L’impossibile concertazione. La crisi dell’Italia nella crisi economica internazionale

Vladimiro Giacché

1. Gli Usa: la ripresa che non c’è

“Gli ultimi tre anni hanno visto la più grande perdita di posti di lavoro negli Stati Uniti dopo la Grande Depressione”
(R. Forsehar, T. Emerson, “Lavorare molto guadagnare meno”, l’Espresso, 2 settembre 2004).

La situazione economica internazionale può essere riassunta in una frase: la crisi economica internazionale non è alle nostre spalle. Tutt’altro.

Vediamo innanzitutto la situazione dell’economia americana. Il mantra dell’economia Usa che “vola”, “traina il resto del mondo”, esprime un “balzo” della produttività, mantiene una bassa disoccupazione, ecc. ecc., rappresenta uno dei luoghi comuni più ricorrenti della nostra pubblicistica economica (tra le peggiori del mondo in termini di qualità dell’informazione fornita). I dati, però, ci raccontano una realtà ben diversa. E ci dicono che i “deficit gemelli” degli Usa (bilancia commerciale e deficit pubblico) non solo non accennano a diminuire, ma si ampliano a dismisura. E, ciò che è peggio, che l’aumento della spesa pubblica Usa (+26%, pari a + 500 miliardi di dollari, da quando il giovane Bush si è impadronito della Casa Bianca), e quindi dell’indebitamento pubblico, non ha comportato affatto un recupero in termini di bilancia commerciale. Quest’ultima, a differenza di quanto avviene per l’Ue (e a dispetto delle sciocchezze del giornale della Confindustria sulla “minore competitività” europea...), è cronicamente in passivo nei confronti del resto del mondo.

Non può quindi stupire che gli ultimi dati economici Usa ci dicano che i consumi sono in calo (- 1,1% le vendite al dettaglio a giugno), e così pure la produzione industriale (- 0,3% nello stesso mese: il dato peggiore dall’aprile 2003); mentre crescono le richieste di sussidio di disoccupazione (+ 10.000 in un mese a luglio) e il numero dei poveri (a fine 2003 erano 36 milioni di persone, pari al 12,5% della popolazione, ma - ciò che più conta - il loro numero è aumentato di1 milione e 300 mila unità in un solo anno) [1]. Lo stesso mini-rialzo dei tassi operato da Greenspan, che nelle intenzioni della Fed avrebbe dovuto testimoniare l’avvenuta ripresa economica (e quindi infondere fiducia), non ha affatto sortito gli effetti sperati: tant’è vero che dal giorno del rialzo dei tassi (30 giugno) alla fine di agosto il Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici Usa, è sceso di svariati punti percentuali (e vale la pena di ricordare che già negli anni Novanta un rialzo dei tassi di interesse Usa fece da detonatore alla crisi); infine, il 31 agosto sono stati resi pubblici i dati relativi alla fiducia dei consumatori ed all’indice dei responsabili per gli acquisti dell’area di Chicago: entrambi in sensibile calo, con dati inferiori alle attese.

Proviamo quindi a fissare qualche punto fermo.

Il debito Usa (pubblico e privato) nei confronti del resto del mondo è ormai fuori controllo: ha infatti superato del 300% il prodotto interno lordo [2]. Guardando più da vicino la bilancia commerciale Usa, si nota che negli ultimi 5 anni le importazioni Usa sono cresciute del 38,4%, mentre le esportazioni sono aumentate solo del 9,7%; il che ha portato il disavanzo della bilancia commerciale da 160 a 495 miliardi di dollari. E nei soli primi 5 mesi del 2004 tale disavanzo ha già raggiunto i 225 miliardi di dollari [3].

Cosa significa questo? Significa che la tanto declamata “crescita economica Usa” è fondata sul debito. Essa non si traduce in crescita della produzione e dell’export, in particolare manifatturiero. Né si traduce in una reale ripresa degli investimenti industriali, nonostante che il prezzo del denaro sia ormai da diversi anni ai minimi storici. E difficilmente le cose potrebbero andare diversamente, visto che il grado di utilizzo degli impianti è all’incirca pari al 77% (il che significa capacità produttiva non utilizzata pari a poco meno di un quarto del totale).

Gli stessi buoni risultati di alcune grandi multinazionali basate in Usa sono prodotti dal reimpatrio dei profitti fatti nei terminali industriali che le grandi corporations statunitensi hanno in paesi come la Cina, l’India, in Sud Est Asiatico e in America Centrale e Meridionale. In termini classici, si tratta di trasferimento di plusvalore su scala internazionale. Quindi: profitti per le grandi multinazionali, disoccupazione per i lavoratori statunitensi. E conseguente accelerazione della polarizzazione sociale negli Usa (i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri).

Certo, gli Usa restano destinatari di ingenti investimenti esteri. Però si tratta di una quota che va scendendo di anno in anno, e che privilegia sempre di più investimenti di portafoglio (per definizione più volatili) rispetto agli investimenti industriali diretti. Per rendere l’idea, basterà ricordare che lo scorso anno gli investimenti in Usa sono ammontati a 40 miliardi di dollari, contro i 53 miliardi diretti in Cina. Si tratta di cifre ancor più significative se si pensa che nel 2002 gli investimenti negli Usa erano stati di 72 miliardi di dollari, e nel 2001 addirittura pari a 167 miliardi. Si tratta di dati forniti dall’Ocse: essi provano che nel 2003 gli Usa hanno patito più di tutti gli altri 29 stati industrializzati membri dell’Ocse la caduta di investimenti diretti esteri.

Non solo: gli stessi investimenti di portafoglio (in particolare in titoli di Stato Usa) stanno divenendo sempre più rischiosi. E infatti le banche centrali dei principali paesi asiatici (Cina e Giappone), che più di altri hanno investito in titoli di stato americani per evitare il crollo del biglietto verde (che avrebbe danneggiato le loro esportazioni negli Usa), stanno cominciando a correre ai ripari: non soltanto diminuendo i propri investimenti in dollari, ma anche cominciando a costruire un mercato unico delle obbligazioni asiatiche (che potrebbe rappresentare una valida alternativa agli investimenti in titoli di Stato Usa, oltreché il primo passo verso una moneta unica nippo-cinese); inoltre, il Giappone e soprattutto la Cina stanno accentuando la diversificazione delle proprie riserve di valuta, aumentando il peso dell’euro a scapito del dollaro.

E veniamo così al punto cruciale. L’attuale economia Usa, imperniata sul ruolo di grande consumatore nella distribuzione internazionale del lavoro (come dimostra la bilancia commerciale di quel paese, che è in rosso dal ininterrottamente dal 1976), si basa su un presupposto: sull’egemonia valutaria del dollaro a livello mondiale. È tale egemonia che ha reso possibile un flusso ininterrotto di investimenti di capitale negli Usa, e quindi ha consentito loro di avere una bilancia commerciale con il resto del mondo cronicamente in rosso senza che questo comportasse le conseguenze che ogni altro Paese del mondo al suo posto dovrebbe patire: svalutazioni, pagamento di cospicui interessi sui titoli di Stato, crisi finanziarie. Il problema è che tale egemonia è oggi insidiata molto seriamente dall’euro [4].

La gravità di questa insidia nasce da diversi fattori: l’ampiezza dei paesi e dei mercati in cui l’euro circola come mezzo di pagamento; i fondamentali delle economie di questi paesi (la cui bilancia commerciale è complessivamente in forte surplus) [5]; il numero già elevato di paesi che di fatto l’hanno adottata o comunque a cui prioritariamente hanno agganciato le loro valute; e, ovviamente, i fondamentali negativi dell’economia americana. Sono questi fattori ad aver determinato il forte deprezzamento del valore del dollaro nei confronti dell’euro (che, per inciso, sarebbe assolutamente inspiegabile se fosse vero che l’economia Usa va benone e quella europeo malissimo, come gli attardati reaganiani che scrivono sui nostri giornali economici continuano a predicare).

Il deprezzamento del dollaro è stato tutt’altro che indolore, sia per molte banche centrali che per molti investitori privati, che in questi anni hanno avuto grossi perdite avendo riserve in dollari o puntando su strumenti finanziari denominati nella valuta statunitense. La possibile conseguenza di tutto ciò è sintetizzabile con le parole di un esperto economico, collaboratore del Corriere della Sera: “È naturale che una moneta di riserva debba prima o poi rinunciare al proprio ruolo, se diventa un cronico fattore di perdita per chi la detiene. Il dollaro si trova su questa strada” [6]. In altri termini, il ribasso della valuta Usa nei confronti dell’euro (e presumibilmente a breve anche nei confronti delle valute asiatiche) non è un ribasso come gli altri: esso potrebbe infatti comportare la perdita, per gli Usa, del “potere di signoraggio” del dollaro a beneficio della valuta europea; sarebbe insomma quest’ultima adesso ad acquisire quella “capacità di attirare capitali, di spostare risorse, di partecipare da posizioni di forza alla distribuzione mondiale del lavoro e del capitale”, che Guido Carli individuava già nel 1993 come il vero obiettivo di Maastricht e della moneta unica [7].

2. L’Unione Europea: verso il modello americano?

“Occorre un programma completo di riforme strutturali, che deve essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità”.

(Tommaso Padoa Schioppa [membro del direttorio della Banca Centrale Europea], Corriere della sera, 26 agosto 2003).

La situazione economica degli Usa descritta sopra rappresenta la base strutturale dell’involuzione nella politica e nelle relazioni internazionali di cui l’amministrazione di Bush jr. è stata tristemente protagonista in questi anni. Ma è bene non perdere di vista che tutto questo si inserisce in una tendenza di più lungo periodo: una tendenza che ha visto, sin dai primi anni Novanta, un accentuarsi dei conflitti interimperialistici, e segnatamente tra gli Usa e l’emergente polo imperialistico europeo [8]. Da questo punto di vista, la guerra all’Irak fa parte della stessa storia a cui appartengono non soltanto la guerra all’Afghanistan, ma anche la disgregazione della Jugoslavia, culminata nella guerra della Nato contro il Kosovo voluta da Clinton. Non è casuale, quindi, che oggi il democratico Kerry non abbia intenzione di tagliare i fondi alla “difesa” Usa [9].

Sarebbe gioco troppo facile e consolatorio, insomma, interpretare la deriva politica americana (liberticida in casa ed estremamente aggressiva fuori) come frutto semplicemente della paranoia e dell’inadeguatezza dell’attuale inquilino della Casa Bianca e dei “neo-conservatori” che lo attorniano. Sotto c’è qualcosa di ben più profondo: un forte conflitto interimperialistico. A sua volta causato da una crisi di sovrapproduzione di merci e di capitale che ha portata mondiale (e che sembra al momento risparmiare soltanto - e anche qui non senza contraddizioni - Paesi come la Cina e l’India). Sarà il caso di precisare che tale crisi non è scoppiata come un fulmine a ciel sereno (né, come vorrebbero le ricostruzioni ideologiche correnti, per via dello scoppio della bolla speculativa della “new economy”), ma fa seguito ad un trentennio di accumulazione decrescente. Di fatto, dai primi anni Settanta (e cioè da prima della prima crisi petrolifera) l’economia dei principali paesi capitalistici non ha conosciuto i tassi di sviluppo del periodo 1945-1970.

In questo contesto deve inserirsi anche il ragionamento sull’Unione Europea. Che - presa nel suo insieme - vede la sua economia caratterizzata da una bilancia commerciale fortemente positiva nei confronti del resto del mondo (anche se si tratta di un attivo destinato a ridursi con l’ingresso dei 10 nuovi paesi membri dell’Unione). Ma conosce anche fenomeni meno piacevoli, che possono essere schematicamente così riassunti:

1) La crescente precarizzazione dei rapporti di lavoro [10].

2) L’aumento dello sfruttamento. Anche nella forma più classica dell’aumento del plusvalore assoluto, ossia dell’aumento delle ore di lavoro a parità di salario (come sta accadendo in Germania: e non in piccole imprese, ma in aziende quali Siemens, Bosch, Daimler-Benz, Volkswagen, Opel, ecc.) [11].

3) L’utilizzo dell’allargamento ad est per processi di delocalizzazione delle imprese, realizzati o minacciati (con il risultato, in entrambi i casi, di diminuire il potere di contrattazione dei lavoratori nell’Europa a 15, come si vede dal punto precedente) [12].

4) Un gigantesco processo di redistribuzione del reddito dai redditi da lavoro a quelli da capitale [13].

5) Una forte crisi della domanda interna.

6) Una crescita del disagio sociale e di fenomeni di marginalità.

7) Il tutto, in presenza di un oggettivo trionfo del “pensiero unico neoliberista” (che potrebbe più opportunamente definirsi: “liberale classico”): minore intervento dello Stato nell’economia, privatizzazioni, fede nella capacità autoregolatrice del mercato, necessità di “flessibilizzare” il mercato del lavoro, ecc. ecc.

L’Europa che ci raccontano le cronache economiche è insomma ben diversa da quella della retorica ufficiale. È un’Europa in cui è in corso - e non da oggi - un attacco al salario in tutte le sue forme (salario diretto, indiretto e differito). È un’Europa che sembra voler fare concorrenza agli Usa sul loro stesso terreno, ossia cancellando le conquiste di decenni per tornare alla “legge della giungla” sociale, in pratica all’Ottocento.

Tutto questo, purtroppo, è emerso molto chiaramente in occasione dell’accordo sul progetto di trattato che dà vita ad una (pseudo-)Costituzione europea [14]. Della quale, in sintesi, si può dire che tutto quello che riguarda i diritti dei lavoratori è rinviato alle legislazioni nazionali (determinando così un pericolosissimo dumping sociale), mentre tutto quello che riguarda la libera circolazione delle merci e
 soprattutto - dei capitali trova le più ampie garanzie a livello di Unione. È degno di nota, da questo punto di vista, il fatto che tutti i laudatori della cosiddetta “economia sociale di mercato” europea facciano riferimento precisamente a quei caratteri della società europea che sono (ormai da decenni) sotto attacco. Di fatto, il compromesso sociale che è alla base del welfare europeo è già saltato sotto i colpi di scure della ristrutturazione neo-liberista dell’economia. E lo stesso ingresso nell’Unione di paesi con standard sociali scandalosamente bassi, quali i paesi dell’est europeo (dopo la cura di capitalismo selvaggio somministrata loro nell’ultimo decennio), è oggi adoperato come il martello destinato a piantare gli ultimi chiodi sulla bara dell’”economia sociale di mercato” europea. Su questa base, davvero non ci si può stupire che le recenti elezioni europee abbiano visto un così marcato tasso di astensione - cioè di estraneità e rifiuto rispetto ai processi in corso. (Qualche stupore, invece, è ingenerato dalla constatazione che nessuna forza di sinistra in Europa ha saputo o voluto innescare un dibattito reale sul progetto di Costituzione prima che esso fosse approvato).

A chi legga i processi che stanno avvenendo con occhi scevri da pregiudizi ideologici, non sarà insomma difficile scorgere inquietanti analogie con la situazione di inizio Novecento: crisi, confronto tra potenze, debolezza del movimento operaio, deriva oligarchica e aumento delle tentazioni autoritarie-plebiscitarie, guerre per interposta persona nelle “colonie”, sostanziale subalternità - quando non pura e semplice assimilazione - dei partiti socialdemocratici all’oligarchia imperialistica su scala europea.


3. C’è Europa e Europa: e specificità del caso italiano

“- Come pensi di aumentare la produttività senza nuovi investimenti?

- Mi auguro con la tortura”

(da una vignetta di Massimo Bucchi, la Repubblica, 30 aprile 2004).

Chiunque in Italia legga la stampa (economica e non) tedesca deve confrontarsi con un autentico paradosso: in Germania il possibile fattore di crisi che è ritenuto più pericoloso è rappresentato dal rallentamento dell’economia cinese. Laddove la principale preoccupazione di padroni e padroncini nostrani è rappresentata dalla “concorrenza cinese” (spesso “scorretta”, sempre “temibile”).

Il paradosso è solo apparente. In effetti, non è chiaro se la Cina riuscirà a moderare la sua crescita impetuosa (attualmente del +9,7% rispetto allo scorso anno...) per evitare forti squilibri della sua economia. Se il rallentamento sarà brusco (e questo sembrano temere i grandi investitori istituzionali, che negli ultimi mesi stanno in parte dirigendo altrove il loro denaro), ne pagheranno il prezzo innanzitutto il Giappone e la Germania. Ossia i due paesi che hanno maggiormente beneficiato della crescita cinese, aumentando notevolmente le loro esportazioni in Cina [15].

Il modello di specializzazione della Germania, in particolare, focalizzato com’è su macchinario strumentale e beni di investimento ad elevato contenuto tecnologico (il 57% delle esportazioni tedesche è rappresentato da beni di investimento), ne fa un grande esportatore in paesi come la Cina. Più in generale, l’export tedesco cresce (+4,6% nei primi tre mesi del 2004): e cresce per l’appunto in Asia, ma anche negli Usa e nei paesi dell’est europeo. Oggi la Germania è tornata ad essere il paese che esporta di più in assoluto (62 miliardi di dollari di vendite all’estero nel 2003). Tutto questo nonostante l’euro forte. È utile riportare la spiegazione che di questo fenomeno dà un analista finanziario: “i prodotti tedeschi sono poco sensibili alle oscillazioni valutarie grazie alla loro qualità. La concorrenza è pochissima e paesi in così forte espansione come la Cina pagano volentieri un prezzo superiore pur di avere macchinari migliori” [16].

Del tutto diversamente vanno le cose da noi. Il nostro modello produttivo (retaggio di decenni di politiche economiche sbagliate, ma le cui conseguenze sono venute alla luce nella loro drammaticità soltanto negli ultimi anni) è centrato su aziende di piccola dimensione, forte su prodotti maturi, imperniato sul basso costo della forza-lavoro (costo nettamente inferiore alla media degli altri Paesi dell’Unione Europea a 15), [17] debole in tecnologia, ricerca, innovazione di prodotto.

In tal modo la nostra specializzazione produttiva tende nel complesso a posizionarsi precisamente là dove sono la Cina e i Paesi di nuova industrializzazione (come pure quelli di recente ingresso nell’Unione Europea). Per questo possiamo ritenere “temibile” la concorrenza dei prodotti cinesi anche nel nostro mercato interno. Per questo si è avuto negli ultimi anni un vero e proprio crollo del nostro export in Germania, dovuto non soltanto alla debolezza della domanda interna di quel Paese, ma anche - e soprattutto - al fatto che prodotti provenienti dai Paesi dell’Est europeo hanno sostituito quelli italiani.

Ho esposto analiticamente altrove i motivi di questa situazione. [18] Mi limito, perciò, a ricapitolarli per punti.

1) Le piccole e medie imprese

A lungo sono state considerate un modello di competizione unico al mondo, tale da farle ritenere una sorta di confutazione vivente dell’importanza delle economie di scala. La loro crisi attuale rende manifesto quali fossero i loro veri vantaggi competitivi: a) le svalutazioni periodiche della lira (sino al 1995), b) un’evasione fiscale senza confronti negli altri Paesi sviluppati, c) un basso costo della forza-lavoro.

Il destino di questi fattori è presto detto: a) le svalutazioni competitive non sono più possibili a seguito dell’introduzione dell’euro, b) l’evasione fiscale non può ulteriormente aumentare (in particolare dopo la vera e propria orgia di “condoni”, “concordati” e regalie varie promossi da Berlusconi...), c) il costo della forza-lavoro non è ulteriormente comprimibile (e già oggi comporta una crisi marcata della domanda interna di beni di consumo).

2) Le grandi imprese

Non si semplifica troppo se si dice che in Italia non ce ne sono quasi più. Nella classifica recentemente pubblicata da “Fortune” delle 500 più importanti multinazionali del mondo, soltanto 8 sono italiane. Tra esse troviamo una sola impresa manifatturiera (peraltro in crisi), ossia la Fiat, qualche azienda del settore bancario e assicurativo, una società di servizi come Telecom, e due imprese pubbliche come Eni e Enel. Fine.

Come si è arrivati a questo? I motivi sono più d’uno. Un ruolo decisivo hanno però giocato le privatizzazioni degli anni Novanta, realizzate soprattutto da governi di centro-sinistra. Esse hanno in sostanza consentito a capitalisti industriali in difficoltà (a causa della concorrenza internazionale) di trovare un porto sicuro nel meraviglioso mondo oligopolistico dei servizi pubblici privatizzati (mentre, circostanza degna di nota, le imprese manifatturiere privatizzate sono state invece quasi tutte acquisite da multinazionali straniere) [19].

Le privatizzazioni hanno quindi creato una situazione così sintetizzabile:

a) Hanno eliminato la necessità, per le grandi famiglie del capitalismo italiano, di coltivare i business tradizionali nei quali erano in difficoltà.

b) I monopoli a proprietà pubblica (per lo più monopoli naturali, cioè inerenti a servizi non liberalizzabili o non completamente liberalizzabili) sono divenuti monopoli a proprietà privata: in molti casi si è quindi avuto un aumento delle tariffe, senza un parallelo miglioramento dei servizi offerti [20].

c) Lo Stato ha perduto una leva importante di politica economica (non potendo, ad es., usare le tariffe in funzione anticiclica, per calmierare i prezzi, ecc: e infatti le tariffe dei servizi di pubblica utilità sono tra le principali cause dell’inflazione degli ultimi due anni).

d) I benefici per le finanze pubbliche sono risultati reali (oltre 220.000 miliardi di vecchie lire...), ma a carattere di una tantum e con effetti di breve periodo: nel lungo periodo lo Stato avrebbe incassato probabilmente di più qualora avesse quotato una quota di minoranza delle proprie società e si fosse limitato a riscuotere i relativi dividendi (e infatti proprio calcoli del genere hanno rallentato negli ultimi anni la privatizzazione dell’Enel).

e) Si è prodotto un effetto significativo nell’attrarre verso l’investimento azionario i risparmiatori italiani. Sarebbe facile ironizzare sul fatto che, soprattutto per quanto riguarda le ultime privatizzazioni, la cosa non è stata fonte di particolari soddisfazioni per i risparmiatori stessi (Enel, e ancor più Finmeccanica, quotano a tutt’oggi a valori molto inferiori a quelli ai quali sono stati collocati presso il pubblico).

f) Un effetto parimenti significativo si è avuto sulla capitalizzazione di Borsa e sui suoi volumi. Questo però non ha sortito l’effetto sperato di spingere più aziende private italiane alla quotazione. In un certo senso è avvenuto il contrario: non soltanto i “capitalisti familiari” italiani non hanno superato la loro naturale ritrosia nei confronti della quotazione, ma in diversi casi le imprese privatizzate, una volta comprate dalle grandi (o medie) famiglie del capitalismo italiano, sono state cancellate dal listino (emblematico il caso degli Aeroporti di Roma).

Poi è arrivato Berlusconi e ci ha messo del suo. Con il suo governo (una delle più riuscite incarnazioni recenti del “comitato d’affari della borghesia” di marxiana memoria), per quanto riguarda le residue società del comparto pubblico ha in qualche caso lasciato incancrenire alcune gravi situazioni di crisi (vedi Alitalia, di cui la Lega vorrebbe il fallimento, e di cui Forza Italia preferirebbe la svendita mascherata da commissariamento), in altri casi ha dato alle società pubbliche strategie assolutamente perdenti sul piano industriale (ma profittevoli nel consolidare l’asse con gli Usa del governo italiano). Emblematico il caso di Finmeccanica, che, proprio nel momento in cui va affermandosi un forte settore aerospaziale europeo, fa la scelta di buttarsi tra la braccia degli Usa: e quindi stringe rapporti con la Boeing e con la britannica BAE Systems (entrambe in cattive acque), propizia la vendita al Gruppo Carlyle della Fiat Avio, e si rifiuta di esercitare un’opzione di acquisto sulle azioni del colosso aerospaziale europeo Eads.

Se poi ci volgiamo alla situazione delle finanze pubbliche, è facile accorgersi del fatto che:

a) i condoni hanno aperto una vera e propria crisi fiscale dello Stato, derivante dall’assenza di gettito da parte di intere categorie;

b) il fisco non è mai stato così iniquo: di fatto sono ormai quasi soltanto i lavoratori dipendenti a sostenere il peso della fiscalità, e sempre più sosterranno anche il peso dei tagli agli Enti Locali, direttamente (cioè pagando imposte regionali e comunali più onerose) o indirettamente (attraverso l’aumento delle tariffe dei servizi pubblici);

c) le cartolarizzazioni degli immobili pubblici hanno ottenuto benefici di breve periodo (comunque inutili a tamponare le falle apertesi nelle finanze pubbliche) in cambio di maggiori spese future;

d) il deficit ha ripreso a correre;

e) da ultimo, il debito pubblico dell’Italia è stato declassato dall’agenzia di rating Standard & Poor’s (primo caso del genere dall’introduzione della moneta unica nel 1999). Questo renderà in prospettiva più onerosi gli interessi sull’enorme debito pubblico italiano e su titoli comunque garantiti dallo Stato (come le cartolarizzazioni di immobili pubblici) [21], ma renderà più oneroso il ricorso al debito anche per le imprese private che decideranno di emettere obbligazioni (e che, dopo lo scandalo Parmalat, già scontano un atteggiamento non proprio entusiastico da parte dei mercati internazionali...).

4. “Concertazione” o conflitto?

Il conflitto è il padre di tutte le cose”.

(Eraclito)

Il quadro sommariamente tracciato sinora ci permette di ragionare sulle prospettive di breve-medio periodo per le condizioni materiali dei lavoratori e le concrete possibilità di costruire movimenti di lotta efficaci.

La situazione è caratterizzata, non soltanto in Italia ma in tutta Europa, da un attacco che ha pochi precedenti nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Questo avviene in una situazione in cui è sempre più vero, non soltanto in Italia ma in Europa, che ormai in molti casi è povero anche chi lavora, e non soltanto chi è disoccupato. La precarietà non garantisce ai lavoratori più giovani neppure la possibilità teorica di usufruire un domani di prestazioni pensionistiche decenti, mentre sempre maggiori strati di lavoratori sono rigettati nell’insicurezza dalle crisi industriali e crescono i veri e propri ricatti operati brandendo la minaccia della “delocalizzazione”. Contemporaneamente, le prestazioni sociali sono sottoposte ad un attacco micidiale anche nei Paesi del cui “modello sociale” rappresentavano sino a pochi anni fa il fiore all’occhiello.

È importante avere sempre chiaro questo contesto più complessivo quando si ragiona delle cose italiane. Ma anche tenere conto di alcune specificità della situazione del nostro Paese. Provo a riassumerle:

1) In Italia i margini dei redditi da lavoro da erodere ulteriormente a beneficio dei profitti sono molto più esigui che altrove. Il perché è presto detto:

a. I salari (tanto al lordo quanto al netto delle ritenute sociali) sono già molto più bassi della media degli altri Paesi dell’Europa a 15; dal 1996 al 2004 l’Italia è in assoluto il Paese industrializzato in cui le retribuzioni sono aumentate meno (lo stipendio di un operaio è aumentato dello 0,2%: elaborazione Eurostat su dati Ocse).

b. La situazione al riguardo si è aggravata a motivo dell’inflazione post-euro, che ha eroso in maniera in molti casi intollerabile il potere d’acquisto di salari e stipendi;

c. I salari italiani sono più bassi di quelli europei anche in termini indiretti: ossia perché le inefficienze nel sistema delle prestazioni sociali in essere nel nostro Paese (sanità, scuola, trasporti pubblici, assistenza agli anziani, ecc.) sono tali da richiedere un ricorso massiccio a prestazioni private a pagamento;

d. Quanto sopra vale anche per il pubblico impiego, nel quale siano ben lontani da stipendi europei.

2) Un’altra specificità italiana è rappresentata dalla vergogna fiscale. Secondo stime attendibili la ricchezza che sfugge alla tassazione in Italia sotto forma di evasione è pari al 30% del totale. Si ha così una una violenta redistribuzione del reddito dai salari ai profitti e alle rendite. Il fisco in Italia agisce come un vero e proprio Robin Hood alla rovescia, in aperta violazione della stessa Costituzione.

3) I sovraprofitti determinati da salari bassi ed evasione fiscale alta (in effetti anche l’evasione fiscale potrebbe essere considerata un “aiuto di Stato”, in quanto abbatte i costi di produzione in misura estremamente significativa) non sono stati impiegati dalle nostre imprese in investimenti, in spese per ricerca e sviluppo, innovazione di prodotto, ecc.  [22]. Essi sono stati in generale tesaurizzati dalle famiglie degli imprenditori (la arretrata struttura proprietaria delle imprese italiane è parte non piccola dei problemi economici del nostro Paese), oppure investiti in operazioni finanziarie in Italia o all’estero.

Se quanto precede ha un senso, ne derivano indicazioni piuttosto chiare su quali strade siano oggi praticabili e quali no.

1) Non è praticabile un ulteriore prelievo dal monte salari. Al contrario, si pone con urgenza la necessità quantomeno di avvicinarsi a salari europei.

2) Non è praticabile nessuna riedizione della “concertazione” dei primi anni Novanta (a proposito della quale bisognerebbe che qualcuno ogni tanto ricordasse, en passant, che la Confindustria e i suoi associati non hanno a tutt’oggi neppure adempiuto agli impegni che avevano preso in tale sede...) [23].

3) Sarebbe, invece, praticabile un forte intervento sull’evasione fiscale (prima ancora della introduzione di una patrimoniale), con il quale finanziare tanto l’assistenza (che non deve essere a carico dei contributi pensionistici dei lavoratori dipendenti) quanto investimenti in infrastrutture e in ricerca e sviluppo, quanto - infine - una riduzione del prelievo fiscale a carico dei lavoratori. Un tale intervento sulla fiscalità sarebbe tra l’altro un vero e proprio intervento di modernizzazione del Paese, in quanto ridurrebbe il peso della rendita e darebbe un colpo a quelle grandi e piccole corporazioni che rappresentano uno dei principali freni dell’economia italiana [24].

Si tratta, in altri termini, di rovesciare la tendenza di tutti gli anni Ottanta e Novanta, aumentando la quota di valore prodotto che va ai lavoratori [25]. Si tratta, cioè, di rovesciare la concezione (e la prassi) dei bassi salari come variabile indipendente e fondamentale per la competitività delle imprese. Una concezione e una prassi che - è importante ripeterlo - hanno contribuito in misura determinante a spingere l’economia italiana nel cul de sac in cui attualmente si trova. È l’ora di voltare pagina.


[1] M. Valsania, “Brusca frenata dell’industria Usa”, il Sole 24 ore, 16 luglio 2004; C. Swann, “Number of Americans in poverty up by 1.3 m”, Financial Times, 27 agosto 2004.

[2] M. Faber, “Il bivio senza uscita di Mastro Greenspan”, Borsa & Finanza, 10 luglio 2004.

[3] G. Palladino, “Questo dollaro sfida la legge di gravità”, CorrierEconomia, 19 luglio 2004.

[4] Un’analisi più in dettaglio di questo punto è svolta nel mio “L’Europa che non c’è”, in Proteo, n. 2/2004, pp. 65-70.

[5] D. Abramson, “La sterzata monetaria darà benzina all’euro”, Borsa & Finanza, 17 luglio 2004.

[6] G. Palladino, “Questo dollaro sfida la legge di gravità”, cit.

[7] G. Carli (con P. Peluffo), Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 413.

[8] Assumo
 seguendo Lenin - la categoria di “imperialismo” come categoria principalmente economica, e solo conseguentemente politico-militare. In questo senso è assolutamente appropriato rileggere alla luce della situazione attuale L’imperialismo, fase suprema del capitalismo di Lenin. Per una rilettura in questa chiave vedi V. Giacché, “Imperialismo e capitale finanziario”, l’ernesto, n. 3/2004, pp. 70-78.

[9] “I tagli alla spesa proposti da Kerry fanno acqua, in quanto non toccano molte delle voci più importanti, come difesa, esercito...” (C. Baum, “Bush-Kerry, vince il deficit”, Bloomberg Investimenti, 17 luglio 2004). Questo non significa che non sia comunque salutare mandare a casa la cricca di Bush jr. Sarebbe però sbagliato nutrire l’illusione di un radicale cambiamento della politica Usa.

[10] Vedi in proposito, di R. Martufi e L. Vasapollo, “Povero atipico... tipicamente povero. Confronto tra vecchie e nuove povertà in Europa”, in Proteo, n. 1/2004, pp. 3-19; di L. Vasapollo, “Povera Europa... delle nuove povertà” e “Classe in bilico”, rispettivamente su “La Rinascita della sinistra” del 2 e del 23 luglio 2004.

[11] 11 Un’eccellente analisi in termini marxisti di tale fenomeno è stata offerta da D. Moro, “Contro le delocalizzazioni ci vuole il sindacato UE”, il manifesto, 6 agosto 2004.

[12] Emblematico il sottotitolo di un articolo dedicato dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung alle drastiche riduzioni del costo del lavoro proposte dalla Volkswagen ai sindacati (riduzione di 2 miliardi di euro, su un totale di 4,8, entro il 2011!): “In caso di necessità possiamo costruire le nuove auto da qualche altra parte” (“VW will Arbeitskosten drastisch senken”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 24 agosto 2004).

[13] 13 Su questo aspetto si veda E. Dal Bosco, “La questione salariale”, l’ernesto, n. 3/2004, pp. 55-56.

[14] Un esame più dettagliato del testo finale del progetto di Costituzione è contenuto nel mio “La Costituzione di Sua Maestà”, su questo stesso numero di Proteo.

[15] Per capire il potenziale di assorbimento del mercato cinese basta avere presente che in un anno le importazioni in Cina sono aumentate del 50,5%, più di quanto siano aumentate le esportazioni cinesi (+ 46,5%) (Dati di luglio 2004).

[16] Così H. Wehner di West Am in M. Frojo, “Il made in Germany importa utili”, Bloomberg Investimenti, 17 luglio 2004. Il problema della Germania è semmai il calo della domanda interna e degli investimenti delle imprese in patria, a fronte di un aumento dei loro investimenti all’estero.

[17] Questo aspetto è opportunamente documentato, con dati di estremo interesse, da J. Arriola, L. Vasapollo, “La dolce maschera dell’Europa. Per una critica delle politiche economiche neoliberiste”, Milano, Jaca Book, 2004, pp. 121-126.

[18] “La scialuppa del Titanic. Dalla crisi ai servizi pubblici: il punto d’approdo delle grandi famiglie del capitalismo italiano” Proteo, nn. 2-3/2003; “Il calabrone ha perso le ali. Le piccole e medie imprese nella crisi” Proteo, n. 1/2004, “Il borghese piccolo piccolo. Considerazioni sulla crisi italiana” in la Contraddizione, n. 102, maggio-giugno 2004.

[19] Anche per questo motivo - come ha evidenziato una recente ricerca dell’Istat - le imprese italiane che esportano sono ormai, in misura significativa (che supera il 30% nei settori tecnologicamente di punta), filiali di multinazionali a controllo estero: cfr. F. Sallusti, “L’export ‘tira’, ma non è italiano”, il manifesto, 22 luglio 2004.

[20] 20 Questo in quanto la situazione di monopolio od oligopolio determina un forte “potere di mercato” dell’impresa, che le consente di aumentare i margini di profitto attraverso l’aumento dei prezzi. Di passaggio si può notare che, se è stato empiricamente accertato un nesso tra concorrenza ed efficienza, non esiste una sola prova empirica del nesso tra proprietà privata ed efficienza - a differenza di quanto è divenuto senso comune anche a sinistra nel corso degli anni Novanta: conclusiva in proposito l’analisi di G. Bognetti, Il processo di privatizzazione nell’attuale contesto internazionale, Working Paper del Dipartimento Economia Politica e Aziendale, Università degli Studi di Milano, n. 23, dicembre 2001.

[21] I. Bufacchi, “Effetto domino S&P su 10 mld di bond”, il Sole 24 ore, 16 luglio 2004.

[22] La più recente conferma di questo è offerta dalla citata ricerca Istat sulle imprese a controllo straniero operanti in Italia. I livelli di produttività del lavoro di tali imprese sono quasi doppi rispetto a quelli delle imprese nazionali: a motivo degli elevati investimenti per addetto (doppi rispetto a quelli effettuati da imprese italiane) e per la ricerca (all’incirca 7 volte superiori!): cfr. ancora F. Sallusti, “L’export ‘tira’, ma non è italiano”, il manifesto, 22 luglio 2004.

[23] Tra le condizioni dell’accordo c’era un raddoppio delle spese in ricerca e sviluppo da parte delle imprese: sono dimezzate.

[24] 24 Vale la pena di osservare che il recupero anche solo parziale dell’evasione (quantificata annualmente dalla stessa Agenzia delle Entrate in cifre che si aggirano sui 200 miliardi di euro) consentirebbe un significativo avanzo primario, ossia l’ottemperanza di quei “parametri di Maastricht” - su deficit e debito pubblici - di cui ci si ricorda soltanto quando si tratta di colpire le pensioni o di ridurre le spese sociali. Da questo punto di vista, anche il dibattito pro o contro i parametri di Maastricht è fuori centro: appunto perché quei parametri possono tranquillamente essere rispettati colpendo l’evasione e le rendite (che è come dire che la stabilità monetaria non devono necessariamente pagarla i lavoratori). E in verità il rispetto di quei parametri non è necessariamente una politica di classe, così come non lo è il farli saltare (e infatti tutti i governi di destra europei, a cominciare dal nostro, da un lato attaccano periodicamente il patto di stabilità, dall’altro diminuiscono le tasse sulle imprese...).

[25] Condivisibile in proposito L. Gallino, “Lavoro, profitti e produttività”, la Repubblica, 29 agosto 2004.