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Eurobang. Il capitalismo italiano

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Vladimiro Giacché
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L’impossibile concertazione. La crisi dell’Italia nella crisi economica internazionale

Vladimiro Giacché

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1. Gli Usa: la ripresa che non c’è

“Gli ultimi tre anni hanno visto la più grande perdita di posti di lavoro negli Stati Uniti dopo la Grande Depressione”
(R. Forsehar, T. Emerson, “Lavorare molto guadagnare meno”, l’Espresso, 2 settembre 2004).

La situazione economica internazionale può essere riassunta in una frase: la crisi economica internazionale non è alle nostre spalle. Tutt’altro.

Vediamo innanzitutto la situazione dell’economia americana. Il mantra dell’economia Usa che “vola”, “traina il resto del mondo”, esprime un “balzo” della produttività, mantiene una bassa disoccupazione, ecc. ecc., rappresenta uno dei luoghi comuni più ricorrenti della nostra pubblicistica economica (tra le peggiori del mondo in termini di qualità dell’informazione fornita). I dati, però, ci raccontano una realtà ben diversa. E ci dicono che i “deficit gemelli” degli Usa (bilancia commerciale e deficit pubblico) non solo non accennano a diminuire, ma si ampliano a dismisura. E, ciò che è peggio, che l’aumento della spesa pubblica Usa (+26%, pari a + 500 miliardi di dollari, da quando il giovane Bush si è impadronito della Casa Bianca), e quindi dell’indebitamento pubblico, non ha comportato affatto un recupero in termini di bilancia commerciale. Quest’ultima, a differenza di quanto avviene per l’Ue (e a dispetto delle sciocchezze del giornale della Confindustria sulla “minore competitività” europea...), è cronicamente in passivo nei confronti del resto del mondo.

Non può quindi stupire che gli ultimi dati economici Usa ci dicano che i consumi sono in calo (- 1,1% le vendite al dettaglio a giugno), e così pure la produzione industriale (- 0,3% nello stesso mese: il dato peggiore dall’aprile 2003); mentre crescono le richieste di sussidio di disoccupazione (+ 10.000 in un mese a luglio) e il numero dei poveri (a fine 2003 erano 36 milioni di persone, pari al 12,5% della popolazione, ma - ciò che più conta - il loro numero è aumentato di1 milione e 300 mila unità in un solo anno) [1]. Lo stesso mini-rialzo dei tassi operato da Greenspan, che nelle intenzioni della Fed avrebbe dovuto testimoniare l’avvenuta ripresa economica (e quindi infondere fiducia), non ha affatto sortito gli effetti sperati: tant’è vero che dal giorno del rialzo dei tassi (30 giugno) alla fine di agosto il Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici Usa, è sceso di svariati punti percentuali (e vale la pena di ricordare che già negli anni Novanta un rialzo dei tassi di interesse Usa fece da detonatore alla crisi); infine, il 31 agosto sono stati resi pubblici i dati relativi alla fiducia dei consumatori ed all’indice dei responsabili per gli acquisti dell’area di Chicago: entrambi in sensibile calo, con dati inferiori alle attese.

Proviamo quindi a fissare qualche punto fermo.

Il debito Usa (pubblico e privato) nei confronti del resto del mondo è ormai fuori controllo: ha infatti superato del 300% il prodotto interno lordo [2]. Guardando più da vicino la bilancia commerciale Usa, si nota che negli ultimi 5 anni le importazioni Usa sono cresciute del 38,4%, mentre le esportazioni sono aumentate solo del 9,7%; il che ha portato il disavanzo della bilancia commerciale da 160 a 495 miliardi di dollari. E nei soli primi 5 mesi del 2004 tale disavanzo ha già raggiunto i 225 miliardi di dollari [3].

Cosa significa questo? Significa che la tanto declamata “crescita economica Usa” è fondata sul debito. Essa non si traduce in crescita della produzione e dell’export, in particolare manifatturiero. Né si traduce in una reale ripresa degli investimenti industriali, nonostante che il prezzo del denaro sia ormai da diversi anni ai minimi storici. E difficilmente le cose potrebbero andare diversamente, visto che il grado di utilizzo degli impianti è all’incirca pari al 77% (il che significa capacità produttiva non utilizzata pari a poco meno di un quarto del totale).

Gli stessi buoni risultati di alcune grandi multinazionali basate in Usa sono prodotti dal reimpatrio dei profitti fatti nei terminali industriali che le grandi corporations statunitensi hanno in paesi come la Cina, l’India, in Sud Est Asiatico e in America Centrale e Meridionale. In termini classici, si tratta di trasferimento di plusvalore su scala internazionale. Quindi: profitti per le grandi multinazionali, disoccupazione per i lavoratori statunitensi. E conseguente accelerazione della polarizzazione sociale negli Usa (i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri).

Certo, gli Usa restano destinatari di ingenti investimenti esteri. Però si tratta di una quota che va scendendo di anno in anno, e che privilegia sempre di più investimenti di portafoglio (per definizione più volatili) rispetto agli investimenti industriali diretti. Per rendere l’idea, basterà ricordare che lo scorso anno gli investimenti in Usa sono ammontati a 40 miliardi di dollari, contro i 53 miliardi diretti in Cina. Si tratta di cifre ancor più significative se si pensa che nel 2002 gli investimenti negli Usa erano stati di 72 miliardi di dollari, e nel 2001 addirittura pari a 167 miliardi. Si tratta di dati forniti dall’Ocse: essi provano che nel 2003 gli Usa hanno patito più di tutti gli altri 29 stati industrializzati membri dell’Ocse la caduta di investimenti diretti esteri.

Non solo: gli stessi investimenti di portafoglio (in particolare in titoli di Stato Usa) stanno divenendo sempre più rischiosi. E infatti le banche centrali dei principali paesi asiatici (Cina e Giappone), che più di altri hanno investito in titoli di stato americani per evitare il crollo del biglietto verde (che avrebbe danneggiato le loro esportazioni negli Usa), stanno cominciando a correre ai ripari: non soltanto diminuendo i propri investimenti in dollari, ma anche cominciando a costruire un mercato unico delle obbligazioni asiatiche (che potrebbe rappresentare una valida alternativa agli investimenti in titoli di Stato Usa, oltreché il primo passo verso una moneta unica nippo-cinese); inoltre, il Giappone e soprattutto la Cina stanno accentuando la diversificazione delle proprie riserve di valuta, aumentando il peso dell’euro a scapito del dollaro.

E veniamo così al punto cruciale. L’attuale economia Usa, imperniata sul ruolo di grande consumatore nella distribuzione internazionale del lavoro (come dimostra la bilancia commerciale di quel paese, che è in rosso dal ininterrottamente dal 1976), si basa su un presupposto: sull’egemonia valutaria del dollaro a livello mondiale. È tale egemonia che ha reso possibile un flusso ininterrotto di investimenti di capitale negli Usa, e quindi ha consentito loro di avere una bilancia commerciale con il resto del mondo cronicamente in rosso senza che questo comportasse le conseguenze che ogni altro Paese del mondo al suo posto dovrebbe patire: svalutazioni, pagamento di cospicui interessi sui titoli di Stato, crisi finanziarie. Il problema è che tale egemonia è oggi insidiata molto seriamente dall’euro [4].

La gravità di questa insidia nasce da diversi fattori: l’ampiezza dei paesi e dei mercati in cui l’euro circola come mezzo di pagamento; i fondamentali delle economie di questi paesi (la cui bilancia commerciale è complessivamente in forte surplus) [5]; il numero già elevato di paesi che di fatto l’hanno adottata o comunque a cui prioritariamente hanno agganciato le loro valute; e, ovviamente, i fondamentali negativi dell’economia americana. Sono questi fattori ad aver determinato il forte deprezzamento del valore del dollaro nei confronti dell’euro (che, per inciso, sarebbe assolutamente inspiegabile se fosse vero che l’economia Usa va benone e quella europeo malissimo, come gli attardati reaganiani che scrivono sui nostri giornali economici continuano a predicare).

Il deprezzamento del dollaro è stato tutt’altro che indolore, sia per molte banche centrali che per molti investitori privati, che in questi anni hanno avuto grossi perdite avendo riserve in dollari o puntando su strumenti finanziari denominati nella valuta statunitense. La possibile conseguenza di tutto ciò è sintetizzabile con le parole di un esperto economico, collaboratore del Corriere della Sera: “È naturale che una moneta di riserva debba prima o poi rinunciare al proprio ruolo, se diventa un cronico fattore di perdita per chi la detiene. Il dollaro si trova su questa strada” [6]. In altri termini, il ribasso della valuta Usa nei confronti dell’euro (e presumibilmente a breve anche nei confronti delle valute asiatiche) non è un ribasso come gli altri: esso potrebbe infatti comportare la perdita, per gli Usa, del “potere di signoraggio” del dollaro a beneficio della valuta europea; sarebbe insomma quest’ultima adesso ad acquisire quella “capacità di attirare capitali, di spostare risorse, di partecipare da posizioni di forza alla distribuzione mondiale del lavoro e del capitale”, che Guido Carli individuava già nel 1993 come il vero obiettivo di Maastricht e della moneta unica [7].

2. L’Unione Europea: verso il modello americano?

“Occorre un programma completo di riforme strutturali, che deve essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”.

(Tommaso Padoa Schioppa [membro del direttorio della Banca Centrale Europea], Corriere della sera, 26 agosto 2003).

La situazione economica degli Usa descritta sopra rappresenta la base strutturale dell’involuzione nella politica e nelle relazioni internazionali di cui l’amministrazione di Bush jr. è stata tristemente protagonista in questi anni. Ma è bene non perdere di vista che tutto questo si inserisce in una tendenza di più lungo periodo: una tendenza che ha visto, sin dai primi anni Novanta, un accentuarsi dei conflitti interimperialistici, e segnatamente tra gli Usa e l’emergente polo imperialistico europeo [8]. Da questo punto di vista, la guerra all’Irak fa parte della stessa storia a cui appartengono non soltanto la guerra all’Afghanistan, ma anche la disgregazione della Jugoslavia, culminata nella guerra della Nato contro il Kosovo voluta da Clinton. Non è casuale, quindi, che oggi il democratico Kerry non abbia intenzione di tagliare i fondi alla “difesa” Usa [9].

Sarebbe gioco troppo facile e consolatorio, insomma, interpretare la deriva politica americana (liberticida in casa ed estremamente aggressiva fuori) come frutto semplicemente della paranoia e dell’inadeguatezza dell’attuale inquilino della Casa Bianca e dei “neo-conservatori” che lo attorniano. Sotto c’è qualcosa di ben più profondo: un forte conflitto interimperialistico. A sua volta causato da una crisi di sovrapproduzione di merci e di capitale che ha portata mondiale (e che sembra al momento risparmiare soltanto - e anche qui non senza contraddizioni - Paesi come la Cina e l’India). Sarà il caso di precisare che tale crisi non è scoppiata come un fulmine a ciel sereno (né, come vorrebbero le ricostruzioni ideologiche correnti, per via dello scoppio della bolla speculativa della “new economy”), ma fa seguito ad un trentennio di accumulazione decrescente. Di fatto, dai primi anni Settanta (e cioè da prima della prima crisi petrolifera) l’economia dei principali paesi capitalistici non ha conosciuto i tassi di sviluppo del periodo 1945-1970.

In questo contesto deve inserirsi anche il ragionamento sull’Unione Europea. Che - presa nel suo insieme - vede la sua economia caratterizzata da una bilancia commerciale fortemente positiva nei confronti del resto del mondo (anche se si tratta di un attivo destinato a ridursi con l’ingresso dei 10 nuovi paesi membri dell’Unione). Ma conosce anche fenomeni meno piacevoli, che possono essere schematicamente così riassunti:

1) La crescente precarizzazione dei rapporti di lavoro [10].

2) L’aumento dello sfruttamento. Anche nella forma più classica dell’aumento del plusvalore assoluto, ossia dell’aumento delle ore di lavoro a parità di salario (come sta accadendo in Germania: e non in piccole imprese, ma in aziende quali Siemens, Bosch, Daimler-Benz, Volkswagen, Opel, ecc.) [11].

3) L’utilizzo dell’allargamento ad est per processi di delocalizzazione delle imprese, realizzati o minacciati (con il risultato, in entrambi i casi, di diminuire il potere di contrattazione dei lavoratori nell’Europa a 15, come si vede dal punto precedente) [12].

4) Un gigantesco processo di redistribuzione del reddito dai redditi da lavoro a quelli da capitale [13].

5) Una forte crisi della domanda interna.

6) Una crescita del disagio sociale e di fenomeni di marginalità.

7) Il tutto, in presenza di un oggettivo trionfo del “pensiero unico neoliberista” (che potrebbe più opportunamente definirsi: “liberale classico”): minore intervento dello Stato nell’economia, privatizzazioni, fede nella capacità autoregolatrice del mercato, necessità di “flessibilizzare” il mercato del lavoro, ecc. ecc.

L’Europa che ci raccontano le cronache economiche è insomma ben diversa da quella della retorica ufficiale. È un’Europa in cui è in corso - e non da oggi - un attacco al salario in tutte le sue forme (salario diretto, indiretto e differito). È un’Europa che sembra voler fare concorrenza agli Usa sul loro stesso terreno, ossia cancellando le conquiste di decenni per tornare alla “legge della giungla” sociale, in pratica all’Ottocento.

Tutto questo, purtroppo, è emerso molto chiaramente in occasione dell’accordo sul progetto di trattato che dà vita ad una (pseudo-)Costituzione europea [14]. Della quale, in sintesi, si può dire che tutto quello che riguarda i diritti dei lavoratori è rinviato alle legislazioni nazionali (determinando così un pericolosissimo dumping sociale), mentre tutto quello che riguarda la libera circolazione delle merci e
 soprattutto - dei capitali trova le più ampie garanzie a livello di Unione. È degno di nota, da questo punto di vista, il fatto che tutti i laudatori della cosiddetta “economia sociale di mercato” europea facciano riferimento precisamente a quei caratteri della società europea che sono (ormai da decenni) sotto attacco. Di fatto, il compromesso sociale che è alla base del welfare europeo è già saltato sotto i colpi di scure della ristrutturazione neo-liberista dell’economia. E lo stesso ingresso nell’Unione di paesi con standard sociali scandalosamente bassi, quali i paesi dell’est europeo (dopo la cura di capitalismo selvaggio somministrata loro nell’ultimo decennio), è oggi adoperato come il martello destinato a piantare gli ultimi chiodi sulla bara dell’”economia sociale di mercato” europea. Su questa base, davvero non ci si può stupire che le recenti elezioni europee abbiano visto un così marcato tasso di astensione - cioè di estraneità e rifiuto rispetto ai processi in corso. (Qualche stupore, invece, è ingenerato dalla constatazione che nessuna forza di sinistra in Europa ha saputo o voluto innescare un dibattito reale sul progetto di Costituzione prima che esso fosse approvato).

A chi legga i processi che stanno avvenendo con occhi scevri da pregiudizi ideologici, non sarà insomma difficile scorgere inquietanti analogie con la situazione di inizio Novecento: crisi, confronto tra potenze, debolezza del movimento operaio, deriva oligarchica e aumento delle tentazioni autoritarie-plebiscitarie, guerre per interposta persona nelle “colonie”, sostanziale subalternità - quando non pura e semplice assimilazione - dei partiti socialdemocratici all’oligarchia imperialistica su scala europea.


[1] M. Valsania, “Brusca frenata dell’industria Usa”, il Sole 24 ore, 16 luglio 2004; C. Swann, “Number of Americans in poverty up by 1.3 m”, Financial Times, 27 agosto 2004.

[2] M. Faber, “Il bivio senza uscita di Mastro Greenspan”, Borsa & Finanza, 10 luglio 2004.

[3] G. Palladino, “Questo dollaro sfida la legge di gravità”, CorrierEconomia, 19 luglio 2004.

[4] Un’analisi più in dettaglio di questo punto è svolta nel mio “L’Europa che non c’è”, in Proteo, n. 2/2004, pp. 65-70.

[5] D. Abramson, “La sterzata monetaria darà benzina all’euro”, Borsa & Finanza, 17 luglio 2004.

[6] G. Palladino, “Questo dollaro sfida la legge di gravità”, cit.

[7] G. Carli (con P. Peluffo), Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 413.

[8] Assumo
 seguendo Lenin - la categoria di “imperialismo” come categoria principalmente economica, e solo conseguentemente politico-militare. In questo senso è assolutamente appropriato rileggere alla luce della situazione attuale L’imperialismo, fase suprema del capitalismo di Lenin. Per una rilettura in questa chiave vedi V. Giacché, “Imperialismo e capitale finanziario”, l’ernesto, n. 3/2004, pp. 70-78.

[9] “I tagli alla spesa proposti da Kerry fanno acqua, in quanto non toccano molte delle voci più importanti, come difesa, esercito...” (C. Baum, “Bush-Kerry, vince il deficit”, Bloomberg Investimenti, 17 luglio 2004). Questo non significa che non sia comunque salutare mandare a casa la cricca di Bush jr. Sarebbe però sbagliato nutrire l’illusione di un radicale cambiamento della politica Usa.

[10] Vedi in proposito, di R. Martufi e L. Vasapollo, “Povero atipico... tipicamente povero. Confronto tra vecchie e nuove povertà in Europa”, in Proteo, n. 1/2004, pp. 3-19; di L. Vasapollo, “Povera Europa... delle nuove povertà” e “Classe in bilico”, rispettivamente su “La Rinascita della sinistra” del 2 e del 23 luglio 2004.

[11] 11 Un’eccellente analisi in termini marxisti di tale fenomeno è stata offerta da D. Moro, “Contro le delocalizzazioni ci vuole il sindacato UE”, il manifesto, 6 agosto 2004.

[12] Emblematico il sottotitolo di un articolo dedicato dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung alle drastiche riduzioni del costo del lavoro proposte dalla Volkswagen ai sindacati (riduzione di 2 miliardi di euro, su un totale di 4,8, entro il 2011!): “In caso di necessità possiamo costruire le nuove auto da qualche altra parte” (“VW will Arbeitskosten drastisch senken”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 24 agosto 2004).

[13] 13 Su questo aspetto si veda E. Dal Bosco, “La questione salariale”, l’ernesto, n. 3/2004, pp. 55-56.

[14] Un esame più dettagliato del testo finale del progetto di Costituzione è contenuto nel mio “La Costituzione di Sua Maestà”, su questo stesso numero di Proteo.