Le Tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Terza parte: Fattore capitale e processi di internazionalizzazione produttiva
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1. Lo scontro economico USA-UE e i processi di
internazionalizzazione
Avevamo chiuso la precedente Seconda Parte di questa nostra
analisi-inchiesta ponendo l’attenzione sui processi di internazionalizzazione
attraverso l’analisi degli investimenti diretti esteri (IDE). E’ dall’analisi di
tali processi che vogliamo ripartire nel nostro "viaggio" di inchiesta
politico-economica, evidenziando il peso che va assumendo lo scontro
interimperialistico USA-UE per il dominio economico mondiale ed il controllo sui
processi complessivi di globalizzazione.
1.1. Alcuni parametri macroeconomici internazionali, in
particolare sul fattore capitale
Per inquadrare l’attuale situazione economica internazionale
si può, tra gli altri, guardare al contenuto della “Relazione del Governatore
della Banca d’Italia all’Assemblea generale ordinaria dei partecipanti del
31 maggio 1999”, riferita ai dati del 1998, dalla quale si possono evidenziare
alcuni parametri e alcune dinamiche che hanno caratterizzato l’economia
internazionale nel 1998.
Si nota immediatamente che la crisi finanziaria che nel 1997
aveva interessato solo i paesi dell’Asia Orientale si è allargata all Russia
e ad alcuni paesi dell’America Latina, determinando crisi valutarie e del
debito ed instabilità economica di molte aree, anche a causa del crollo dei
prezzi del petrolio e delle altre materie prime e alla moderata dinamica dei
costi unitari del lavoro, con forti ripercussioni moltiplicative che hanno
causato anche fenomeni di recessione internazionale. Per quanto riguarda l’andamento
del PIL degli ultimi anni si veda le Tab.1 e Tab.2.


E’ interessante notare il differenziale di crescita tra i
vari paesi e le diverse aree a disuguale livello di sviluppo. Si noti che nel
1998 il PIL mondiale è aumentato complessivamente del 2,5% mentre nel 1997 l’incremento
era stato del 4,2%; si consideri che, escludendo la Cina e l’India che
continuano ad avere ritmi di crescita molto sostenuti, i paesi in via di
sviluppo asiatici hanno segnalato un decremento del PIL del 5% mentre nel 1997
si era avuto un aumento del 4%; la Russia proprio a causa della crisi
finanziaria evidenzia una riduzione del prodotto del 5%; l’America Latina,
anche a causa del crollo di prezzi delle materie prime, passa da un incremento
del 5,2% del PIL del 1997 ad un aumento del 2,3%.
La crisi internazionale ha fatto sì che i paesi a
capitalismo avanzato imponessero una accelerazione ai processi di riforma dei
mercati monetari e finanziari internazionali intervenendo anche sulle politiche
monetarie e abbassando a più riprese i tassi di interesse, agendo fortemente in
chiave di assoluto dominio e di controllo economico e politico sui paesi in via
di sviluppo.
Siamo tutti coscienti che i paesi sottosviluppati
"poveri" e soprattutto quelli a medio-basso sviluppo (come ad esempio
quelli dell’area balcanica, dell’est europeo, per non parlare dell’asse
russo-cinese-indiano) in molti casi hanno delle grandi potenzialità economiche
nel loro territorio, sia in termini di risorse materiali sia di capitale umano,
nonostante ci siano delle grandi disuguaglianze economiche e sociali tra paese e
paese. I paesi del Terzo Mondo, per poter sopravvivere sono indebitati in una
maniera incredibile con i paesi sviluppati, i quali così facendo sfruttano le
risorse di queste terre tenendole sotto il loro controllo ed evitando così che
diventino un domani concorrenti pericolosi; ad esempio quello che gli Stati
Uniti hanno fatto al Messico con il NAFTA, oggi viene fatto con la Russia, con i
paesi dell’area balcanica e dell’ex blocco socialista. Le guerre economiche sui
mercati del cambio, gli attacchi speculativi sui mercati finanziari, l’uso delle
crisi geopolitiche di area, e quelle nei Balcani sono sistematiche e
sintomatiche, rappresentano momenti di guerra economica e politica di una
violenta competizione fra poli imperialisti, in particolare fra USA e UE.
Un vero e proprio conflitto economico internazionale di
dominio, che vede tutto muoversi intorno ai parametri della competitività. Ad
esempio, come si può leggere dalle Tab. 3 e Tab.4, mentre l’area
statunitense anglosassone vede in genere peggiorare gli indicatori di
competitività, questi mostrano, invece, buone performance per il Giappone e per
alcuni paesi dell’UE.
I paesi in via di sviluppo, in particolare dell’Africa e
dell’Asia centrale ricca di risorse petrolifere e di gas devono affrontare
questi problemi di dominio, legati ai fattori di competitività dei paesi a
capitalismo avanzato, sotto il ricatto di una guerra economica, e non solo fra
USA e UE, o alcuni paesi interni alle suddette aree. Si tratta di veri conflitti
economico-commerciali scatenati per imporre gravi costrizioni dovute al peso
schiacciante del debito contratto con i paesi ricchi, ai quali si devono pagare
in interessi più di quello che si è ricevuto in prestiti, donazioni,
investimenti; e il pagamento di un debito così cospicuo costringe i paesi del
Terzo Mondo a saccheggiare le foreste, svendere le materie prime, sfruttare
senza controlli le risorse naturali, destinare enormi fette del proprio
territorio all’allevamento degli animali, sottostare ad accordi noeliberalisti
e a privatizzazioni e a standard ambientali minimi tali da attirare gli
investitori stranieri.
In mancanza di una rottura radicale con la struttura della
dipendenza i paesi a medio sviluppo (e in Europa quelli dell’area balcanica e
dell’ex blocco socialista nel sono un esempio eclatante) e del Terzo Mondo si
vedono condizionati a sviluppare la loro industria e la loro produzione agricola
in modo tale che i paesi portatori dei diversi progetti imperialisti ne
beneficino. Hong Kong, Singapore, Taiwan e altri paesi asiatici hanno convertito
i processi di trasformazione; il loro sviluppo è ormai direttamente sottomesso
dalle esigenze del mercato europeo e statunitense. E’ la domanda esterna dei due
grandi poli imperialisti che modella l’ampiezza e l’orientamento del
processo di accumulazione del capitale asiatico funzionale al paradigma
dell’accumulazione flessibile occidentale. L’America Centrale e Meridionale, l’Africa
Sub-Sahariana, il Sud Asia e l’Indocina hanno debole apparato statale e
produttivo, non essendo ancora capaci di dare l’impulso ad un processo di
industrializzazione autonomo e quindi funzionale a veri a propri processi di
colonizzazione da parte dei due poli imperialisti USA e UE. Vi sono in queste
aree anche dei paesi che dagli anni ’70 hanno sperimentato una crescita
economica nell’industria sotto l’azione combinata del capitale straniero e
di quello controllato dalla borghesia interna, dove ha un ruolo dominante il
capitale imperialista che ha cercato di modificare i termini di dipendenza e
dare un nuovo impulso all’industrializzazione per la costruzione di processi
di dominio dipendenti anche dalle importazioni, mantenendo una struttura di
distribuzione dei salari che non deve consentire una crescita verso la
sussistenza. Infine nei paesi esportatori di petrolio con importanti risorse
finanziarie (Arabia Saudita, Venezuela, ecc.) o nei paesi con grande abbondanza
di risorse naturali e con congiunture economiche molto favorite dall’occidente,
il mercato interno si espande in modo significativo, dando un impulso ad una
industria del tutto dipendente dal capitale imperialista (ad es. Colombia, Cile,
Nigeria, Indonesia, ecc.).
La crescita economica di alcuni di questi paesi è dovuta al
processo di accumulazione e di trasformazione tecnologica che ha creato un nuovo
e solido modello di dipendenza finanziaria e tecnologica dai due grandi poli
imperialisti. La riproduzione su vasta scala del moderno apparato industriale,
agroindustriale e agricolo è basato sull’importazione di macchinari,
attrezzature e fabbricazioni. L’alto livello di importazioni inerente a questo
modello di crescita e la mancanza di dinamismo del settore delle esportazioni,
la relazione di scambio diseguale, gli utili rimessi alle imprese straniere sono
alcuni degli elementi che originano nei vari decenni uno squilibrio
macroeconomico e una tendenza continua al deficit della bilancia commerciale,
colmato con sempre più frequenti ricorsi ad un indebitamento con l’estero e
ad uno stimolo dell’impiego di capitali stranieri quale via per ottenere l’equilibrio
della bilancia dei pagamenti. La politica economica determina sempre più scelte
monetariste e neoliberiste, lasciando intatte le cause profonde che originano
gli squilibri della struttura produttiva approfondendo il deficit commerciale.
Seguendo le indicazioni della Banca mondiale e del Fondo Monetario
Internazionale, numerosi governi continuano ad applicare politiche di “congiuntura
strutturale” e di apertura commerciale accelerata, con privatizzazione delle
imprese statali e la deregulation economica, immettendo politiche
antiflazionistiche che hanno come prime ripercussioni l’abbassamento dei
salari reali, l’aumento della disoccupazione, la deindustrializzazione senza
investimenti reali e produttivi finanziati da capitale interno e quindi l’ampliamento
della dipendenza dall’imperialismo. Con l’aumento del debito estero e dell’impiego
di capitale straniero, cresce la profittabilità di questo e la distribuzione
all’estero degli utili, rafforzando il disequilibrio nel settore delle
esportazioni. Il rifinanziamento del debito accumulato provoca l’aumento di
capitale straniero per nuovi acquisti di capitale che aiutino ad arrestare la
decapitalizzazione e che permettano di continuare a finanziare uno sviluppo
comunque dipendente, anche se apparentemente incrementa il settore delle
esportazioni, avendo l’illusione di ottenere un utile duraturo. Ma per
mantenere i livelli di profittabilità si incentiva l’impiego di capitale
straniero e la dipendenza delle attrezzature e strutture, si sfruttano i
lavoratori, si riducono gli investimenti pubblici e si applicano politiche
restrittive; cadendo così in un circolo vizioso di dipendenza finanziaria e
tecnologica che aumenta il debito con l’estero.
Anche per il 1999 le prospettive di sviluppo non possono
certo definirsi buone per i paesi a basso e medio livello di sviluppo, anche
perchè i vari organismi internazionali stimano un rallentamento del PIL
mondiale che dovrebbe segnalare complessivamente una crescita non superiore al
2%, con un risultato inferiore al 2% nell’area dell’Euro (area nella quale
la Germania e l’Italia potrebbero segnare uno sviluppo ancora più incerto) ed
un ulteriore ristagno dell’economia giapponese insieme ad una situazione
fortemente critica per l’America Latina. Pertanto anche per il 1999 la domanda
mondiale dovrebbe essere sostenuta soltanto dagli Stati Uniti, che si ipotizza
raggiungeranno un incremento del PIL superiore al 3%, ma con le stesse logiche
di dominio colonialista ed imperialista che caratterizzano la loro politica
economica, la quale anche per il 1998 ha evidenziato in tal modo una fase
espansiva, che dura ormai da oltre otto anni, raggiungendo un aumento del
prodotto del 3,9% dovuto ad una alta dinamica degli investimenti, in particolare
in attrezzature informatiche e in quel macrosettore che può individuarsi come
area produttiva dell’economia di guerra, ed anche a continui aumenti della
produttività.
Per avere un quadro di confronto fra USA e gli altri dei più
importanti indicatori macroeconomici si vedano le Tabb. 5 e 6, in cui si
possono leggere i diversi ritmi di crescita complessivi dell’economia, ed in
particolare di alcuni elementi del fattore capitale (CLUP, investimenti, ecc.).

E’ proprio ad esempio dall’andamento degli investimenti che
si notano le difficoltà nello sviluppo, come si può vedere nei Graff.1, 2,
3, 4, 5.
