Spartizione del valore aggiunto e precarizzazione dell’occupazione
Nicola Galloni
Una riduzione della quantità di lavoro per unità di
prodotto comporta un aumento di prodotto per unità di lavoro; come dire che
aumenta il valore del lavoro sociale e, se non aumenta anche il suo costo/prezzo
in proporzione, si determina lo squilibrio che, prima, produce
più profitti e dopo meno investimenti, meno domanda effettiva, meno
occupazione. Di quanto la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto
non si riflette in un aumento proporzionale di costo/prezzo assoluto del lavoro,
di tanto si sono poste le basi dello squilibrio.
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1. Qualche riflessione generale
A partire dall’estate del 1998 è cresciuta notevolmente,
nel mondo, la consapevolezza dei limiti dell’attuale forma del capitalismo
internazionale, fortemente condizionata dal liberismo riapparso prepotentemente
sulla scena circa 20 anni fa.
A questo inizio di superamento del modello liberistico - che,
finora, ha prodotto un chiaro spostamento a sinistra dell’opinione pubblica,
ma ancora ben poco di concreto - hanno contribuito diversi fenomeni: la crisi
delle economie dei paesi dell’estremo oriente, una crisi molto grave di cui
non si vedono reali miglioramenti e che deve ancora scaricare sul resto del
pianeta il grosso delle sue potenzialità negative; l’aumento della povertà
non solo nei paesi economicamente arretrati, ma anche nei paesi
industrializzati, con il ripresentarsi sulla scena sociale, di milioni di
lavoratori in evidenti condizioni di indigenza; l’incapacità di affrontare
seriamente il problema della disoccupazione oltre logiche meramente
redistributive dei posti e dei tempi di lavoro o assistenzialistiche; il
continuo peggioramento delle condizioni sociali ed economiche di molti paesi ex
comunisti - e soprattutto della Russia - che ha dimostrato come il capitalismo
selvaggio produca solo caos, aumento della criminalità, impossibilità di
governare l’efficienza dei mercati.
Tutto ciò non si sarebbe realizzato o avrebbe prodotto
effetti meno drammatici sugli equilibri sociali ed occupazionali, se la politica
non si fosse limitata, da oltre venti anni a questa parte, al mero compito di
intuire le tendenze più probabili per assecondarle. A partire dalla seconda
metà degli anni ’70, infatti, la politica ha cominciato ad abbandonare l’impegno
per il miglioramento delle condizioni di vita delle persone e per la liberazione
degli uomini (l’espressione “uomini” comprende indifferentemente maschi e
femmine).
Una versione simile di tale abbandono di impegno è stata
quella della critica e della denuncia delle conseguenze delle scelte
liberistiche accettandone, però, i presupposti pratici: così, la crisi del
petrolio non poneva il problema di una più equa divisione internazionale del
lavoro o di un risparmio (ad esempio nel settore automobilistico o dei trasporti
in genere o del riscaldamento delle abitazioni) delle quantità di energia per
unità di risultato, ma della priorità accordata alla lotta contro l’inflazione
anche a scapito di tutto il resto; la consapevolezza dell’urgenza di
interventi disinquinanti non promuoveva politiche industriali e fiscali
finalizzate a rendere compatibile l’adeguamento dei livelli dei consumi per i
paesi più poveri con il rispetto dei limiti ambientali, ma scelte di freno
dello sviluppo operate sia sul versante monetario, sia su quello reale; il
superamento delle rigidità organizzative e contrattuali della forza lavoro non
portava a soluzioni di maggiore partecipazione dei lavoratori stessi alla
gestione delle imprese, ma ad un brutale e repentino “dietrofront” delle
relazioni industriali che, come si cercherà di approfondire meglio, ha
massimizzato la flessibilità del lavoro dipendente riducendo non solo la quota
del valore aggiunto di quest’ultimo rispetto al profitto, ma anche il trend
del valore aggiunto complessivo e, quindi, l’efficienza del sistema; lo
strapotere della speculazione finanziaria internazionale, invece di suggerire
accordi tra i paesi oltre le consuete (ma al momento opportuno insufficienti)
operazioni valutarie delle banche centrali, ha stimolato un senso generalizzato
di superamento della dimensione nazionale che col suo indebolimento ha finito
per far crescere il peso e l’importanza dei gruppi economici e finanziari
organizzati a livello sovranazionale; la ridotta efficacia della politica
economica keynesiana e i freni della spesa pubblica non hanno spinto ad una
ricerca di qualificazione del Bilancio dello Stato che salvaguardasse gli
investimenti produttivi e necessari, ma hanno favorito una continua erosione
delle basi del Welfare State, delle istituzioni e della stessa amministrazione.
Da quando la “nasometria” dei politici ha fatto il suo
ingresso sulla scena europea ed americana tutti i fenomeni precedentemente
citati (mancanza di politiche industriali efficaci, inquinamento, disoccupazione
e scarsa occupazione, squilibrio a favore dei profitti nella spartizione del
valore aggiunto e riduzione del suo trend) hanno acquisito forza invece di
trovare ostacoli.
E’ arduo dimostrare che si sarebbe veramente potuto fare in
modo diverso - specie partendo dalle condizioni isolate di un singolo paese - ma
non c’è dubbio che le poche voci fuori dal coro sono state soppresse e che i
meccanismi di formazione della classe dirigente si sono sempre più volti alla
cooptazione da parte di chi già occupava posizioni di potere. In questo modo, a
poco più di venti anni dalla uccisione di Aldo Moro che era portatore di un
progetto alternativo, è facile dubitare se questa classe dirigente sia in grado
di apprezzare i cambiamenti che è necessario intraprendere per affrontare il
tema della soluzione dei problemi aggravatisi nel tempo in modo così
drammaticamente evidente.
Studiando anni di programmi per l’occupazione e per il
Mezzogiorno, si finisce per avere la sensazione di non capire se si stia
parlando dell’Italia, dell’Europa o di una qualche altra entità aliena e
lontana: flessibilizzazione, incentivi alle imprese, rottamazioni, lavorazioni
socialmente utili per stimolare il lavoro nero da parte degli enti locali. Per
contro non si parla: 1) di banche e di politica del credito una volta che si sia
stabilita la ritirata dello Stato e, comunque, la limitatezza delle sue risorse
(gli unici prestiti sono quelli cosiddetti d’onore di cui sarebbe superfluo il
tentativo di trattazione in questa sede); 2) di vere e proprie politiche per l’agricoltura;
3) delle industrie che necessitano di ricerca scientifica applicata e di forza
lavoro qualificata; 4) di adattamento delle aree industriali alle
caratteristiche e alla tipologia delle imprese che dovrebbero esservi ospitate;
5) ma soprattutto delle strategie di sostituzione delle importazioni,
soprattutto attraverso le applicazioni delle biotecnologie, che consentirebbero
di ridurre quel vincolo allo sviluppo che blocca la crescita del Paese da circa
un quarto di secolo (infatti, senza interventi, quando il Pil italiano cresce
adeguatamente, le importazioni crescono molto di più, mentre l’andamento
delle esportazioni risente soprattutto della congiuntura internazionale).
Non si parla di come stabilizzare e qualificare il lavoro che
viene domandato dalle imprese in condizioni tali di precarietà da ostacolarne,
in mancanza di adeguati interventi, la continuità della sua utilizzazione! Non
si parla dei percorsi professionali per i giovani che potrebbero scontare salari
di ingresso, ma a patto di programmare, nei limiti delle cose possibili, un
cammino che porti verso un lavoro vero, altamente produttivo, privo di ansie,
capace di generare un reddito adeguato alle esigenze di una vita dignitosa e
nella media del continente europeo. Tutto ciò ha a che vedere col vessato tema
della formazione professionale.
Come è stato affermato più volte, la formazione
professionale, in Italia, sembra maggiormente predisposta a rispondere alle
esigenze dei formatori che non a quelle delle imprese e degli attuali od
aspiranti lavoratori.
E’ più facile e meno costoso, infatti, organizzare e
sostenere un corso generico (lingue, computer e via dicendo) che non istituirlo
per formare quegli addetti a mestieri dei quali c’è (o si ritiene
ragionevolmente che ci sarà) una domanda superiore o diversa rispetto all’offerta.
Quest’ultimo tipo di formazione che sarebbe esagerato
definire “vera” (perché anche l’altra risulta utile), potrebbe essere
chiamata “occupazionale” o “specifica” per distinguerla, appunto, da
quella professionale, più generale o, a seconda dei casi, generica.
Entrambe rappresentano anelli di congiunzione tra la scuola
(o l’università) e il mondo del lavoro propriamente inteso; la formazione
scolastica ed universitaria non possono risultare immediatamente
preparatorie rispetto al lavoro propriamente inteso, in quanto una tale ipotesi
impoverirebbe il patrimonio culturale (potenziale) dei futuri lavoratori, a
tutti i livelli. La “culturizzazione” della forza lavoro del futuro è l’arma
strategica, dal lato dell’offerta, per ottenere di non perdere posizioni nelle
attività ad alto valore aggiunto. Ciò vale per l’Europa, per il nostro
paese, per classi di individui, per le singole persone. Ma senza un
coordinamento con quanto sta avvenendo e potrà avvenire dal lato della domanda,
la “culturizzazione” rischia di rimanere al mero livello del potenziale
senza potersi anche realizzare in termini di occupazione soddisfacente. La
formazione professionale ha, dunque, caratteri scolastici pur non essendo più
Scuola, legata, come dev’essere, ai programmi ministeriali; la formazione
occupazionale, invece, non può prescindere dal monitoraggio e dalla conoscenza
immediata delle esigenze attuali delle imprese a 6-12 mesi e di quelle a
breve/medio termine (12-24 mesi). Oltre tale termine la formazione occupazionale
non può che tornare nell’ambito del generico poiché il “man power planning”,
a tre anni e più, risulta affidabile solo per le imprese di grandi dimensioni
e, comunque, andrebbe considerato con molta prudenza.
I nessi tra mondo della scuola e della formazione
professionale, da una parte, e mondo del lavoro e della formazione
occupazionale, dall’altra, andrebbero, quindi, ricercati in una logica di
modularità dove, man mano che ci si sposta dalla scuola al lavoro, si
rimpiccioliscono tali moduli fino a una dimensione adeguata all’ingresso nelle
attività produttive in senso stretto.
Di qui una duplice prospettiva che richiede, da una parte,
risorse alla scuola pubblica, dall’altra il coinvolgimento delle imprese man
mano che si va dal generale al particolare.
Le imprese, tuttavia, si sono sempre rivelate restie a tale
impegno, sebbene poi tendano a lamentarsi della carenza di figure professionali
adatte ai loro piani più ambiziosi.