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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Le tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica
Luciano Vasapollo, Rita Martufi

 

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Le tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

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La situazione descritta ha avuto come conseguenza una riduzione delle prestazioni salariali in molti paesi europei ed un aumento del tasso di disoccupazione.

Considerando congiuntamente l’andamento della crescita dell’economia e dell’occupazione si nota (Graf.2) che nel periodo 1970-1992 la minore differenza si ha negli USA, rispetto all’Europa e al Giappone, ma va considerato che molta della crescita occupazionale statunitense si è realizzata attraverso un’alta flessibilità e precarizzazione del lavoro.

Dal 1982 (escludendo gli anni 1990-1992) il trend dei salari unitari (comprensivi dei contributi sociali) si è mantenuto in linea con la caduta dell’inflazione; l’aumento dei salari reali è stato di oltre l’1% inferiore alla crescita globale della produttività del lavoro, comportando un aumento della produttività distribuita al fattore capitale (profitti).

Nei paesi europei il differenziale salariale è molto alto in Irlanda, Spagna, Francia, Lussemburgo, Austria e Regno Unito, mentre è molto minore in Italia, Belgio, Germania, Olanda, Finlandia e Svezia; in particolare le minori disuguaglianze fra i salari più bassi si hanno in Belgio ed in Germania. L’inferiore disparità salariale ai livelli più bassi di retribuzione di questi ultimi paesi possono essere in parte spiegati dall’omogeneità della loro struttura economica, con modelli di sviluppo in parte più avanzati e coordinati, oltre che da ragioni sociali e storiche legate anche al modello di capitalismo, apparentemente più sociale, che si richiama alla tipologia renano-nipponica. Tale modello infatti si contrappone al capitalismo selvaggio di tipo anglosassone che comprime maggiormente le modalità redistribuite al fattore lavoro. Infatti, ad esempio, è opportuno ricordare che negli anni ‘70 e ‘80 negli USA i salari dei lavoratori maschi hanno subito un calo di circa il 30%; questo significa che il grado di dispersione dei salari è stato il prezzo per aumentare l’occupazione, ma si è trattato prevalentemente con alto livello di atipicità, flessibilità del lavoro e salariale, quindi ad alto connotato di precarizzazione. Tale modello statunitense, ha inoltre implicato una diminuzione ancora più marcata delle prestazioni e dei benefici sociali (pensioni, sanità, assistenza, ecc.).

Nel periodo considerato la crescita allarmante della pressione inflazionistica, causata da una espansione della domanda troppo rapida in rapporto alla capacità produttiva, le politiche economiche alterate, che hanno portato ad un sovraccarico di politiche monetarie con la crescita dei tassi di interesse che ha generato un evidente rallentamento nella creazione dei posti di lavoro e nella crescita economica, ed ancora le profonde crisi monetarie con i disordini conseguenti, hanno determinato un particolare impatto negativo sulla crescita economica di tutti i paesi della Comunità Europea.

L’andamento negli anni ‘80 del PIL per abitante nell’ambito dei maggiori paesi europei (vedi Graf.3) si appiattisce intorno alla media europea, con l’anomalia al rialzo del Lussemburgo. Considerando l’andamento della crescita economica e dell’occupazione si nota (Graf.4) che per il periodo 1970-1992 per i paesi europei la forbice si allarga in maniera impressiona

nte.

Il quadro macroeconomico degli anni ‘90 per il complesso dei paesi della Comunità Europea si è caratterizzato oltre che per la crescita molto debole dei tassi del PIL (nel 1993 è diventato negativo) anche per una deflazione sempre crescente, accompagnata da una congiuntura mondiale molto instabile con continui movimenti monetari e finanziari. La tendenza è quella di una insoddisfacente crescita, che ha anche colpito i livelli occupazionali per tutta la prima metà degli anni ‘90.

Il risultato generale macroeconomico mondiale degli anni ‘90 è stato contemporaneamente caratterizzato da tassi di crescita molto deboli del Pil, compresi i paesi come il Giappone che hanno svolto una funzione trainante nei confronti del resto dell’economia mondiale. Una deflazione crescente; una congiuntura mondiale estremamente instabile, inframmezzata da sussulti monetari e finanziari. La crescita della disoccupazione di massa, raddoppiata da un allineamento dei salari, dalla flessibilità del lavoro e dalle condizioni sempre più precarie del lavoro. L’accentuarsi dell’ineguaglianza tra aree geografico-economiche e delle diseguaglianze di reddito e di condizioni di vita all’interno di ognuno dei paesi capitalizzati singolarmente considerato; la marginalizzazione di intere regioni del globo dal sistema di scambi e una concorrenza internazionale sempre più intensa, generatrice di seri conflitti commerciali tra le grandi potenze (Usa, Giappone, Unione europea).

Questi elementi devono essere interpretati come l’avvisaglia della maturità di un grande regime di accumulazione mondiale nuovo, il funzionamento del quale è sottomesso alle priorità del capitale privato e finanziario altamente concentrato.

Durante gli anni 1990-96 la crescita media del PIL nella Comunità è stata solo dell’1,5%, questo risultato è molto più basso del tasso medio di crescita del 3,3% realizzato nella seconda metà degli anni ‘80, ed è inoltre inferiore del tasso medio di sviluppo del 2% registrato durante gli anni1974-85.

La bassa crescita ha colpito fortemente l’andamento dell’occupazione, infatti si sono persi oltre la metà dei 10 milioni di posti di lavoro creati durante il periodo di crescita 1986-90.

Dopo un periodo di espansione avutosi dalla fine del 1993 al primo trimestre del 1995, si è avuto un brusco rallentamento caratterizzato da una recessione particolarmente acuta nei paesi le cui monete sono aumentate di valore durante il turbinio monetario dei primi mesi del 1995. Nei paesi comunitari in generale, l’aumento della formazione di capitale (gli investimenti) si è bloccato e il livello delle esportazioni si è ridotto, sia dentro sia al di fuori dell’Europa. [1]

Lo sviluppo dell’economia americana, la flessione registrata in alcuni paesi emergenti dell’Asia e dell’America Latina, il ristagno di quella giapponese hanno condizionato la crescita e il progresso dell’intera economia mondiale.

In Giappone infatti si è registrata nel 1997 una forte riduzione dei consumi e degli investimenti causando una diminuzione del tasso di crescita dell’economia che è arrivata ad appena lo 0,9%; anche il 1998 ha confermato questa tendenza (il PIL è stato nel primo trimestre dell’1,3%).

Anche gli Stati Uniti pur ottenendo una crescita media del 3,8% hanno registrato livelli minimi di occupazione; lo stesso dicasi per i paesi dell’Unione Europea, i quali hanno registrato un incremento di prodotto del 2,7% accompagnato però da un alto livello di disoccupazione. La liberalizzazione degli scambi insieme alla deregolamentazione e allo smantellamento della legislazione a tutela dei salari, ha permesso ai gruppi delle multinazionali di sfruttare simultaneamente i vantaggi della libera circolazione delle merci e delle forti disparità tra i paesi, le regioni o i luoghi situati all’interno della stesso mercato unico europeo. Il grande mercato continentale assicura contemporaneamente ai gruppi economico-finanziari delle multinazionali una totale libertà di scelta dei differenti elementi costitutivi di una produzione integrata a livello internazionale, rispondendo anche alle esigenze delle strategie di differenziazione dell’offerta e della fedeltà della clientela, esigenze che sono proprie alla concorrenza oligopolistica.

Se si considerano la Tab.1 e il Graf.5 si ha un immediato confronto fra l’andamento del PIL per il periodo 1988-1994 dei più importanti paesi europei e il dato complessivo dell’Europa dei 15.

 

E’ importante notare nel Graf.6 l’andamento del PIL per abitante tra il 1990 e il 1995, che evidenzia come unica grande anomalia, fortemente al rialzo rispetto al dato medio europeo, quella del Lussemburgo.

E’ in questo quadro macroeconomico che viene impressa una brusca accelerazione al processo di unificazione europea, tutto incentrato su intensi processi di finanziarizzazione dell’economia, senza alcun riferimento alle dinamiche politiche e alla salvaguardia delle istanze sociali.

 

 

2. Il quadro macroeconomico dell’Europa di Maastricht

 

L’ingresso del nostro Paese nell’Unione Europea può essere considerato un momento politico ed economico tra i più difficili ed importanti che hanno caratterizzato la storia italiana, ma lo stesso vale per gli altri paesi europei, di questi ultimi anni. I molteplici ed infiniti “sacrifici” che i cittadini europei, e in particolare la popolazione economicamente più debole, hanno dovuto sopportare in nome dell’Europa di Maastricht hanno acutizzato e non certo risolto i già pesanti problemi economici e sociali che hanno contraddistinto questa fine del millennio.

L’architettura di Maastricht è costituita su tre pilastri: moneta unica, politica estera e di sicurezza comune, lotta alla criminalità. Originariamente i tre pilastri dovevano crescere insieme. Moneta unica e integrazione politica dovevano reggersi reciprocamente. A causa del divergere degli interessi nazionali nel dopo ottantanove, si è preferito affidare alla moneta il compito di anticipare e stimolare l’unità politica. Risulta sempre più evidente che il Trattato di Maastricht e un trattato geopolitco soprattutto per quanto riguarda la Germania nel contesto Unione Europea.

L’Europa, infatti, dà via libera alla Germania per la riunificazione in tempi rapidi, ottenendo come contropartita l’europeizzazione del marco.

L’esigenza di stabilizzare il livello di inflazione, i tassi di interesse, i tassi di cambio, il rapporto fra debito pubblico e PIL e quello fra deficit rispetto al PIL, hanno imposto in questi ultimi anni adeguamenti delle politiche economiche di ogni paese membro con il risultato che sono state adottate misure di tagli alla spesa pubblica, riforme fiscali e tagli occupazionali di enorme portata con ripercussioni sugli strati più deboli e disagiati della popolazione.

 

Per raggiungere gli obiettivi iniziali dell’Unione Europea è fissato che in ogni paese il debito pubblico non deve superare il 60% del PIL, il deficit pubblico non deve essere superiore al 3% del PIL, l’inflazione non deve essere maggiore di oltre l’1,5% dell’inflazione media dei tre paesi con tasso di inflazione più basso ed, infine, i tassi di interesse a lungo termine non devono superare il 2% della media dei tassi a lunga scadenza dei tre paesi con inflazione più bassa (cfr. Schema 1).

Dai dati emerge chiaramente come la maggior parte dei Paesi (l’Italia in particolar modo) si siano trovati a dover adeguare ai parametri comunitari situazioni economiche interne di grande diversità nella rincorsa alla germanizzazione dell’Europa, mascherata da una auspicata europeizzazione della superpotenza tedesca: ma attualmente la Germania non è una superpotenza. L’ex RDT si è rivelata un fardello più che una risorsa per i cittadini tedeschi. La Germania unita è emersa più grande per popolazione e territorio della vecchia Repubblica Federale, ma più debole in termini di equilibri politici, struttura economica, capacità di governare se stessa e di esercitare una paziente influenza sui suoi vicini. L’economia della Repubblica Federale è cresciuta di neppure il 7%, i suoi abitanti del 25%; la sua area geografica del 40%; il suo tasso di disoccupazione del 60%. C’è da tener presente che gli obiettivi originari della Germania rispetto a quelli di Francia e Italia erano opposti. A Francia e Italia interessava togliere il marco ai tedeschi, mentre ai tedeschi interessava germanizzare le politiche economiche e finanziarie dei partner, adeguarle ai criteri di stabilità su cui hanno costruito il “miracolo” del secondo dopoguerra. Inoltre, attraverso una calibrata manovra dei tassi di interesse gestita dalla Bundesbank, intendevano garantirsi un forte flusso di capitali europei verso la Germania, necessari a riempire la voragine dell’ex RDT.

E’ lampante quanto imponenti siano state le politiche di adattamento per raggiungere i traguardi necessari per l’accesso all’Unione Monetaria (si veda anche il Graf.7) e si noti il livello dei molto alti tassi di disoccupazione dell’Europa rispetto agli USA e al Giappone.

A questo punto sorgono spontanee delle domande: in che modo si pensa di raggiungere, attuare e mantenere nel tempo gli obiettivi del Trattato? L’elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita si possono raggiungere con l’attuazione di un modello economico che ha aggravato notevolmente i già gravi scompensi sociali esistenti? Ed ancora: quale scuola di pensiero e quale modello prevarrà? Quello del neoliberismo selvaggio, che sostiene di ridurre al minimo le normative sociali che sono di ostacolo alla libera concorrenza o quel liberismo temperato neokeynesiano impostato su un modello di società basato su di uno Welfare State che considera ancora le spese sociali necessarie e fondamentali per non minacciare la pace sociale?

“L’obiettivo di raggiungere una posizione finanziaria governativa stabile nel lungo periodo è stato fissato dalla Comunità a partire dal 1993.....Gli Stati membri hanno il compito di fare ulteriori passi, negli anni successivi al 1997, per assicurare un continuo miglioramento nelle loro posizioni di bilancio, per raggiungere l’obiettivo di portarsi vicini alla stabilità, in brevi tempi, e addirittura ad un surplus in circostanze normali”, [2] ( si vedano nel Graf.8 i parametri macroeconomici fondamentali per il 1998).

I criteri di convergenza dell’Unione monetaria, scritti nel trattato di Maastricht , hanno come obiettivo principale la stabilità monetaria e sono frutto di una politica monetarista. Quest’ultima ha come suo obiettivo centrale il tasso di inflazione e quindi la riduzione dei deficit pubblici dei diversi paesi. Una tale politica significa disoccupazione di massa e smantellamento dello stato sociale. Un unione monetaria senza una convergenza sui contenuti della politica economica monetaria senza che converga sui contenuti della politica economica non serve, e i criteri di tale convergenza non devono essere solo criteri monetari; quello che occorre è invece una politica che affronti attivamente i problemi occupazionali e sociali.

Da quanto detto fino ad ora è evidente che dalla firma del Trattato di Maastricht la disoccupazione è aumentata, la crescita economica ristagna, lo Stato Sociale è ovunque in crisi. Il tenore di vita è diminuito, la leggittimizzazione degli Stati, a cominciare dall’Italia è messa in questione senza che si intraveda l’alba dell’unità politica europea. Sulla scena internazionale, l’Unione Europea non esiste.

Il risanamento dei bilanci pubblico non può prescindere certamente da parametri socialmente accettabili, ma così nella realtà non è, ed è quello che cercheremo di verificare e quantificare nel seguito di questa analisi-inchiesta.


[1] Cfr. “The composition of unemployment form an economic perspective”, European Economy, n. 59, 1995.

[2] 5 Cfr.”Growth, employment.-intensive growth”, European Economy, n.62, 1996