Rubrica
L’analisi-inchiesta

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Luciano Vasapollo
Articoli pubblicati
per Proteo (48)

Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
Articoli pubblicati
per Proteo (36)

Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

Argomenti correlati

Economia

Europa

Globalizzazione

Poli imperialistici

Stati Uniti

Nella stessa rubrica

Le Tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica
Luciano Vasapollo, Rita Martufi

 

Tutti gli articoli della rubrica: analisi-inchiesta(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Le Tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Terza parte: Fattore capitale e processi di internazionalizzazione produttiva

Formato per la stampa
Stampa

E’ interessante anche mostrare, per gli anni ’90, la propensione dei vari paesi all’esportazione (rapporto percentuale tra esportazioni di beni e servizi e PIL a prezzi costanti). Il Graf.24 mostra come l’Unione Europea realizzi valori piuttosto elevati negli anni considerati fino ad arrivare nel 1996 al 33,5%, mentre gli Stati Uniti mantengono una percentuale sempre vicina al 10%.

Anche per il livello di penetrazione delle importazioni l’Unione Europea registra valori elevati. (cfr. Graf.25) che nel 1996 superano il 30%, mentre gli USA per lo stesso anno si attestano intorno al 14%.

3. Ancora sui processi di internazionalizzazione attraverso l’analisi degli investimenti diretti esteri

Come si è già visto nel numero precedente di Proteo, in particolare per l’assetto produttivo USA all’inizio degli anni ’70 il processo di internazionalizzazione ha portato alla nascita anche all’estero, di modelli nazionali di imprese in concorrenza con quelli sviluppatesi negli Stati Uniti. Il cosiddetto “boom reganiano” che ha caratterizzato l’economia del mondo negli anni ottanta, infatti, ha cominciato a mostrare i primi cedimenti dal 1989 ed ha avuto una ulteriore contrazione produttiva nel 1990-91. Anche il Giappone, la cui economia era molto legata a quella statunitense ha risentito della crisi, ed è iniziata una lunga fase di recessione che solo nel 1996 ha cominciato in parte la ripresa. L’Europa, invece, non ha risentito immediatamente della crisi americana, anche grazie alla riunificazione delle due Germanie e la conseguente riunificazione monetaria (la conversione favorevole dei marchi orientali in quelli occidentali fece aumentare la domanda di beni di consumo con effetti favorevoli su tutta l’Europa).

La conferma di ciò si ha anche dalla tendenza crescente della percentuale degli investimenti esteri degli USA (cfr. Graf.26) verso l’UE.

Nel 1992 si ha l’uscita della lira e della sterlina dallo SME; nel 1993 mentre il prodotto interno lordo degli USA saliva rapidamente (nel 1994 ha superato il 4%), in Europa si registrava un’espansione minima. Dal 1994 però si è avuta una ripresa (la crescita del PIL si è avvicinata al 3%) che ha riportato l’Europa al fianco degli Stati Uniti. Alla fine dell’anno 1996 e all’inizio del 1997 inizia la cosiddetta “grande crisi asiatica” che ha avuto gravi ripercussioni economiche in tutto il mondo. Si è trattato di una serie di crisi economico-finanziarie, aziendali, politiche, valutarie e di Borsa che, iniziate nei paesi dell’Estremo Oriente si sono poi diffuse anche negli Stati Uniti, in Francia, in Germania e nel Regno Unito e un po’ in tutta Europa.

Attualmente si consolida la tendenza ad una separazione fra due grandi aree: da un lato gli Stati Uniti e l’Europa occidentale che si caratterizzano per crescite moderate ma abbastanza continue, e dall’altro aree più a rischio quali l’America Latina, l’Europa orientale e i paesi asiatici che registrano tassi di crescita più elevati ma soggetti a perturbazioni critiche molto accentuate.

Interessante , ad esempio, è il ruolo che nei processi europei di internazionalizzazione produttiva ha assunto l’Europa dell’est. Ad esempio, prendendo come riferimento il 1994, anno per il quale i dati sono disponibili a livello disaggregato, distinguendo gli investimenti di tipo equity da quelli non equity ,si nota (vedi Tab.19) il ruolo importante e diffuso di tutti i paesi dell’est europeo che assumono rilevanza strategica nei processi europei di internazionalizzazione. Gli IDE europei infatti, di quest’area aumentano significativamente nel tempo, sia in entrata sia in uscita, in termini di stock e di flussi.

Il 1994 presenta un totale di 4342 milioni di dollari di flussi in uscita e 520 in entrata. Oltre l’84% delle attività è rappresentato dagli investimenti di tipo equity, quindi da acquisizioni azionarie al capitale sociale; gli investimenti di tipo non equity invece hanno più successo in termini di uscita, raggiungendo l’85% del totale. L’interesse da parte dell’Europa per quest’area ha finalità geopolitiche e geoeconomiche per un controllo complessivo su tutti i paesi ricchi di materie prime e di manodopera specializzata e a basso costo. Particolarmente importanti risultano, dall’osservazione dei dati della tabella, i mercati di frontiera e di cerniera della cosiddetta Eurasia, come la Polonia e l’Ungheria, che oltre a posizionarsi tra i migliori investitori, rappresentano delle buone mete per localizzare gli investimenti degli altri paesi dell’Unione Europea.

E’ in questo contesto che si sta verificando, inoltre, un’evoluzione di nuovi sistemi di coinvolgimento estero da parte delle multinazionali ed in genere delle imprese; si intende parlare in particolare degli investimenti esteri diretti a partecipazione maggioritaria ed anche della vendita di licenze e brevetti. Analizzando i flussi di investimenti diretti dall’estero, sembra potersi confermare la teoria che esista una relazione diretta tra costo del lavoro, produttività del lavoro e afflusso di investimenti. Infatti, laddove il costo del lavoro è alto e la produttività del lavoro mostra tassi ridotti, i movimenti di capitale evidenziano valori esigui, mentre nei paesi in cui la produttività del lavoro elevata ed è accompagnata solitamente da costo del lavoro basso, meglio se anche si tratta di lavoro a scarso contenuto di diritti ma a medio-alta specializzazione (vedi i paesi dell’Est Europeo), i rinnovi degli investimenti diretti dall’estero, allora, risultano considerevoli. L’Italia si colloca in una posizione media sia per quanto riguarda la produttività del lavoro sia per gli afflussi di investimenti, a conferma della relazione diretta tra le i due fenomeni. Anche il regime e la pressione fiscale hanno una rilevanza notevole sul movimento degli IDE. Se, infatti, si mette a confronto l’imposizione fiscale media dei diversi paesi con l’afflusso medio degli investimenti diretti esteri nello stesso periodo, si può notare in maniera evidente una relazione inversa tra afflusso di investimenti e pressione fiscale.

Comunque, considerando i movimenti globali in tutte le aree internazionali, si nota che gli investimenti diretti esteri sono sempre cresciuti negli ultimi trenta anni anche se in modo discontinuo (cfr.Graf.27); la continua ascesa ha subito una diminuzione all’inizio degli anni ’90 per poi risalire dal 1993. I flussi di investimenti diretti all’estero hanno raggiunto i 380 miliardi di dollari nel 1997 contro i 19 miliardi di dollari ad inizio degli anni ’70. I flussi di investimento in entrata hanno superato i 250 miliardi di dollari sempre nel 1997, a fronte dei 16 miliardi di dollari a inizio degli anni ’70.

La Tab.20 mostra l’evoluzione da metà degli anni ’80 nell’origine degli investimenti esteri in entrata per alcuni importanti paesi, evidenziando significativi mutamenti nella composizione geografica.

 

E’ interessante mostrare quale sia la composizione settoriale degli investimenti mondiali distinti per investimenti in entrata e investimenti in uscita (cfr. Graff.28, 29) per evidenziare il ruolo sempre più d’attrazione giocato dai comparti del terziario.

Gli investimenti diretti dei paesi industrializzati si è rivolta in larga parte verso nazioni appartenenti alla stessa area (si passa dal 67% negli anni ’70 al 73,6 negli anni ‘90); la posizione degli USA come paese investitore (si passa da circa il 50% a circa il 37%) si è molto ridotta a favore dei paesi europei (che passano dal 29% nel 1970-75 al 38,2% nel 1990-95) e del Giappone (dallo 0,7% al 9,7%). Circa il 40% degli investimenti diretti complessivi sono rappresentate da acquisizioni di tipo industriale mentre sono aumentati molto gli investimenti nel settore dei servizi (nel 1995 rappresentavano circa il 50%).

In particolare per i paesi europei (Cfr.Tab.21) anche nel 1997 si può osservare un forte scambio di flussi di IDE intereuropei.

Anche dall’analisi dei valori in stock (vedi Tab.22) gli attori principali si confermano i Paesi Bassi, il Belgio, Francia , Germania ed il Regno Unito.

Si può in conclusione sostenere che il fenomeno negli ultimi anni ha raggiunto un’ottima dimensione e la sua evoluzione è ancora in espansione anche se gli attori principali sono sempre gli stessi: i Paesi Bassi, il Regno Unito, la Francia e la Germania; la maggior parte dei movimenti è dovuta a gli investimenti di tipo equity (partecipazione azionaria al capitale sociale) seguiti da quelli non equity ed infine troviamo gli utili reinvestiti. Se si analizza da dove provengono e dove sono diretti principalmente gli investimenti diretti europei si nota negli ultimi anni che una quota sempre particolarmente rilevante, sia per gli IDE in entrata sia per quelli in uscita, riguarda gli scambi intereuropei e quelli con gli USA.

L’analisi settoriale sui dati in stock riferiti al 1996, evidenzia, tra i settori più dinamici il manifatturiero, in cui l’Europa investe all’estero circa un terzo del totale europeo di IDE e riceve dall’estero oltre un quarto del totale; il settore dell’agricoltura, invece, risulta quasi assente, evidenziando delle percentuali in termini di attività e di passività sempre bassissime. Negli ultimi anni il settore dei servizi sta assumendo molto importanza nell’ambito dell’internazionalizzazione produttiva; infatti nel 1996, la quota degli investimenti diretti in questo settore raggiunge le percentuali più alte rispetto agli altri settori; tra questi sempre più importanza assumono gli IDE in attività finanziarie.

A causa della crisi che nel 1998 ha colpito i paesi asiatici questi ultimi hanno dovuto effettuare delle correzioni di circa 90 miliardi di dollari degli squilibri dei conti all’estero, ai quali è corrisposto un incremento del disavanzo corrente degli USA di 80 miliardi di dollari e un decremento di quasi 20 miliardi di dollari dell’attivo dei paesi dell’UE, mentre è aumentato ancora l’avanzo del Giappone anche per un forte ribasso della domanda interna. Sempre analizzando la "Relazione del Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea Generale dei Partecipanti" del 31 maggio 1999, si evince che oltre alle precedenti variazioni dei saldi del conto corrente, nel 1998 è fortemente cambiata la composizione geografica dei flussi internazionali dei capitali privati. Da evidenziare infatti il brusco rallentamento dei finanziamenti netti (circa 60 miliardi di dollari nel 1998) indirizzati ai paesi emergenti, mentre l’andamento dei corsi azionari nei mercati finanziari dei paesi a capitalismo avanzato sono stati ovunque in aumento ed i tassi di interesse a lungo termine sono ulteriormente diminuiti rispetto al 1997 attestandosi ad un livello più basso del 4% medio complessivo. La crescita sostenuta dei mercati azionari ed obbligazionari, l’andamento al ribasso dei tassi sul mercato monetario hanno fatto sì che si è potuta liberare una forte liquidità internazionale la quale però è stata indirizzata soltanto verso la crescita dei paesi a capitalismo avanzato creando ulteriori difficoltà ai paesi emergenti ed ai paesi in via di sviluppo in genere.

E’ in questo contesto che si spiega anche, e soprattutto, economicamente la guerra della NATO contro la Jugoslavia, una guerra dal profondo significato geoeconomico e geopolitico come scontro fra i due poli imperialisti USA e UE.

La guerra in Jugoslavia, con le sue premesse e i suoi esiti, attraverso l’affermazione dell’egemonia militare americana segna la fine del sogno della diversità europea rispetto agli USA. L’Europa non può diventare un polo di sviluppo a connotati economici e sociali che si riferiscono al modello renano-nipponico. Lo svolgersi, anche diplomatico, e gli esiti della guerra impongono il modello unico neoliberista, con un capitalismo sempre più accanito, selvaggio e guerrafondaio sia nelle relazioni politiche, economiche verso i paesi più poveri, sia verso quelli a medio livello di sviluppo, sia nelle politiche economiche interne dei diversi paesi europei. Ciò però significa nel contempo l’acutizzarsi dello scontro egemonico fra i due grandi poli imperialisti. Trionfa, almeno momentaneamente, il modello imperialista americano che ora è maggiormente in grado di unificare il tipo di politica imperialista al modello di capitalismo anglosassone, ma ciò non significa certo rottura della politica multipolare imperialista realizzata con atti continui di guerra economica che assumeranno sempre più la forma di guerra guerreggiata per l’affermazione delle gerarchie.

 

Bibliografia

Adnkronos Libri, Il libro delle piccole imprese: chi sono
 cosa fanno - quanto pesano
, Settembre 1995.

M. Arcelli., Globalizzazione dei mercati e orizzonti del capitalismo, Editori Laterza. Bari 1997.

Banca d’Italia, Assemblea Generale Ordinaria dei Partecipanti, tenuta a Roma il 30/05/1998

G. Barbetta, C. Priga, M. Vivarelli, Il fenomeno dei gruppi di impresa N. 6/01/96,

Mediocredito Centrale.

G . Biscarini, Principi e tecniche di internazionalizzazione, Nuova serie: n.1/96

BNL, J.O.P Joint Venture Programme. Phare-Tacis. Paesi dell’Europa centro-orientale e Paesi C.S.I.

Censimento dell’industria del commercio e dell’artigianato 1991, Istat.

L’Italia che produce, SIPI Roma. 1996.

Commercio Internazionale, n.3/97

P. Dicken, P. Lloyd, Nuove prospettive su spazio e localizzazione, FrancoAngeli, Milano, 1993

Eurostat, Euro 1999. Relazione sulla convergenza e raccomandazione per il passaggio alla terza fase dell’Unione Europea, Principi e tecniche di internazionalizzazione.

Golinelli M., Tecnica economica industriale e commerciale,Volume 1. Nis. Roma 1995.

R. Guarini, F. Tassinari, Statistica Economica, Il Mulino, Bologna 1993

Istat., Annuario 1997

Istituto G. Tagliacarne, Rapporto 1997 sull’impresa e le economie locali, Roma 1997.

Kurkdjian V., Produrre all’estero: come internazionalizzare la produzione e gli investimenti , Il Sole 24ore Libri. Milano 1996.

S. Lorusso, G. Usai., Internazionalizzazione dell’industria: implicazioni economiche e tecniche connesse con la realizzazione del mercato interno europeo, Franco Angeli. Milano 1990.

S. Mariotti, R. Caminotti, Italia Multinazionale, FrancoAngeli, Milano, 1996

G. Mattia, Dispense sulle principali tipologie strategiche e sull’adeguamento della strategia nel tempo, Roma 1999.

G. Panati, G. M. Golinelli, Tecnica Economica Industriale e Commerciale, Volume I. Nis. Roma 1995

L. Petix. Aspetti tipici di analisi strategica di competizione globale e di finanza internazionale, CEDAM. Torino 1994.

Progetto impresa, Luglio- Settembre 1996. N.3.

C. Saccani I supporti alle imprese di fronte al cambiamento, Impresa & Stato N.31 Rivista della camera di commercio milanese

A. Sanna, Economia e programmazione, Tramontana. Milano 1989.