Verso la metà degli anni 1970, con l’emergere del lungo
ciclo di stagnazione e di crisi mondiale che sta ancora perdurando, le basi
economiche dello Stato Keynesiano (grandi e crescenti masse di plusvalore)
incominciano ad incrinarsi. Allo stesso tempo, le nuove tecnologie vengono usate
non solo per aumentare la produttività (con conseguente perdita di occupazione)
ma anche per dequalificare mansioni precedentemente qualificate (la
proletarizzazione di tecnici, impiegati, ecc.). Ciò contribuisce a provocare
inizialmente grandi stagioni di lotte operaie che, tuttavia, si spengono quando,
dalla metà degli anni 1970 e poi ancora di più negli anni 1980, le condizioni
economiche mutano (vedi sotto), i grandi movimenti sociali si esauriscono, e la
resistenza della classe operaia viene prima incrinata e poi frantumata. A questo
punto, lo Stato Keynesiano incomincia la sua lunga marcia discendente, il
Keynesismo cade in disgrazia, e i partiti social-democratici o si sgretolano o
diventano praticamente indistinguibili dai partiti più apertamente conservatori
e neo-liberali. La scelta tra la ‘destra’ e la ‘sinistra’ (esclusione
fatta per partiti di sinistra minori, sopravvissuti alle sconfitte degli anni
’70 e ’80 e per i nuovi movimenti sociali) più che una scelta di campo
diventa una scelta di immagine. I risultati per la classe lavoratrice
internazionale sono catastrofici. La disuguaglianza economica, tra i paesi
dominanti e quelli dominati, all’interno di ciascuno di questi due blocchi, e
all’interno di ciascun paese dei due blocchi, cresce a livelli mai visti nella
storia dell’umanità; la tendenza verso l’inquinamento, in parte scaricato
dai paesi imperialisti su quelli dominati, si approfondisce; i salari e gli
stipendi sono presi d’assalto mentre gli incrementi dei profitti non si
traducono in investimenti produttivi: al contrario masse enormi di denaro si
riversano sulle piazze finanziarie e in attività speculative o addirittura
criminali. E lo Stato, verso la fine del secolo precedente e l’inizio di
quello attuale, con quello statunitense in testa, lascia il Keynesismo di pace
per buttarsi nel Keynesismo di guerra. La social-democrazia sembra essere
moribonda, incapace di opporre anche una minima resistenza alla marcia
devastatrice del capitale. Ma questa marcia non è senza ostacoli. Alle forze di
sinistra che hanno tenuto e continuano a tenere contro il dominio del capitale,
si sono aggiunti nuovi movimenti, contro-movimenti, e lotte di varia natura,
anche se le difficoltà che essi incontrano sono enormi sia a causa del potere
del nemico che a causa della loro intrinseca debolezza.
Per coloro che rimpiangono lo Stato Keynesiano e che,
giustamente, si oppongono al neo-liberismo e al dominio sfrenato del capitale
privato, è opportuno segnalare che lo Stato Keynesiano è possibile solo quando
sono presenti certe condizioni sociali e economiche (vedi sopra). Esso non fu il
risultato di un compromesso tra capitale e lavoro nel loro insieme attraverso l’intervento
statale. Esso fu il risultato di un compromesso tra il capitale e quelle sezioni
della classe operaia e delle classi subalterne dei paesi imperialisti che si
lasciarono cooptare e che furono cooptate nel sistema. Esse, nel perseguire i
loro interessi immediati e miopi, non si resero conto che i vantaggi derivanti
da tale cooptazione (vantaggi in termini di reddito, ecc.) sarebbero stati ben
minori degli svantaggi che sarebbero sopraggiunti quando le condizioni per il
mantenimento di tale compromesso sarebbero venute a mancare (la crisi). Esse non
si resero neanche conto che la dimensione nazionale dello Stato Keynesiano
nascondeva (per chi non voleva vederla) la dimensione internazionale del suo
finanziamento, cioè la stretta relazione tra lo Stato Keynesiano nei paesi
imperialisti e il flusso di valore dai paesi dominati che era un elemento molto
importante per mantenerlo. La cooptazione di frazioni delle classi subalterne
nei paesi imperialisti richiedeva quindi la loro negazione della solidarietà
internazionale.
Infine, non si resero conto che, come si vedrà in un
prossimo articolo, è lo Stato Keynesiano stesso che getta le basi per le crisi
susseguenti e quindi per il suo stesso declino. Per anticipare, lo Stato
Keynesiano può posporre le crisi attraverso degli investimenti (politiche
anti-congiunturali) che conducono ad un temporaneo aumento dell’occupazione,
del reddito, del PIL e quindi della domanda. Tuttavia, l’investimento statale
del valore appropriato e necessario per tali politiche diminuisce il
valore prodotto. La crisi quindi si nasconde dietro agli investimenti Keynesiani
ed è alimentata da essi, anche se la crisi emerge solo dopo un certo periodo di
tempo. Ma tali politiche sono possibili solo in una lunga fase di crescita
economica quando (1) a causa dell’alta produttività, la diminuzione dei
salari in termini di valore non incide sul livello salariale in termini di
valore d’uso (la percezione empirica del livello salariale) e (2) dati gli
alti tassi di profitto, la loro diminuzione non conduce (inizialmente) a serie
difficoltà economiche e bancarotte. Quindi lo Stato Keynesiano è
oggettivamente possibile solo in una lungo ciclo ascendente. Esso non libera i
lavoratori né dal rapporto col capitale né dal mercato. Al contrario, esso è
esplicitamente teorizzato come una condizione per il mantenimento delle
relazioni di produzione, e quindi di realizzazione e di consumo, capitaliste.
I miglioramenti delle condizioni di vita e di lavoro della
classe lavoratrice, prodotti dalle politiche Keynesiane, anche se temporanei e
limitati, sono legittimi obiettivi della lotta di questa classe. Ma essa
dovrebbe essere sempre cosciente della natura di classe di tali riforme, e cioè
(1) che esse sono possibili solo se le condizioni oggettive sopra menzionate
sono presenti, (2) che esse vengono finanziate dalla classe lavoratrice
stessa [1], e
(3) che esse non possono evitare la crisi, i cui costi saranno pagati dalla
classe lavoratrice stessa attraverso un aumento del tasso di sfruttamento (tagli
di bilancio per servizi sociali, flessibilità, riduzioni salariali, aumenti del
ritmo di lavoro, ecc.).
Non sono le riforme e le politiche anticongiunturali che
dovrebbero essere rifiutate ma l’analisi (che non è quella basata sulla
produzione di valore e plus-valore) e la prospettiva (che è quella
social-democratica, riformista) entro cui tali politiche e riforme sono
inquadrate. Solo così si può superare la contraddizione insita nelle
riforme capitaliste, cioè quella di essere un miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice e delle classi
subalterne in genere (anche se di natura temporanea) e di essere allo stesso
tempo un fattore della riproduzione del sistema capitalista. Se non si
percepisce questa contraddizione si cade in uno dei suoi due opposti poli e si
vede o solo la funzione riproduttrice del sistema o solo il miglioramento delle
condizioni delle classi subalterne, aprendo così la via all’illusione che di
riforma in riforma (tutte riforme all’interno dell’ottica capitalista) si
possa raggiungere ad un certo punto un sistema sociale alternativo.
Si fa un gran parlare oggigiorno della natura della fase di
sviluppo in cui ci si trova. Si parla di un cambiamento da un sistema
imperialista a uno incentrato sulla globalizzazione, o dall’imperialismo
cosiddetto classico all’Impero negriano, da un modo di produzione basato su
processi semi-automatizati ad uno basato sulla cosiddetta terza rivoluzione
scientifica e tecnologica, da un capitalismo marcato dalle contraddizioni di
classe ad un capitalismo in cui tali contraddizioni sono sparite, e di altre
simili sciocchezze. In verità mentre il capitalismo rimane quello che è e che
è sempre stato, vi è un importante mutamento, cioè ciò che è cambiato è
la forma delle contraddizioni di classe. Più precisamente:
1) da un punto vista nazionale sono mutate le condizioni che
avevano reso possibile il compromesso di classe di marca Keynesiana nei paesi
imperialisti; la crisi economica subentrata nella metà degli anni 1970, ha
eroso le possibilità di finanziamento di tale compromesso; e
2) dal punto di vista internazionale si è passati da un
sistema bipolare ad un imperialismo basato su blocchi sia presenti che emergenti
ed in cui gli USA hanno un predominio mondiale, anche se tale predominio è
ancora pressoché assoluto solo nella sfera militare. Il che spiega il ricorso
alla guerra da parte degli USA come metodo anticiclico.
Ma la distruzione di valore contenuto in beni per uso civile
(infrastrutture, ecc.) e la loro susseguente ricostruzione, e quindi la
produzione e realizzazione di valore, devono avvenire su una scala gigantesca,
se devono sollevare un’economia delle dimensioni dei quella statunitense dal
pantano economico. Per di più, anche la distruzione di valore implicita nella
produzione di armi deve essere di grande scala.
Queste condizioni non sono attualmente presenti.
La ricostruzione dell’ Iraq, tanto per fare un esempio, è
come la puntura di un moscerino sul corpo elefantesco dell’economia USA e la
produzione di armi negli USA (che ne producono di più di tutti gli altri paesi
messi assieme) è del 5% del loro PIL, ben inferiore al 13% degli anni 1950. Di
qui l’enorme pericolo reale di una grande esplosione su scala mondiale di cui
la guerra permanente, o infinita, di Bush è solo una pallida ante-prima.
Bibliografia
Carchedi, G. (1977), On The Economic Identification Of
Social Classes, Routledge and Kegan Paul, London
Carchedi, G. (1983), Problems In Class Analysis.
Production, Knowledge And The Function Of Capital, Routledge and Kegan
Paul, London
Carchedi, G. (1987), Class Analysis And Social Research,
Basil Blackwell, Oxford
Carchedi, G. (1991), Frontiers of Political Economy,
Verso, London, 1991
Teeple, G. (1995), Globalization and the Decline of
Social Reform, Humanity Press, New Jersey.
[1] In Svezia, per esempio, dal 1965 al 1975 metà delle case furono
ricostruite. Ma i fondi vennero dai fondi pensione dei lavoratori, piuttosto che
da quelli dei capitalisti. Oppure, l’alta tassazione necessaria per finanziare
lo Stato del benessere si applicava in effetti solo alla classe lavoratrice,
mentre le tasse sui profitti aziendali erano tra le più basse del mondo.