fare un viaggio all’estero e pagare in 10
comode rate, può comprare sempre a rate e con forti sconti, dalla lavatrice
alla macchina: una sorta di agenzia dei servizi per ripagarti della tessera. È
facile comprendere come questi affaristi di mestiere possano rappresentare i
diritti dei lavoratori. Il sindacato concertativo si fa istituzione e ne
sussume tutti gli aspetti corruttivi.
La firma degli accordi di Luglio del ’93 arriva a
legittimare una situazione che si è ormai delineata da alcuni anni. “La
fase della concertazione... l’innovazione più originale e fruttuosa degli
ultimi anni, ...ha consentito di tenere sotto controllo le dinamiche retributive
senza perdere il consenso sociale e di avviare un risanamento controllato ed
equilibrato dei conti pubblici” [5].
Nel ’93 secondo l’ISTAT si sono “persi” 556.000 posti
di lavoro, nel ’94 l’occupazione nell’industria e diminuita del 5% e nei
servizi del 3.2%. La situazione è particolarmente esplosiva nel Sud: il tasso
di disoccupazione è del 18% contro una media nazionale del 12%; al Sud si
concentra il 24.6% della popolazione che vive in situazione di povertà, contro
il 15.4% della media nazionale. Le regioni del Sud sono a scarsa
industrializzazione, hanno una presenza notevole delle Partecipazioni Statali
che in questo anno sono in dismissione, in Campania: Alenia, Italsider,
Fincantieri, SME (e chiude anche la SEVEL per la ristrutturazione della FIAT),
30.000 iscritti nelle liste di mobilità, 8000 già usciti senza alcun sostegno
né alcun ammortizzatore sociale; 7000 dipendenti exGepi;
- in Calabria la deindustrializzazione è iniziata negli
anni ’80, successivamente è stato chiuso il polo chimico di Crotone e sono
state smantellate tutte le aziende ex Gepi;
- in SICILIA il tasso di disoccupazione è del 23%, a
Palermo del 33%, ristrutturazione e chiusura di medie e grandi industrie,
blocco dell’edilizia e dell’agricoltura.
Al congresso del Pds D’Alema attacca le posizioni di
Cofferati, dichiarandosi favorevole ad una riforma che dia flessibilità e
mobilità al lavoro. Si sarebbe portati a considerare le due posizioni
antagoniste tra loro, non è così. Ambedue i leader ritengono che la
flessibilità e la mobilità sono elementi indispensabili per la soluzione del
problema del lavoro. D’altro canto il “cinese” si affermerà sulla scena
politica a fine mandato (nel 2002) come “unico” garante dell’articolo 18
dello Statuto dei Lavoratori, ma non parteciperà alla raccolta di firme
proposta da Rifondazione Comunista e dal sindacalismo di base per estendere quei
diritti alle imprese con meno di 15 dipendenti. Cofferati, per la CGIL, ha già
firmato innumerevoli patti concertativi (non ultimo il “pacchetto Treu”)
che hanno ampia ricaduta sul mondo sociale in termini di precarizzazione del
mondo del lavoro: si estende la percentuale del lavoro part-time, si estende la
possibilità al ricorso al lavoro interinale; Lavoratori Socialmente Utili o di
Pubblica Utilità saranno l’esempio costante di una politica di
precarizzazione del rapporto di lavoro, nel verso della flessibilità e della
mobilità, che non si arresterà più; inoltre il decentramento, la
delocalizzazione, l’esternalizzazione, la crescita del lavoro autonomo
salariato a cottimo, hanno permesso la modifica dei rapporti di forza nei luoghi
della produzione materiale a favore del capitale, accentuata anche dall’aumento
della disoccupazione, dalla riduzione dello Stato sociale, dalle politiche
immigratorie, ecc.
“Introdusse, inoltre, il c.d. lavoro interinale o
temporaneo, dimostrando definitivamente il venir meno del “disfavore” del
legislatore verso il contratto a termine o comunque la durata temporanea del
rapporto e quindi la “precarietà”. Nel frattempo la “precarizzazione”
seguiva anche un’altra strada.
Le caratteristiche del mondo del lavoro stavano infatti
cambiando: sempre meno lavoro nella grande industria e sempre più lavoro nel
commercio e nei servizi, con modalità di lavoro sempre più diversificate.
È ovvio che il lavoro fuori della fabbrica e delle vecchie
catene di montaggio, presenta caratteristiche nelle quali la “subordinazione”
è meno evidente, possono non essere richiesti orari di lavoro rigidi e diverse
attività vanno svolte fuori dall’azienda.
Ciò comportò l’opportunità per il datore di lavoro di
sottrarsi ai vincoli del lavoro subordinato, utilizzando sempre di più il
rapporto autonomo, in cui peraltro restava la subordinazione, tecnica,
funzionale, ma soprattutto economica” [6].
E questo avviene in perfetta simbiosi con le politiche
europee, è la politica degli accordi di Luglio del 1993, è la concertazione, i
cui frutti nefasti si continueranno a vedere nel decennio successivo, con la
politica liberista dei Governi Prodi - D’ Alema e con quello dell’iperliberista
Berlusconi. Comportamenti e modello, però, che vanno sempre più determinando
nuove soggettualità del lavoro e del lavoro negato, che hanno
rappresentazioni sociali caratterizzate soprattutto dalla presenza di forme di
precarizzazione e flessibilizzazione del vivere complessivo, forme derivanti
dagli assetti di ristrutturazione e ridefinizione sociale e, sul sociale, del
capitalismo.
L’obiettivo Maastricht è quindi in via di realizzazione:
costruire una Europa dei poteri finanziari, forte, con l’intento di
subordinare le politiche economiche dei paesi membri alla creazione di un nuovo
polo economico e di potere internazionale, alternativo al polo USA, da una
parte, e al Giappone (più corretto Asiatico con la Cina nel WTO tra qualche
anno). L’obiettivo è importante, urgente e la strategia non deve subire
rallentamenti di sorta, il prezzo? alto!
Una politica figlia della crisi internazionale e nazionale,
una politica insufficiente ai mercati ed alle imprese che la riproporranno,
ancor più pesantemente, nel 2004 con il neo-presidente di Confindustria (e
della FIAT) Montezemolo.
[1] Per approfondimenti vedi: “Noi” periodico delle Rappresentanze
di Base - n°7 pag. 8.
[2] Per approfondimenti vedi: “Noi” periodico delle
Rappresentanze di Base - n° 7 pag.6 e 7.
[3] Giovanni
Cannella (magistrato di Corte d’Appello) pubblicato su “D&L, Rivista
di critica del diritto del lavoro “ 4/2001, p.873
L’articolo, che è pubblicato anche su Omissis
(www.omissis.too.it), e sul numero monografico di marzo 2002 della rivista
“Il Ponte” intitolato “Quale governo quale giustizia” riproduce la
relazione introduttiva per l’assemblea pubblica e dibattito dal titolo “No
al lavoro senza diritti”, organizzata a Roma il 14/12/01 dal Forum
Diritti-Giustizia (Social Forum Roma)-Antigone,Cred, Giuristi democratici,
Progetto diritti, Camera del lavoro e del non lavoro, Cobas, Rdb, Avvocati
progressisti italiani, Magistratura democratica romana.
[4] Per approfondimenti:
http://online.cisl.it/arc.storico/%237641793.0/Cinquant’anni%20della%20Fim-Cis.doc
*(www.uil.it/storia.htm) Ivo Camerini: “Articolo per
ViaPo, Firstclass-Cisl,Documentazione,ArchiviOnline” www.cronologia.it
[5] S. Cofferati, “A ciascuno il suo
mestire”, Mondadori, 1997, pag.50
[6] Giovanni Cannella, op. cit.