L’impossibile concertazione. La crisi dell’Italia nella crisi economica internazionale
Vladimiro Giacché
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3. C’è Europa e Europa: e specificità del caso italiano
“- Come pensi di aumentare la produttività senza nuovi
investimenti?
- Mi auguro con la tortura”
(da una vignetta di Massimo Bucchi, la Repubblica, 30
aprile 2004).
Chiunque in Italia legga la stampa (economica e non) tedesca
deve confrontarsi con un autentico paradosso: in Germania il possibile fattore
di crisi che è ritenuto più pericoloso è rappresentato dal rallentamento dell’economia
cinese. Laddove la principale preoccupazione di padroni e padroncini nostrani è
rappresentata dalla “concorrenza cinese” (spesso “scorretta”, sempre “temibile”).
Il paradosso è solo apparente. In effetti, non è chiaro se
la Cina riuscirà a moderare la sua crescita impetuosa (attualmente del +9,7%
rispetto allo scorso anno...) per evitare forti squilibri della sua economia. Se
il rallentamento sarà brusco (e questo sembrano temere i grandi investitori
istituzionali, che negli ultimi mesi stanno in parte dirigendo altrove il loro
denaro), ne pagheranno il prezzo innanzitutto il Giappone e la Germania. Ossia i
due paesi che hanno maggiormente beneficiato della crescita cinese, aumentando
notevolmente le loro esportazioni in Cina [1].
Il modello di specializzazione della Germania, in
particolare, focalizzato com’è su macchinario strumentale e beni di
investimento ad elevato contenuto tecnologico (il 57% delle esportazioni
tedesche è rappresentato da beni di investimento), ne fa un grande esportatore
in paesi come la Cina. Più in generale, l’export tedesco cresce (+4,6% nei
primi tre mesi del 2004): e cresce per l’appunto in Asia, ma anche negli Usa e
nei paesi dell’est europeo. Oggi la Germania è tornata ad essere il paese che
esporta di più in assoluto (62 miliardi di dollari di vendite all’estero nel
2003). Tutto questo nonostante l’euro forte. È utile riportare la spiegazione
che di questo fenomeno dà un analista finanziario: “i prodotti tedeschi sono
poco sensibili alle oscillazioni valutarie grazie alla loro qualità. La
concorrenza è pochissima e paesi in così forte espansione come la Cina pagano
volentieri un prezzo superiore pur di avere macchinari migliori” [2].
Del tutto diversamente vanno le cose da noi. Il nostro
modello produttivo (retaggio di decenni di politiche economiche sbagliate, ma le
cui conseguenze sono venute alla luce nella loro drammaticità soltanto negli
ultimi anni) è centrato su aziende di piccola dimensione, forte su prodotti
maturi, imperniato sul basso costo della forza-lavoro (costo nettamente
inferiore alla media degli altri Paesi dell’Unione Europea a 15), [3] debole in tecnologia, ricerca, innovazione di prodotto.
In tal modo la nostra specializzazione produttiva tende nel
complesso a posizionarsi precisamente là dove sono la Cina e i Paesi di nuova
industrializzazione (come pure quelli di recente ingresso nell’Unione
Europea). Per questo possiamo ritenere “temibile” la concorrenza dei
prodotti cinesi anche nel nostro mercato interno. Per questo si è avuto negli
ultimi anni un vero e proprio crollo del nostro export in Germania, dovuto non
soltanto alla debolezza della domanda interna di quel Paese, ma anche - e
soprattutto - al fatto che prodotti provenienti dai Paesi dell’Est europeo
hanno sostituito quelli italiani.
Ho esposto analiticamente altrove i motivi di questa
situazione. [4] Mi limito, perciò, a ricapitolarli per punti.
1) Le piccole e medie imprese
A lungo sono state considerate un modello di competizione
unico al mondo, tale da farle ritenere una sorta di confutazione vivente dell’importanza
delle economie di scala. La loro crisi attuale rende manifesto quali fossero i
loro veri vantaggi competitivi: a) le svalutazioni periodiche della lira (sino
al 1995), b) un’evasione fiscale senza confronti negli altri Paesi sviluppati,
c) un basso costo della forza-lavoro.
Il destino di questi fattori è presto detto: a) le
svalutazioni competitive non sono più possibili a seguito dell’introduzione
dell’euro, b) l’evasione fiscale non può ulteriormente aumentare (in
particolare dopo la vera e propria orgia di “condoni”, “concordati” e
regalie varie promossi da Berlusconi...), c) il costo della forza-lavoro non è
ulteriormente comprimibile (e già oggi comporta una crisi marcata della domanda
interna di beni di consumo).
2) Le grandi imprese
Non si semplifica troppo se si dice che in Italia non ce ne
sono quasi più. Nella classifica recentemente pubblicata da “Fortune”
delle 500 più importanti multinazionali del mondo, soltanto 8 sono italiane.
Tra esse troviamo una sola impresa manifatturiera (peraltro in crisi), ossia la
Fiat, qualche azienda del settore bancario e assicurativo, una società di
servizi come Telecom, e due imprese pubbliche come Eni e Enel. Fine.
Come si è arrivati a questo? I motivi sono più d’uno. Un
ruolo decisivo hanno però giocato le privatizzazioni degli anni Novanta,
realizzate soprattutto da governi di centro-sinistra. Esse hanno in sostanza
consentito a capitalisti industriali in difficoltà (a causa della concorrenza
internazionale) di trovare un porto sicuro nel meraviglioso mondo oligopolistico
dei servizi pubblici privatizzati (mentre, circostanza degna di nota, le imprese
manifatturiere privatizzate sono state invece quasi tutte acquisite da
multinazionali straniere) [5].
Le privatizzazioni hanno quindi creato una situazione così
sintetizzabile:
a) Hanno eliminato la necessità, per le grandi famiglie
del capitalismo italiano, di coltivare i business tradizionali nei quali erano
in difficoltà.
b) I monopoli a proprietà pubblica (per lo più monopoli
naturali, cioè inerenti a servizi non liberalizzabili o non completamente
liberalizzabili) sono divenuti monopoli a proprietà privata: in molti casi si
è quindi avuto un aumento delle tariffe, senza un parallelo miglioramento dei
servizi offerti [6].
c) Lo Stato ha perduto una leva importante di politica
economica (non potendo, ad es., usare le tariffe in funzione anticiclica, per
calmierare i prezzi, ecc: e infatti le tariffe dei servizi di pubblica
utilità sono tra le principali cause dell’inflazione degli ultimi due
anni).
d) I benefici per le finanze pubbliche sono risultati reali
(oltre 220.000 miliardi di vecchie lire...), ma a carattere di una tantum e
con effetti di breve periodo: nel lungo periodo lo Stato avrebbe incassato
probabilmente di più qualora avesse quotato una quota di minoranza delle
proprie società e si fosse limitato a riscuotere i relativi dividendi (e
infatti proprio calcoli del genere hanno rallentato negli ultimi anni la
privatizzazione dell’Enel).
e) Si è prodotto un effetto significativo nell’attrarre
verso l’investimento azionario i risparmiatori italiani. Sarebbe facile
ironizzare sul fatto che, soprattutto per quanto riguarda le ultime
privatizzazioni, la cosa non è stata fonte di particolari soddisfazioni per i
risparmiatori stessi (Enel, e ancor più Finmeccanica, quotano a tutt’oggi a
valori molto inferiori a quelli ai quali sono stati collocati presso il
pubblico).
f) Un effetto parimenti significativo si è avuto sulla
capitalizzazione di Borsa e sui suoi volumi. Questo però non ha sortito l’effetto
sperato di spingere più aziende private italiane alla quotazione. In
un certo senso è avvenuto il contrario: non soltanto i “capitalisti
familiari” italiani non hanno superato la loro naturale ritrosia nei
confronti della quotazione, ma in diversi casi le imprese privatizzate, una
volta comprate dalle grandi (o medie) famiglie del capitalismo italiano, sono
state cancellate dal listino (emblematico il caso degli Aeroporti di Roma).
Poi è arrivato Berlusconi e ci ha messo del suo. Con il suo
governo (una delle più riuscite incarnazioni recenti del “comitato d’affari
della borghesia” di marxiana memoria), per quanto riguarda le residue società
del comparto pubblico ha in qualche caso lasciato incancrenire alcune gravi
situazioni di crisi (vedi Alitalia, di cui la Lega vorrebbe il fallimento, e di
cui Forza Italia preferirebbe la svendita mascherata da commissariamento), in
altri casi ha dato alle società pubbliche strategie assolutamente perdenti sul
piano industriale (ma profittevoli nel consolidare l’asse con gli Usa del
governo italiano). Emblematico il caso di Finmeccanica, che, proprio nel momento
in cui va affermandosi un forte settore aerospaziale europeo, fa la scelta di
buttarsi tra la braccia degli Usa: e quindi stringe rapporti con la Boeing e con
la britannica BAE Systems (entrambe in cattive acque), propizia la vendita al
Gruppo Carlyle della Fiat Avio, e si rifiuta di esercitare un’opzione di
acquisto sulle azioni del colosso aerospaziale europeo Eads.
Se poi ci volgiamo alla situazione delle finanze pubbliche,
è facile accorgersi del fatto che:
a) i condoni hanno aperto una vera e propria crisi fiscale
dello Stato, derivante dall’assenza di gettito da parte di intere
categorie;
b) il fisco non è mai stato così iniquo: di fatto sono
ormai quasi soltanto i lavoratori dipendenti a sostenere il peso della
fiscalità, e sempre più sosterranno anche il peso dei tagli agli Enti Locali,
direttamente (cioè pagando imposte regionali e comunali più onerose) o
indirettamente (attraverso l’aumento delle tariffe dei servizi pubblici);
c) le cartolarizzazioni degli immobili pubblici hanno
ottenuto benefici di breve periodo (comunque inutili a tamponare le falle
apertesi nelle finanze pubbliche) in cambio di maggiori spese future;
d) il deficit ha ripreso a correre;
e) da ultimo, il debito pubblico dell’Italia è stato
declassato dall’agenzia di rating Standard & Poor’s (primo caso
del genere dall’introduzione della moneta unica nel 1999). Questo renderà in
prospettiva più onerosi gli interessi sull’enorme debito pubblico italiano e
su titoli comunque garantiti dallo Stato (come le cartolarizzazioni di immobili
pubblici) [7], ma renderà più oneroso il ricorso al
debito anche per le imprese private che decideranno di emettere obbligazioni (e
che, dopo lo scandalo Parmalat, già scontano un atteggiamento non proprio
entusiastico da parte dei mercati internazionali...).
4. “Concertazione” o conflitto?
“Il conflitto è il padre di tutte le cose”.
(Eraclito)
Il quadro sommariamente tracciato sinora ci permette di
ragionare sulle prospettive di breve-medio periodo per le condizioni materiali
dei lavoratori e le concrete possibilità di costruire movimenti di lotta
efficaci.
La situazione è caratterizzata, non soltanto in Italia ma in
tutta Europa, da un attacco che ha pochi precedenti nel periodo successivo alla
seconda guerra mondiale. Questo avviene in una situazione in cui è sempre più
vero, non soltanto in Italia ma in Europa, che ormai in molti casi è povero
anche chi lavora, e non soltanto chi è disoccupato. La precarietà non
garantisce ai lavoratori più giovani neppure la possibilità teorica di
usufruire un domani di prestazioni pensionistiche decenti, mentre sempre
maggiori strati di lavoratori sono rigettati nell’insicurezza dalle crisi
industriali e crescono i veri e propri ricatti operati brandendo la minaccia
della “delocalizzazione”. Contemporaneamente, le prestazioni sociali sono
sottoposte ad un attacco micidiale anche nei Paesi del cui “modello sociale”
rappresentavano sino a pochi anni fa il fiore all’occhiello.
È importante avere sempre chiaro questo contesto più
complessivo quando si ragiona delle cose italiane. Ma anche tenere conto di
alcune specificità della situazione del nostro Paese. Provo a riassumerle:
1) In Italia i margini dei redditi da lavoro da erodere
ulteriormente a beneficio dei profitti sono molto più esigui che altrove. Il
perché è presto detto:
a. I salari (tanto al lordo quanto al netto delle ritenute
sociali) sono già molto più bassi della media degli altri Paesi dell’Europa
a 15; dal 1996 al 2004 l’Italia è in assoluto il Paese industrializzato in
cui le retribuzioni sono aumentate meno (lo stipendio di un operaio è aumentato
dello 0,2%: elaborazione Eurostat su dati Ocse).
b. La situazione al riguardo si è aggravata a motivo dell’inflazione post-euro,
che ha eroso in maniera in molti casi intollerabile il potere d’acquisto di
salari e stipendi;
c. I salari italiani sono più bassi di quelli europei anche
in termini indiretti: ossia perché le inefficienze nel sistema delle
prestazioni sociali in essere nel nostro Paese (sanità, scuola, trasporti
pubblici, assistenza agli anziani, ecc.) sono tali da richiedere un ricorso
massiccio a prestazioni private a pagamento;
d. Quanto sopra vale anche per il pubblico impiego, nel quale
siano ben lontani da stipendi europei.
2) Un’altra specificità italiana è rappresentata dalla
vergogna fiscale. Secondo stime attendibili la ricchezza che sfugge alla
tassazione in Italia sotto forma di evasione è pari al 30% del totale. Si ha
così una una violenta redistribuzione del reddito dai salari ai profitti e alle
rendite. Il fisco in Italia agisce come un vero e proprio Robin Hood alla
rovescia, in aperta violazione della stessa Costituzione.
3) I sovraprofitti determinati da salari bassi ed evasione
fiscale alta (in effetti anche l’evasione fiscale potrebbe essere considerata
un “aiuto di Stato”, in quanto abbatte i costi di produzione in misura
estremamente significativa) non sono stati impiegati dalle nostre imprese in
investimenti, in spese per ricerca e sviluppo, innovazione di prodotto, ecc.
[8]. Essi sono stati in
generale tesaurizzati dalle famiglie degli imprenditori (la arretrata struttura
proprietaria delle imprese italiane è parte non piccola dei problemi economici
del nostro Paese), oppure investiti in operazioni finanziarie in Italia o all’estero.
Se quanto precede ha un senso, ne derivano indicazioni
piuttosto chiare su quali strade siano oggi praticabili e quali no.
1) Non è praticabile un ulteriore prelievo dal monte salari.
Al contrario, si pone con urgenza la necessità quantomeno di avvicinarsi a
salari europei.
2) Non è praticabile nessuna riedizione della “concertazione”
dei primi anni Novanta (a proposito della quale bisognerebbe che qualcuno ogni
tanto ricordasse, en passant, che la Confindustria e i suoi associati non
hanno a tutt’oggi neppure adempiuto agli impegni che avevano preso in tale
sede...) [9].
3) Sarebbe, invece, praticabile un forte intervento sull’evasione
fiscale (prima ancora della introduzione di una patrimoniale), con il quale
finanziare tanto l’assistenza (che non deve essere a carico dei contributi
pensionistici dei lavoratori dipendenti) quanto investimenti in infrastrutture e
in ricerca e sviluppo, quanto - infine - una riduzione del prelievo fiscale a
carico dei lavoratori. Un tale intervento sulla fiscalità sarebbe tra l’altro
un vero e proprio intervento di modernizzazione del Paese, in quanto ridurrebbe
il peso della rendita e darebbe un colpo a quelle grandi e piccole corporazioni
che rappresentano uno dei principali freni dell’economia italiana [10].
Si tratta, in altri termini, di rovesciare la tendenza
di tutti gli anni Ottanta e Novanta, aumentando la quota di valore prodotto che
va ai lavoratori [11]. Si tratta, cioè, di
rovesciare la concezione (e la prassi) dei bassi salari come variabile
indipendente e fondamentale per la competitività delle imprese. Una concezione
e una prassi che - è importante ripeterlo - hanno contribuito in misura
determinante a spingere l’economia italiana nel cul de sac in cui
attualmente si trova. È l’ora di voltare pagina.
[1] Per capire il potenziale di
assorbimento del mercato cinese basta avere presente che in un anno le
importazioni in Cina sono aumentate del 50,5%, più di quanto siano aumentate le
esportazioni cinesi (+ 46,5%) (Dati di luglio 2004).
[2] Così H.
Wehner di West Am in M. Frojo, “Il made in Germany importa utili”, Bloomberg
Investimenti, 17 luglio 2004. Il problema della Germania è semmai il calo
della domanda interna e degli investimenti delle imprese in patria, a fronte di
un aumento dei loro investimenti all’estero.
[3] Questo
aspetto è opportunamente documentato, con dati di estremo interesse, da J.
Arriola, L. Vasapollo, “La dolce maschera dell’Europa. Per una critica
delle politiche economiche neoliberiste”, Milano, Jaca Book, 2004, pp.
121-126.
[4] “La scialuppa del Titanic. Dalla crisi ai servizi pubblici:
il punto d’approdo delle grandi famiglie del capitalismo italiano”
Proteo, nn. 2-3/2003; “Il calabrone ha perso le ali. Le piccole e medie
imprese nella crisi” Proteo, n. 1/2004, “Il borghese piccolo piccolo.
Considerazioni sulla crisi italiana” in la Contraddizione, n. 102,
maggio-giugno 2004.
[5] Anche per questo motivo - come ha evidenziato
una recente ricerca dell’Istat - le imprese italiane che esportano sono ormai,
in misura significativa (che supera il 30% nei settori tecnologicamente di
punta), filiali di multinazionali a controllo estero: cfr. F. Sallusti, “L’export
‘tira’, ma non è italiano”, il manifesto, 22 luglio 2004.
[6] 20 Questo in quanto la situazione di monopolio od oligopolio
determina un forte “potere di mercato” dell’impresa, che le consente di
aumentare i margini di profitto attraverso l’aumento dei prezzi. Di
passaggio si può notare che, se è stato empiricamente accertato un nesso tra
concorrenza ed efficienza, non esiste una sola prova empirica del nesso tra
proprietà privata ed efficienza - a differenza di quanto è divenuto senso
comune anche a sinistra nel corso degli anni Novanta: conclusiva in proposito
l’analisi di G. Bognetti, Il processo di privatizzazione nell’attuale
contesto internazionale, Working Paper del Dipartimento Economia Politica
e Aziendale, Università degli Studi di Milano, n. 23, dicembre 2001.
[7] I. Bufacchi, “Effetto domino S&P su 10 mld di bond”, il
Sole 24 ore, 16 luglio 2004.
[8] La più recente conferma di questo è offerta dalla citata ricerca Istat sulle
imprese a controllo straniero operanti in Italia. I livelli di produttività del
lavoro di tali imprese sono quasi doppi rispetto a quelli delle imprese
nazionali: a motivo degli elevati investimenti per addetto (doppi rispetto a
quelli effettuati da imprese italiane) e per la ricerca (all’incirca 7 volte
superiori!): cfr. ancora F. Sallusti, “L’export ‘tira’, ma non è
italiano”, il manifesto, 22 luglio 2004.
[9] Tra le condizioni dell’accordo c’era un raddoppio delle spese in
ricerca e sviluppo da parte delle imprese: sono dimezzate.
[10] 24 Vale la
pena di osservare che il recupero anche solo parziale dell’evasione
(quantificata annualmente dalla stessa Agenzia delle Entrate in cifre che si
aggirano sui 200 miliardi di euro) consentirebbe un significativo avanzo
primario, ossia l’ottemperanza di quei “parametri di Maastricht” - su
deficit e debito pubblici - di cui ci si ricorda soltanto quando si tratta di
colpire le pensioni o di ridurre le spese sociali. Da questo punto di vista,
anche il dibattito pro o contro i parametri di Maastricht è fuori centro:
appunto perché quei parametri possono tranquillamente essere rispettati
colpendo l’evasione e le rendite (che è come dire che la stabilità monetaria
non devono necessariamente pagarla i lavoratori). E in verità il rispetto di
quei parametri non è necessariamente una politica di classe, così come non lo
è il farli saltare (e infatti tutti i governi di destra europei, a cominciare
dal nostro, da un lato attaccano periodicamente il patto di stabilità, dall’altro
diminuiscono le tasse sulle imprese...).
[11] Condivisibile in proposito L. Gallino, “Lavoro, profitti e
produttività”, la Repubblica, 29 agosto 2004.