Dopo l’analisi-inchiesta sulla modificazione della geografia
dello sviluppo in Italia (n.0 di Proteo), quella sulle privatizzazioni in Italia
e in Europa (n.1 e 2/98 di Proteo) e quella sulla legge della rappresentanza
sindacale (n.1 e 2/98 di Proteo), la nostra rivista si “tuffa” in una nuova,
difficile prova. In questo numero di Proteo e nei primi due numeri del 1999
affronteremo un’analisi-inchiesta a carattere macroeconomico per valutare, attraverso
alcuni importanti parametri, come si è andato strutturando il processo di accumulazione
capitalistica dagli anni ‘70 ai nostri giorni.
La crisi economica che stiamo vivendo è iniziata nel 1968 con
la rimessa in causa del Welfare State in occidente; con il 1971, prima della
crisi petrolifera, la soppressione della convertibilità del dollaro, e conseguentemente
con il rovesciamento di una forma di egemonia americana; con il 1975 e il progetto
di un nuovo ordine economico internazionale che i paesi non allineati hanno
presentato, e che è stato respinto dai paesi occidentali, aprendo in seguito
la crisi del debito del Sud; con l’ingenuo progetto gorbacioviano di perestroika
e con la disgregazione, che va dal 1989 al 1991, dell’Europa del Est e lo sfaldamento
dell’URSS. Già nel 1970 la crescita economica e di espansione dei mercati era
notevolmente rallentata e dal 1980 tutto il mondo è entrato in un periodo di
stagnazione.
Dal 1980 ad oggi i maggiori paesi capitalistici si sono preoccupati
esclusivamente di gestire la crisi nei due terzi del globo inventando nuovi
sbocchi finanziari.
Per evitare la svalutazione del capitale si sono adoperate
un insieme di misure come per esempio sul cambio, sui tassi di interesse, le
privatizzazioni, la deregulation. La gestione della crisi, fino ad ora usata,
ha degli elementi di debolezza: da un lato accentua la dicotomia del sistema
Ovest nuovo Est; dall’altro produce effetti sociali all’interno dell’occidente
a capitalismo avanzato che rimettono in discussione gli stessi assetti politici
innanzitutto. Finanziariamente porta al predominio di un ciclo di accumulazione
accresciuto senza passare attraverso alcun intermediario produttivo: non c’è
trasformazione del capitale in mezzi di produzione, in produzione effettiva
e in realizzazione del surplus da investimento produttivo. Localmente la finanziarizzazione
si unisce ad un aggravio enorme della disuguaglianza nella distribuzione interna
del profitto, con conseguenza di un arretramento delle stesse forme politiche
ed economiche che erano tipiche delle democrazie in occidente.
Oggi il capitale reclama sempre maggiori profitti con la scusa
dell’accresciuta competitività internazionale e della globalizzazione. Il pensiero
unico neoliberista trasmette nell’intera società la sua cultura di darwinismo
economico e sociale, in nome del mercato e degli esclusivi interessi d’impresa.
L’attuale situazione economica è caratterizzata da una globalizzazione dell’economia
e da una concorrenza molto forte e dura, che è in primo luogo una concorrenza
dove ognuno intende aumentare la produttività riducendo però i costi. Oggi sono
gli aspetti finanziari a prevalere a tutto il sistema. A essere nel mirino ora
sono i salari, i contributi sociali, il sistema sociale nel suo insieme; da
parte del capitale viene disdetto lo Stato Sociale come compromesso di classe;
prevale una politica neoliberista, cioè una politica di puro mercato. Le esigenze
del capitale privato vengono in primo luogo rispettate e la crescita del profitto
dell’impresa privata sta al centro delle attività politiche ed economiche. Lo
Stato, nelle sue diverse forme e articolazioni, si è fatto Profit State tentando
di abbattere anche quelle conquiste minime in termini di “Welfare” ottenute
attraverso dure lotte del movimento operaio e dei movimenti sociali che si sono
sviluppati in particolare negli anni ‘60 e ‘70.
Nello stesso tempo la percezione soggettiva della crisi dello
Stato Sociale, nei gruppi che a vario titolo ne sono investiti, determina drammatici
fenomeni di rottura della fiducia nei confronti dei ceti politici dello stesso
Stato, un profondo scollamento rispetto alle istituzioni. Da un lato, la paura
di perdere quei piccoli privilegi che alcuni gruppi sociali intermedi avevano
ormai maturato pensando di appartenere a settori garantiti e attività comunque
incluse sotto la protezione dello stato sociale. La privatizzazione del pubblico
impiego, dei sevizi pubblici, la stessa aziendalizzazione di funzioni tipiche
dello Stato Sociale, come l’istruzione, la sanità, ecc. stanno ovunque generando
fenomeni di desocializzazione e di unità, almeno ideale, tra ceti ex intermedi
e la massa di coloro nei quali opera l’esclusione definitiva dal circuito lavorativo
occupazionale e vedono precario il loro futuro.
La crisi dello Stato Sociale rappresenta la crisi generale
della forma politica e statale attraverso cui l’occidente capitalizzato ha sviluppato
un certo rapporto tra momento produttivo e momento sociale. La crescente internazionalizzazione
prima dei flussi finanziari e poi l’ampliarsi del processo di deindustrializzazione
dei paesi occidentali ha fatto sì che le condizioni economiche e le politiche
economiche a livello del singolo paese abbiano oggi scarsa influenza nell’incidere
su meccanismi di accumulazione sempre più globali. Da questo punto di vista
il processo di internazionalizzazione dell’economia mondiale si fonda su una
divisione del lavoro che vede i paesi occidentali detenere in modo sempre più
concentrato il potere finanziario e tecnologico ed il controllo dei flussi commerciali
e i paesi interagenti del terzo mondo oggetto della semplice trasformazione
delle merci.
E’ così più semplice globalizzare anche la cultura del “disastro
mondiale” se non si accettano le ricette del neoliberismo; la cultura del mercato
selvaggio diventa quella della “salvezza dell’umanità” poiché sembra sempre
di essere in procinto di un crollo dell’economia internazionale che riporterebbe
anche i paesi occidentali a livelli di assoluta povertà. Con questo messaggio
si innesca il terrorismo sociale funzionale ai piani di ristrutturazione del
capitale e alla ridefinizione per nuove aree di influenza, messaggio fatto proprio
anche dai governi di centro-sinistra, da alcuni ex leader di quel che resta
ed in forma degenere del socialismo riformista, i quali hanno assunto il capitalismo
come utlima possibilità di governo dell’umanità, in modo, come lucidamente suggerisce
Milan Kundera, DA POTER RICEVERE UN PÒ D’AVVENIRE IN CAMBIO DEL LORO PASSATO.
Altro che crisi economica! Crisi si, ma tutta sulle spalle
dei lavoratori, della gente comune, però con incrementi dell’accumulazione complessiva
di capitale mai visti prima! Va ricordato immediatamente che negli ultimi venti
anni l’incremento medio della produttività del lavoro (2%) è il risultato di
una crescente sostituzione del lavoro con il capitale. Questa situazione aggrava
ancora di più il problema della disoccupazione anche perché questa sostituzione
tra lavoro e capitale dovuto all’innovazione tecnologica, all’aumento dei ritmi
di sfruttamento dei lavoratori, non ha realizzato un aumento dei salari reali
ma un notevole e consistente aumento dei profitti reali, poiché non si sono
verificate neppure diminuzioni di orario di lavoro a parità di salario, né incrementi
occupazionali, né aumenti di spesa per la protezione sociale. Le disuguaglianze
di reddito e di condizioni di vita nei diversi paesi, anche quelli a capitalismo
avanzato, si sono accentuate a causa di sempre più spietate forme di accumulazione
capitalistica da parte dei detentori di potere finanziario e monetario. La vera
globalizzazione degli anni ‘90 è stata quella delle operazioni monetarie e finanziarie
non certo quella degli scambi di beni e libera circolazione delle persone!
La finanziarizzazione dell’economia, realizzata anche attraverso
investimenti finanziari resi possibili grazie al surplus di profitti derivati
dalla mancata distribuzione al fattore lavoro degli incrementi di produttività
e destinati solo in piccola parte agli investimenti produttivi, la liberalizzazione
degli scambi e i vantaggi della libera circolazione delle merci, hanno assicurato
ai grandi gruppi industriali oltre che una maggiore scelta nella diversificazione
della tecnologia e degli impianti, incrementando i processi di accumulazione
del capitale, anche una differenziazione dell’offerta e della clientela.
L’integrazione tra i paesi dell’Unione Europea ha permesso
alle grandi imprese di trovare manodopera a basso prezzo all’interno del mercato
europeo anche senza dover eccessivamente delocalizzare fuori dall’Europa le
loro produzioni. Le differenze esistenti a tutt’oggi tra i vari paesi in merito
alle prestazioni sociali (assistenza alle famiglie, le diverse forme di reddito
minimo, garantito solo per i livelli assoluti di povertà) ci fanno comprendere
ancora più chiaramente che l’Europa monetaria e gli obiettivi del trattato di
Maastricht raggiunti con enormi difficoltà, rinvii ed ostacoli vari, non hanno
tenuto in alcun conto gli aspetti sociali ed occupazionali.
Se dal punto di vista economico, monetario e finanziario è
possibile raggiungere una certa apparente corrispondenza economico-finanziaria
tra i vari paesi (anche se a nostro avviso con enormi difficoltà e inasprendo
ulteriormente l’attacco alle condizioni di vita dei lavoratori) altra cosa è
arrivare ad una omogeneità sugli aspetti sociali che richiedono adeguamenti
e cambiamenti reali in ciascun paese; obiettivi non realizzati perché i paesi
membri , ed in particolare l’Italia, hanno dovuto trascurare ed affossare problemi
fondamentali come quello dell’occupazione e di un coerente piano di sviluppo
proprio per arrivare a raggiungere i parametri imposti dall’U.E.
Il prezzo da pagare per “entrare” nell’Europa dei finanzieri
è stato comunque troppo alto! Aumento dei ritmi di lavoro, tagli ai salari reali,
disoccupazione, lavoro precario, sottopagato, senza diritti, tagli allo stato
sociale, aumento della povertà, emarginazione, peggioramento delle condizioni
di vita, è il prezzo pagato e ancora da pagare per l’Unione Europea.
L’analisi-inchiesta che inizia con questo numero vuole evidenziare,
a partire da una ricerca macroeconomica su dati ufficiali (Eurostat, ISTAT,
OCSE, Banca Mondiale, ecc.) quello che sta succedendo nei nuovi assetti dei
paesi a capitalismo avanzato, proponendo, in particolare, dei confronti soprattutto
fra situazione italiana e quella degli altri paesi europei, con alcuni riferimenti
a quella del Giappone e degli Stati Uniti. Nelle tre più importanti aree del
capitalismo (quella del dollaro, quella dello yen e la nascente area dell’EURO)
verranno analizzati i dati relativi ai fattori del capitale (produttività, investimenti,
ammortamenti, tassi di accumulazione, confronti ricavi e profitti) e quelli
più direttamente legati al fattore lavoro (occupazione, disoccupazione, orari
di lavoro, andamenti salariali, spese sociali più direttamente legate alle politiche
del lavoro), fino a cercare di leggere attraverso i dati i processi di internazionalizzazione,
concentrazione e delocalizzazione produttiva.
Il lavoro che ci aspetta non è semplice, ma d’altra parte come
suggerisce Seneca a Lucilio “A VOLTE NON E’ PERCHE’ LE COSE SIANO DIFFICILI
CHE NON SI OSA, MA E’ PERCHE’ NON SI OSA CHE ESSE DIVENTANO DIFFICILI”.
1a PARTE. ANALISI STATISTICO-ECONOMICA SULL’ANDAMENTO DEI PARAMETRI RELATIVI AL FATTORE LAVORO
1. Tendenze macroeconomiche degli anni ‘70 ,’80 e ‘90 nell’area europea,
statunitense e giapponese
Complessivamente nei paesi della Comunità Europea la riduzione,
rispetto agli anni ‘60, del tasso di crescita per le singole economie nazionali
unita all’accelerazione delle tendenze inflazionistiche, che già dai primi anni
‘70 hanno caratterizzato tutte le economie industrializzate, hanno avuto come
principale conseguenza uno squilibrio a livello dell’offerta e l’avvio di un
processo di stagnazione e inflazione (stagflazione) che si è accompagnato a
una grave situazione monetaria mondiale.
I due shock petroliferi degli anni 1973-74 e 1979-80 hanno
ulteriormente aggravato la situazione provocando, già dal 1973, la fluttuazione
dei cambi dei paesi europei (con esclusione del mercato legato al marco tedesco).
Va rilevato che pur essendo in questi anni ancora abbastanza elevato il tasso
di crescita del PIL (circa il 4% l’anno), l’aumento dell’occupazione non ha
seguito questa tendenza (circa lo 0,3% l’anno) e il tasso di disoccupazione
si è attestato intorno al 2,5%. Dal 1974 in poi, inoltre, il tasso di crescita
è sceso al 2% circa l’anno.
Considerando il PIL per abitante, come si vede dal Graf.1,
l’Italia, negli anni ‘70, è sempre all’ultimo posto nell’ambito dei più importanti
paesi europei. [1]

Prendendo come riferimento la media del PIL per abitante dei
paesi comunitari l’Italia risulta essere sempre al di sotto, mentre, sempre
per gli anni ‘70, sopra la media europea spiccano la Francia, la Germania, il
Lussemburgo.
Negli anni ‘80 complessivamente nei paesi della Comunità Europea
il tasso di disoccupazione è molto cresciuto arrivando nel 1985 a circa l’11%;
gli squilibri della bilancia dei pagamenti provocati dai problemi dell’economia
americana (il dollaro risultava essere molto sopravvalutato in confronto con
le altre monete) hanno fatto sì che gli USA tenessero sempre molto elevati i
tassi di interesse e ricorressero ai mercati internazionali dei capitali. Il
livello dell’inflazione ha raggiunto nel 1989 livelli molto elevati provocando
una politica monetaria molto restrittiva che ha avuto inevitabili conseguenze
negative sulla crescita e sugli investimenti rendendo ancora più marcata la
fase di recessione.
[1] “Il Prodotto Interno Lordo ai prezzi di mercato (PILpm) rappresenta
il risultato finale dell’attività di produzione delle unità produttrici residenti.
Corrisponde al valore aggiunto lordo dell’economia (produzione totale di beni
e servizi, meno i consumi intermedi) calcolato ai prezzi di mercato, più l’IVA
sulla produzione e le imposte nette sulle importazioni (imposte sulle importazioni
al netto dei contributi alle importazioni) . Il PIL è anche calcolato a prezzi
costanti per neutralizzare gli aumenti o le diminuzioni provocati dall’incremento
o dalla riduzione dei prezzi ed è inoltre convertito dalle monete nazionali
nell’unità monetaria europea(ECU) e in standard di potere di acquisto (SPA)
al fine di confrontare il prodotto interno lordo dei diversi paesi. La crescita
economica reale (in termini di volume) è misurata come l’incremento del prodotto
interno lordo a prezzi costanti“. Cfr. Eurostat.