Gli anni ’80 sono stati di un’importanza enorme, un punto
di svolta, non solo per la classe lavoratrice mondiale ma per tutta l’umanità.
Essi hanno visto
- la fine dell’Unione Sovietica che, comunque la si
voglia analizzare, è stata un fattore limitante dell’espansione del
capitalismo privato selvaggio;
- l’introduzione di nuove tecnologie, come il computer e
la bio-tecnologia, che, anche se la loro influenza sul sistema economico
capitalista è ben minore di quanto si voglia far credere, ha avuto una grande
influenza sul modo di vivere e persino di concepire la vita delle popolazioni
dei paesi a capitalismo avanzato, cioè imperialisti;
- la cosiddetta ‘globalizzazione’, che altro non è che
una nuova fase dell’imperialismo in cui l’espansione sfrenata del
capitalismo privato si sposa al dominio incontrastato degli USA sul resto del
mondo, anche se tale dominio è maggiore nel campo militare che in quello
economico;
- l’adozione di una dottrina economica, il
neo-liberalismo, a giustificazione di ciò, anche se la razionalità di tale
approccio non ha nulla da invidiare a quella che si basa sull’oroscopo;
- l’emergere di scontri economici tra i paesi occidentali
e il mondo musulmano, scontri camuffati da scontri religiosi se non
addirittura di civiltà;
- e, infine, d’importanza speciale per quest’articolo,
il declino dello Stato Keynesiano.
Le vittime di tali sviluppi sono state non solo la classe
lavoratrice ma anche tutte le classi subalterne. Si noti che per classe
lavoratrice o operaia s’intende coloro che partecipano al
processo capitalista di produzione, distribuzione, e scambio senza essere gli
agenti del capitale. Questi ultimi sono coloro che eseguono il lavoro di
controllo e sorveglianza, o quella che Marx chiama nel terzo volume del Capitale
la funzione del capitale, e che quindi non partecipano alla trasformazione di
valori d’uso (si veda Carchedi, 1977, 1983, 1987, 1991). Le classi
subalterne comprendono tutti coloro che dipendono, sia direttamente che
indirettamente, dal sistema capitalista per la loro sopravvivenza e riproduzione
da una posizione di subalternità. Esse comprendono non solo la classe
lavoratrice ma anche quegli agenti del capitale che non hanno un potere
decisionale riguardante le scelte strategiche per la riproduzione del sistema
stesso. [1]
La domanda che si sviluppa nelle seguenti pagine è: perché
tale declino? La risposta a tale quesito richiede che s’indaghi, anche se
brevemente, sulle origini dello Stato Keynesiano. [2]
Lo Stato Keynesiano affonda le sue radici nel cosiddetto ‘welfare
state’, o Stato del benessere. Il termine ‘stato del benessere’ è
chiaramente apologetico, se non addirittura propagandistico. Tuttavia esso
indica un tipo di Stato che, in confronto ad altre forme, pone una maggiore
enfasi sulle politiche ridistributive e sulle riforme sociali a favore delle
classi subalterne. Il fine, che sia apertamente riconosciuto o no, è quello
di scongiurare o mitigare il conflitto di classe.
È necessario sfatare subito un mito. Secondo una credenza
comune, le politiche ridistributive e le riforme sociali sarebbero pagate sia
dal capitale che dal lavoro. Tuttavia, studi empirici sulla ridistribuzione del
reddito dimostrano che nello Stato del benessere la quota del PIL che va al
lavoro è più o meno la stessa, il che dimostra che è il lavoro che finanzia
tali politiche economiche. Ma, in termini della teoria del valore lavoro, non è
questo il punto essenziale. Secondo tale teoria, è la classe lavoratrice (più
precisamente, i suoi lavoratori produttivi), e solo questa classe, che
produce valore. Quindi, anche se la quota che va al lavoro dovesse aumentare,
non vi sarebbe una ridistribuzione di ricchezza prodotta da altre classi
a questa classe ma una maggiore restituzione a tale classe del valore precedentemente
prodotto da essa stessa e ad essa sottratto. [3] In ultima istanza, quindi, il punto è
quanto del valore sottratto alla classe lavoratrice viene ad essa restituito.
Per lo stato del benessere l’ammontare di tale restituzione è maggiore di
quello di altre forme di stato.
Lo Stato del benessere risale alla fine del diciannovesimo
secolo. Lo sviluppo del capitalismo aveva spossessato le masse dai loro mezzi di
produzione e le aveva rese dipendenti dal salario. Le condizioni d’abietta
povertà della prima rivoluzione industriale avevano creato la necessità di
riforme che in qualche modo supplissero alla mancanza di quei vincoli familiari
che avevano contraddistinto le società pre-capitaliste. La crescita della forza
della classe operaia e la disponibilità di plusvalore da essere distribuito,
derivante non solo dalle condizioni di grande sfruttamento ma anche dalle
relazioni imperialiste, avevano finito per imporre in tutte le nazioni
industrializzate, anche se con tempi e modalità diverse, una serie di riforme.
Esse, specialmente all’inizio, coprivano solo molto limitatamente i bisogni
delle classi subalterne e le proteggevano solo molto limitatamente dalle
condizioni inumane di lavoro. Più tardi, dati i mutamenti del processo
lavorativo, che si basava sempre di più su una forza lavoro sempre più
istruita, allora nuovi bisogni, e quindi nuove riforme, emersero, quali i
sistemi scolastici, ospedalieri e assistenziali di vario genere. Ciò non abolì
il conflitto tra capitale e lavoro, ma ne mutò la forma.
Di grande importanza in tale conflitto fu l’emergere dei
sindacati e dei partiti politici della classe lavoratrice. Essi fornirono la
struttura per una resistenza organizzata al predominio del capitale e furono
occasionalmente gli strumenti per un attacco frontale a tale predominio.
Tuttavia, il più delle volte essi furono trasformati in strumenti di
collaborazione, in cambio di un minimo accesso al potere statale e di fondi per
il finanziamento delle riforme sociali. Dal canto loro, il capitale,
specialmente il grande capitale, e lo Stato erano disposti a fare tali
concessioni perché le vedevano come valvole di sicurezza per la diminuzione
delle tensioni sociali potenzialmente distruttive del sistema capitalista.
Lo Stato del benessere ha, come fenomeno corrispondente sul
piano politico, la social-democrazia, cioè il riformismo. Essa dava voce a
quegli strati sociali, sia all’interno della classe operaia che non, i cui
interessi, anche se non necessariamente gli stessi di quelli del capitale, erano
legati alla riproduzione e al successo del sistema capitalista nei paesi
imperialisti. Questi strati avevano incominciato ad affiorare, dalla fine
del secolo diciannovesimo in poi, a causa dei mutamenti nel processo lavorativo
derivanti sia dalla introduzione di nuove tecnologie sia dalla
necessità, derivante da tali tecnologie, da parte del capitale di controllare
un processo lavorativo sempre più complesso. Tra questi mutamento si possono
menzionare i ciclici processi di qualificazione/dequalificazione delle mansioni;
i ciclici processi di incremento/restrizione della sfera produttiva in relazione
a quella commerciale, distributiva e speculativa; e soprattutto i ciclici
processi di formazione/riduzione di tutta una struttura di mansioni che esegue
la funzione di controllo e di sorveglianza dei lavoratori (che va dai top
manager ai capetti di reparto) piuttosto che partecipare al processo di
trasformazione dei beni sia materiali che immateriali. Coloro che hanno queste
mansioni non possono quindi essere compresi nella classe lavoratrice (vedesi la
definizione più sopra).
Tali trasformazioni avevano prodotto profondi cambiamenti
nella classe operaia in termini della sua frammentazione, segmentazione, e
mobilità sociale. Nuove stratificazioni, sia salariali che in termini della
gerarchia aziendale, avevano introdotto una varietà d’interessi immediati,
alcuni dei quali, a causa dei privilegi che rappresentavano, coincidevano con un
interesse per la riproduzione del sistema capitalista. Allo stesso tempo, l’appropriazione
di valore internazionale attraverso lo sviluppo dell’imperialismo rendeva più
facile la cosciente frammentazione della classe operaia attraverso una gerarchia
di ‘alti’ salari nei paesi imperialisti relativamente a quelli del Terzo
Mondo. La social-democrazia nasceva così e si sviluppava come la forma politica
e ideologica di (1) sezioni della classe operaia dei paesi imperialisti i cui
interessi non erano più antitetici e quelli del capitale a causa dei loro
privilegi, in verità il più delle volte limitati, e (2) sezioni delle altre
classi subalterne, sempre dei paesi imperialisti.Tali sezioni formavano la base
delle nascenti classi medie. A causa dei loro interessi oggettivi esse erano
quindi intrinsecamente incapaci di diventare una forza radicalmente alternativa
al capitalismo.
Tuttavia, esse potevano dar voce, anche se in maniera
deformata, troncata, e privata delle sue aspirazioni di cambiamento radicale,
alle rivendicazioni della classe operaia nella misura in cui le organizzazioni
radicalmente e realmente alternative erano carenti o assenti. Quando ciò si
avverava, e ciò vale ancor più oggigiorno, la social-democrazia era vista come
l’organizzazione di tutta la classe operaia e poteva fissare il programma
della sinistra nel suo insieme. Ma lo faceva (fa) non da un punto di vista di
classe, cioè non concependo la società come divisa prima di tutto in classi
definite in termini di relazioni di produzione. Piuttosto, la nozione di
società sottostante la teoria e pratica della social-democrazia era strutturata
attorno alle differenze di reddito e di occupazione, cioè puramente in termini
distributivi sia di reddito che di potere. Il suo scopo era, ed è, quello di
ridurre tali differenze il più possibile, compatibilmente con le esigenze del
capitale, al fine di continuare a rappresentare le classi subalaterne. In
mancanza di credibili alternative al sistema capitalista, una ideologia basata
su tali miglioramenti può essere diffusa nella sinistra nel suo insieme. E
quando la social-democrazia stessa diventa debole perché ha accettato le
dottrina (neo)liberale (diventando così praticamente indistinguibile dai
partiti più apertamente conservatori), fette consistenti della classe
lavoratrice possono passare a partiti e movimenti decisamente di destra. Questa
è la situazione attuale in Europa.
È importante sottolineare che le riforme
social-democratiche, anche se sono il risultato delle lotte delle organizzazioni
riformiste contro organizzazioni più apertamente conservatrici, sono rese
possibili da precedenti lotte anti-capitaliste. In altre parole, tali riforme
derivano dalla trasformazione, da parte delle organizzazioni (partiti o Stati)
riformiste o talvolta da parte di organizzazioni più apertamente conservatrici,
delle domande radicali - avanzate delle organizzazioni e movimenti alternativi -
in misure compatibili con la riproduzione del sistema. Ogni stagione riformista
è preceduta da periodi, più o meno lunghi, di aspre e radicali lotte popolari.
Ciò vale anche per il modello social-democratico per antonomasia, quello
svedese. Per molti decenni, e fino a non molti anni fa, la Svezia aveva il minor
tasso di povertà e una dei maggiori tassi di eguaglianza nel mondo, per merito
dei successivi governi social-democratici. Ma quando la social-democrazia
svedese venne al potere, nel 1932, nel mezzo della grande depressione, essa
aveva alle spalle decenni di lotte della classe lavoratrice svedese che era una
delle più combattive al mondo. Basti ricordare gli scioperi generali del 1902,
del 1909, del 1919, e del 1928. La combattività non diminuì durante la
depressione, quando i tassi di sciopero furono molto alti e gli scioperi molto
lunghi. Fu solo nel 1938 che i sindacati, con un accordo con gli imprenditori,
divennero chiaramente gli agenti del capitale dopo aver segnato un accordo con
cui essi si impegnavano a impedire che scoppiassero altri scioperi, in cambio di
aumenti salariali automatici legati all’aumento della produttività. Ma
torniamo allo stato Keynesiano.
Il capitalismo portò con sé non solo il costante scontro
tra capitale e lavoro ma anche il ciclo economico e il periodico peggioramento
delle condizioni di vita e di lavoro di tutte le classi subalterne. Date certe
condizioni politiche e di coscienza di classe, periodi di crisi possono portare
ad un accresciuto livello dello scontro di classe. Per questo, il sistema,
attraverso i suoi economisti, è alla ricerca, tanto costante quanto futile, di
un ‘rimedio’ alle crisi. È in questo contesto che emerge lo Stato
Keynesiano, dal nome dell’economista inglese Keynes. Negli anni 1930, lo Stato
del benessere assume una forma modificata: mentre l’enfasi sulla
ridistribuzione e sulle riforme rimane, un’altra dimensione viene aggiunta,
quella delle opere pubbliche come un tentativo di regolamentazione del sistema e
del ciclo economico capitalista. Lo Stato si appropria del valore prodotto dalla
classe lavoratrice e lo usa per commissionare o per fare esso stesso opere
pubbliche che creino sia occupazione che produzione. Questo è il Keynesismo di
pace. Ma vi è anche un Keynesismo di guerra che è basato principalmente sulla
produzione d’armi. Mentre i due tipi di Keynesismo coesistono sempre, la
questione è quale delle due forme è prominente.
Quindi, lo Stato Keynesiano, nell’accezione di quest’articolo,
è una forma più ampia e più storicamente specifica dello stato del benessere.
Alla dimensione redistributiva e riformista, tipica dello Stato del benessere,
lo Stato Keynesiano aggiunge la dimensione dello stimolo della produzione, dell’impiego,
e della crescita del PIL, tramite lo Stato, ma non necessariamente da parte
dello Stato.
Lo stato Keynesiano, e quindi del benessere, ha conosciuto la
sua maggior espansione dopo la Seconda Guerra Mondiale, cioè dopo una parentesi
in cui si passò dal Keynesismo di guerra a quello di pace. Questa grande
espansione fu dovuta alla concomitanza di tre fattori.
- Primo, la distruzione delle economie europee, ma non di
quella statunitense, richiedeva la loro ricostruzione attraverso un massiccio
programma di aiuti da parte degli Stati Uniti e attraverso la ricostruzione
delle infrastrutture e delle economie europee. Ciò richiedeva un massiccio
ruolo organizzativo dello Stato.
- Secondo, le idee socialiste e comuniste erano diventate
le aspirazioni di larghi strati popolari, in seguito sia all’emergere dell’Unione
Sovietica e del suo ruolo fondamentale nel fermare l’aggressione nazista, sia
all’orrore generalizzato per quanto i ‘campioni’ dell’anti-comunismo
erano stati capaci di fare prima e durante la guerra. La ricostruzione imponeva
quindi alti livelli d’occupazione e crescenti livelli di vita e quindi tutta
una serie di riforme per poter dimostrare la ‘superiorità’ del capitalismo
vis-à-vis il comunismo (o quello che si credeva essere tale).
- Terzo, la previa distruzione di valore tramite la
guerra era stata immane. La ricostruzione, e quindi la ripresa della produzione
di valore sulla stessa scala, doveva essere quindi di dimensioni tanto grandi
quanto era stata la sua distruzione. Ma il valore e plus-valore deve essere non
solo prodotto ma anche realizzato, cioè le merci che incorporano tale valore
devono essere vendute. Da una parte, la realizzazione di tale valore era
praticamente assicurata (1) dalla domanda interna (resa possibile da alti
livelli di occupazione e dai crescenti livelli salariali e di profitti), (2)
dalla domanda da parte europea e degli altri paesi avanzati dei beni e servizi
necessari alla ricostruzione e che solo gli USA potevano provvedere, e (3) dalla
decolonizzazione del Terzo Mondo che richiedeva beni e servizi e provvedeva mano
d’opera a buon mercato. Queste grandi quantità di plusvalore prodotto e
realizzato rendevano quindi possibile l’appropriazione da parte dello stato di
una quantità sufficiente di plusvalore per finanziare sia attività
ridistributive e riforme che politiche Keynesiane. Dall’altra, la crisi
derivante dalla ridotta produzione e realizzazione di valore poteva essere
anticipata e posposta a causa della guerra fredda e dalla distruzione di valore
insista nella produzione delle armi. Infatti, nel sistema capitalista, il valore
che non può essere realizzato può essere distrutto, eliminando cosi
temporaneamente e parzialmente la crisi di realizzazione che conduce poi alla
crisi di produzione. Il rinvio della crisi attraverso la Guerra Fredda (la
distruzione del valore eccedente) rese possibile il prolungamento del periodo di
crescita economica e quindi del periodo delle riforme e della social-democrazia.
[1] Queste definizioni sono ovviamente solo in termini economici.
[2] Per un approfondimento di
alcuni dei temi trattati più sotto, il lettore può consultare Teeple, 1995.
[3] A parte le apologie, le
discussioni più serie su questo punto si focalizzano su se le tasse pagate
dalla classe lavoratrice siano più o meno del valore dei servizi sociali
ricevuti da essa, cioè se vi sia un trasferimento netto dai lavoratori allo
Stato o viceversa. Ma siccome lo Stato ridistribuisce valore (nella forma di
servizi sociali) precedentemente prodotto solo dalla classe lavoratrice, un
trasferimento netto dallo Stato al lavoro significa solo che, a conto fatti,
meno valore è sottratto a tale classe.