Spartizione del valore aggiunto e precarizzazione dell’occupazione

Nicola Galloni

Una riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto comporta un aumento di prodotto per unità di lavoro; come dire che aumenta il valore del lavoro sociale e, se non aumenta anche il suo costo/prezzo in proporzione, si determina lo squilibrio che, prima, produce più profitti e dopo meno investimenti, meno domanda effettiva, meno occupazione. Di quanto la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto non si riflette in un aumento proporzionale di costo/prezzo assoluto del lavoro, di tanto si sono poste le basi dello squilibrio.

 

1. Qualche riflessione generale

 

A partire dall’estate del 1998 è cresciuta notevolmente, nel mondo, la consapevolezza dei limiti dell’attuale forma del capitalismo internazionale, fortemente condizionata dal liberismo riapparso prepotentemente sulla scena circa 20 anni fa.

A questo inizio di superamento del modello liberistico - che, finora, ha prodotto un chiaro spostamento a sinistra dell’opinione pubblica, ma ancora ben poco di concreto - hanno contribuito diversi fenomeni: la crisi delle economie dei paesi dell’estremo oriente, una crisi molto grave di cui non si vedono reali miglioramenti e che deve ancora scaricare sul resto del pianeta il grosso delle sue potenzialità negative; l’aumento della povertà non solo nei paesi economicamente arretrati, ma anche nei paesi industrializzati, con il ripresentarsi sulla scena sociale, di milioni di lavoratori in evidenti condizioni di indigenza; l’incapacità di affrontare seriamente il problema della disoccupazione oltre logiche meramente redistributive dei posti e dei tempi di lavoro o assistenzialistiche; il continuo peggioramento delle condizioni sociali ed economiche di molti paesi ex comunisti - e soprattutto della Russia - che ha dimostrato come il capitalismo selvaggio produca solo caos, aumento della criminalità, impossibilità di governare l’efficienza dei mercati.

Tutto ciò non si sarebbe realizzato o avrebbe prodotto effetti meno drammatici sugli equilibri sociali ed occupazionali, se la politica non si fosse limitata, da oltre venti anni a questa parte, al mero compito di intuire le tendenze più probabili per assecondarle. A partire dalla seconda metà degli anni ’70, infatti, la politica ha cominciato ad abbandonare l’impegno per il miglioramento delle condizioni di vita delle persone e per la liberazione degli uomini (l’espressione “uomini” comprende indifferentemente maschi e femmine).

Una versione simile di tale abbandono di impegno è stata quella della critica e della denuncia delle conseguenze delle scelte liberistiche accettandone, però, i presupposti pratici: così, la crisi del petrolio non poneva il problema di una più equa divisione internazionale del lavoro o di un risparmio (ad esempio nel settore automobilistico o dei trasporti in genere o del riscaldamento delle abitazioni) delle quantità di energia per unità di risultato, ma della priorità accordata alla lotta contro l’inflazione anche a scapito di tutto il resto; la consapevolezza dell’urgenza di interventi disinquinanti non promuoveva politiche industriali e fiscali finalizzate a rendere compatibile l’adeguamento dei livelli dei consumi per i paesi più poveri con il rispetto dei limiti ambientali, ma scelte di freno dello sviluppo operate sia sul versante monetario, sia su quello reale; il superamento delle rigidità organizzative e contrattuali della forza lavoro non portava a soluzioni di maggiore partecipazione dei lavoratori stessi alla gestione delle imprese, ma ad un brutale e repentino “dietrofront” delle relazioni industriali che, come si cercherà di approfondire meglio, ha massimizzato la flessibilità del lavoro dipendente riducendo non solo la quota del valore aggiunto di quest’ultimo rispetto al profitto, ma anche il trend del valore aggiunto complessivo e, quindi, l’efficienza del sistema; lo strapotere della speculazione finanziaria internazionale, invece di suggerire accordi tra i paesi oltre le consuete (ma al momento opportuno insufficienti) operazioni valutarie delle banche centrali, ha stimolato un senso generalizzato di superamento della dimensione nazionale che col suo indebolimento ha finito per far crescere il peso e l’importanza dei gruppi economici e finanziari organizzati a livello sovranazionale; la ridotta efficacia della politica economica keynesiana e i freni della spesa pubblica non hanno spinto ad una ricerca di qualificazione del Bilancio dello Stato che salvaguardasse gli investimenti produttivi e necessari, ma hanno favorito una continua erosione delle basi del Welfare State, delle istituzioni e della stessa amministrazione.

Da quando la “nasometria” dei politici ha fatto il suo ingresso sulla scena europea ed americana tutti i fenomeni precedentemente citati (mancanza di politiche industriali efficaci, inquinamento, disoccupazione e scarsa occupazione, squilibrio a favore dei profitti nella spartizione del valore aggiunto e riduzione del suo trend) hanno acquisito forza invece di trovare ostacoli.

E’ arduo dimostrare che si sarebbe veramente potuto fare in modo diverso - specie partendo dalle condizioni isolate di un singolo paese - ma non c’è dubbio che le poche voci fuori dal coro sono state soppresse e che i meccanismi di formazione della classe dirigente si sono sempre più volti alla cooptazione da parte di chi già occupava posizioni di potere. In questo modo, a poco più di venti anni dalla uccisione di Aldo Moro che era portatore di un progetto alternativo, è facile dubitare se questa classe dirigente sia in grado di apprezzare i cambiamenti che è necessario intraprendere per affrontare il tema della soluzione dei problemi aggravatisi nel tempo in modo così drammaticamente evidente.

Studiando anni di programmi per l’occupazione e per il Mezzogiorno, si finisce per avere la sensazione di non capire se si stia parlando dell’Italia, dell’Europa o di una qualche altra entità aliena e lontana: flessibilizzazione, incentivi alle imprese, rottamazioni, lavorazioni socialmente utili per stimolare il lavoro nero da parte degli enti locali. Per contro non si parla: 1) di banche e di politica del credito una volta che si sia stabilita la ritirata dello Stato e, comunque, la limitatezza delle sue risorse (gli unici prestiti sono quelli cosiddetti d’onore di cui sarebbe superfluo il tentativo di trattazione in questa sede); 2) di vere e proprie politiche per l’agricoltura; 3) delle industrie che necessitano di ricerca scientifica applicata e di forza lavoro qualificata; 4) di adattamento delle aree industriali alle caratteristiche e alla tipologia delle imprese che dovrebbero esservi ospitate; 5) ma soprattutto delle strategie di sostituzione delle importazioni, soprattutto attraverso le applicazioni delle biotecnologie, che consentirebbero di ridurre quel vincolo allo sviluppo che blocca la crescita del Paese da circa un quarto di secolo (infatti, senza interventi, quando il Pil italiano cresce adeguatamente, le importazioni crescono molto di più, mentre l’andamento delle esportazioni risente soprattutto della congiuntura internazionale).

Non si parla di come stabilizzare e qualificare il lavoro che viene domandato dalle imprese in condizioni tali di precarietà da ostacolarne, in mancanza di adeguati interventi, la continuità della sua utilizzazione! Non si parla dei percorsi professionali per i giovani che potrebbero scontare salari di ingresso, ma a patto di programmare, nei limiti delle cose possibili, un cammino che porti verso un lavoro vero, altamente produttivo, privo di ansie, capace di generare un reddito adeguato alle esigenze di una vita dignitosa e nella media del continente europeo. Tutto ciò ha a che vedere col vessato tema della formazione professionale.

Come è stato affermato più volte, la formazione professionale, in Italia, sembra maggiormente predisposta a rispondere alle esigenze dei formatori che non a quelle delle imprese e degli attuali od aspiranti lavoratori.

E’ più facile e meno costoso, infatti, organizzare e sostenere un corso generico (lingue, computer e via dicendo) che non istituirlo per formare quegli addetti a mestieri dei quali c’è (o si ritiene ragionevolmente che ci sarà) una domanda superiore o diversa rispetto all’offerta.

Quest’ultimo tipo di formazione che sarebbe esagerato definire “vera” (perché anche l’altra risulta utile), potrebbe essere chiamata “occupazionale” o “specifica” per distinguerla, appunto, da quella professionale, più generale o, a seconda dei casi, generica.

Entrambe rappresentano anelli di congiunzione tra la scuola (o l’università) e il mondo del lavoro propriamente inteso; la formazione scolastica ed universitaria non possono risultare immediatamente preparatorie rispetto al lavoro propriamente inteso, in quanto una tale ipotesi impoverirebbe il patrimonio culturale (potenziale) dei futuri lavoratori, a tutti i livelli. La “culturizzazione” della forza lavoro del futuro è l’arma strategica, dal lato dell’offerta, per ottenere di non perdere posizioni nelle attività ad alto valore aggiunto. Ciò vale per l’Europa, per il nostro paese, per classi di individui, per le singole persone. Ma senza un coordinamento con quanto sta avvenendo e potrà avvenire dal lato della domanda, la “culturizzazione” rischia di rimanere al mero livello del potenziale senza potersi anche realizzare in termini di occupazione soddisfacente. La formazione professionale ha, dunque, caratteri scolastici pur non essendo più Scuola, legata, come dev’essere, ai programmi ministeriali; la formazione occupazionale, invece, non può prescindere dal monitoraggio e dalla conoscenza immediata delle esigenze attuali delle imprese a 6-12 mesi e di quelle a breve/medio termine (12-24 mesi). Oltre tale termine la formazione occupazionale non può che tornare nell’ambito del generico poiché il “man power planning”, a tre anni e più, risulta affidabile solo per le imprese di grandi dimensioni e, comunque, andrebbe considerato con molta prudenza.

I nessi tra mondo della scuola e della formazione professionale, da una parte, e mondo del lavoro e della formazione occupazionale, dall’altra, andrebbero, quindi, ricercati in una logica di modularità dove, man mano che ci si sposta dalla scuola al lavoro, si rimpiccioliscono tali moduli fino a una dimensione adeguata all’ingresso nelle attività produttive in senso stretto.

Di qui una duplice prospettiva che richiede, da una parte, risorse alla scuola pubblica, dall’altra il coinvolgimento delle imprese man mano che si va dal generale al particolare.

Le imprese, tuttavia, si sono sempre rivelate restie a tale impegno, sebbene poi tendano a lamentarsi della carenza di figure professionali adatte ai loro piani più ambiziosi.-----

Il punto è che, in genere, il lavoratore che riceve un’adeguata formazione, desidera altresì aumentare, almeno in proporzione, la quota del proprio valore aggiunto; il più delle volte cambiando datore di lavoro. Di qui la considerazione per cui, nell’impresa, i costi della formazione finiscono per risultare un regalo alla concorrenza e una perdita secca per l’azienda che si è assunta tali oneri.

Le soluzioni a tale circostanza - che scoraggia le imprese dall’impegnarsi nella formazione dei propri addetti - potrebbero rivelarsi di tre tipi.

Primo: il finanziamento pubblico a tali imprese, magari sotto forma di fiscalizzazione degli oneri o riduzioni della tassazione dei profitti (che, poi, sono quasi la stessa cosa come si cercherà di vedere al momento opportuno).

Secondo: la costituzione di imprese pubbliche o il sostegno ad imprese private che si occupino esclusivamente di formazione occupazionale.

Terzo: la valutazione del costo affrontato dall’impresa per formare un addetto, il cui controvalore dovrà essere indennizzato dalla successiva impresa al momento dell’assunzione; si potrebbe, così, introdurre una specie di “cartellino” la cui durata - successiva ad ogni intervento di formazione ed al suo costo/valore - dovrebbe essere di circa 2-3 anni (cioè lievemente inferiore ai tempi del mutamento tecnologico che si osserva attualmente nella produzione). Così, il lavoratore che si licenzia pochi mesi o settimane dopo l’intervento formativo non avrebbe freni, ma l’impresa che se ne è fatta carico, potrebbe recuperare almeno l’ammontare del costo formativo stesso. Tra la seconda e la terza soluzione non ci sono molte differenze, se le imprese (pubbliche o private) che effettuano la formazione si fanno remunerare dai nuovi datori di lavoro.

La prima soluzione sembra più semplice, ma forse richiede riflessioni maggiormente approfondite circa la natura e le dinamiche del valore aggiunto, della remunerazione dei lavoratori in rapporto alla qualità delle loro prestazioni (quindi la loro produttività), la formazione e il trattamento fiscale di vari tipi di profitto.

 

2. Spartizione o sparizione del valore aggiunto?

 

Ai fini di un ragionamento di politica economica e con sufficiente approssimazione, si può sostenere che il valore aggiunto o prodotto lordo viene ottenuto sommando retribuzioni lorde del lavoro, profitti e altre remunerazioni dei fattori oppure sottraendo dal fatturato tutti i costi escluso quello del lavoro.

Considerando tali grandezze a livello macroeconomico (un livello che, con la cosiddetta globalizzazione, è passato dagli aggregati nazionali a quelli sovranazionali), si evidenziano due aspetti: a) la concorrenza tra profitto e lavoro (espresso dal suo costo) nella spartizione del valore aggiunto; b) la possibilità di far crescere il fatturato a seguito di un aumento del costo del lavoro, possibilità su cui si è basato tutto lo sviluppo dei paesi cosiddetti industrializzati per oltre un secolo e mezzo, possibilità che ha rappresentato, nella storia dell’umanità, il periodo di maggiore mobilità sociale e, seppure con eccezioni, anche di promozione sociale.

E’ unicamente in assenza di progresso tecnologico e, ancora meglio, in assenza di tecnologie rilevanti, che un aumento del costo del lavoro, a parità di tutto il resto, determinerebbe solo una crescita nominale (inflattiva) del valore aggiunto e del fatturato: l’adottare categorie e ragionamenti, corretti per un’economia primitiva e statica, in un’economia con ben diverse caratteristiche, porta ad impedire la comprensione dei fenomeni reali. Purtroppo non è difficile constatare la perniciosa efficacia delle concezioni primitive che sono capaci di dare un senso ai peggiori pregiudizi e ai più retrivi luoghi comuni che, invece, sarebbe utile estirpare.

Ovviamente qui non si sta sostenendo che qualunque variazione positiva del costo del lavoro sia compatibile con la crescita reale e non illusoria (inflattiva) del valore aggiunto e del fatturato; ma che, a determinate condizioni, variazioni positive del costo del lavoro determinano o possono determinare sviluppo reale (al netto dell’inflazione) e che questo è stato il meccanismo della straordinaria crescita industriale e sociale dell’Europa occidentale, degli Stati Uniti d’America e degli altri paesi che hanno potuto e saputo mettere insieme democrazia economica, un movimento operaio ben organizzato e il pluralismo delle forze politiche.

Quale è, dunque, la condizione principale che permette di trasformare gli aumenti monetari dei salari in reddito effettivo?

Occorre che l’aumento salariale si accompagni all’introduzione di tecnologia che comporti la riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto; in tal senso, se c’è aumento del costo - inteso come valore del fattore utilizzato - tuttavia si riscontra anche riduzione del costo per unità di prodotto.

Di qui nasce non la semplice possibilità, ma la necessità, di un aumento della capacità di acquisto dei lavoratori che, a parità dei livelli occupazionali, devono poter acquistare, appunto, la maggiore quantità di beni prodotti grazie alla nuova tecnologia.

Se, dunque, l’aumento dei salari (che si generalizza nel sistema macroeconomico) è pari alla riduzione di costo per unità di prodotto - determinato dalle tecnologie o dalla migliore organizzazione del lavoro - il sistema è in equilibrio: ma si tratta di un equilibrio nuovo dove, a parità di profitto e di occupazione, salari e fatturato (vendite e prodotto) sono aumentati e il valore della moneta - espresso dal rapporto tra quantità di moneta e beni in circolazione - non si è ridotto. E’ ovvio che se gli aumenti salariali superano quelli della produttività (un termine equivalente alla quantificazione del progresso delle tecnologie e/o dell’organizzazione del lavoro) si determina una inflazione da costi. Nulla impedisce, tuttavia, che tali aumenti inflazionistici stimolino - se ce ne sono le condizioni concrete determinate dallo stato della ricerca scientifica - investimenti in tecnologia capaci di riportare il sistema in equilibrio. Quando c’è inflazione derivante dal conflitto distributivo, infatti, i mezzi monetari - seppure leggermente svalutati - non tendono a ridursi, e ciò vale anche per gli investimenti produttivi ed il loro finanziamento. Il modello appena descritto - che presuppone e, forse, determina democrazia industriale, forti sindacati, un movimento operaio organizzato e disponibilità di tecnologie e di tecniche sempre più efficaci - è stato praticato per decenni: con conseguenze, nel complesso, positive anche se, da diversi punti di vista, non tutte positive.

Il consumismo sfrenato è stato sottoposto a critica dai filosofi moralisti e dai cultori dell’ambiente; le rigidità implicite nei modelli fortemente sindacalizzati di gestione della forza lavoro hanno messo in crisi proprio gli impianti di grandi dimensioni; i periodi e i pericoli di inflazione hanno generato allarme presso i benpensanti che, come è noto, rappresentano un fortissimo partito trasversale. Ma, soprattutto, si trattava di un “modello” che riduceva il profitto a variabile residuale e che assicurava ai problemi dei lavoratori, direttamente coinvolti nel processo produttivo, una centralità che era soprattutto politica. Scindere, infatti, il momento squisitamente economico da quello politico nel conflitto per la spartizione del valore aggiunto appare un’opera ardua se non impossibile.

Una serie di circostanze, su cui, adesso, appare superfluo cercare un approfondimento, ha, come è noto, determinato un netto superamento di quel modello attraverso un quasi simmetrico capovolgimento delle posizioni di forza, sicché - in mancanza di correttivi - la remunerazione del lavoro tende a divenire una variabile residuale e dipendente del processo produttivo ( e la centralità politica è stata assunta o ri-assunta dai percettori di profitto).

Ma la simmetria politica non comporta effetti sociali parimenti simmetrici: uno sviluppo sostenuto che sacrifichi il profitto (ed assegni un ruolo molto forte agli investimenti pubblici), ad esempio, tenderà a consentire una adeguata e continua valorizzazione dei patrimoni; mentre il “sacrificio” nella remunerazione del lavoro, a medio andare, non è compatibile con uno sviluppo sostenuto (chi si “sviluppa”, infatti?) e, a lungo andare, non garantisce nemmeno gli alti profitti sicché le minori attese di questi ultimi deprimeranno il trend degli investimenti.-----

Per quanto si possa e si voglia sviscerare l’argomento da un punto di vista sociale o scientifico, esso manifesta sempre la sua prioritaria connotazione politica (che non vuol dire né ideologica, né fideistica, ma, anzi, storica e reale nella pienezza di tali aggettivi): affinché la centralità accordata al profitto non determini l’aggravarsi dei problemi della società e dell’economia, occorrerebbe, infatti, che i lavoratori - una volta ottenuta la loro remunerazione contrattuale, ad esempio, a livello della “sussistenza” - partecipassero abbondantemente alla sua spartizione. A tale scopo non basterebbe che lo Stato sottoponesse il profitto ad una tassazione più o meno progressiva per effettuare una redistribuzione. Occorrerebbe che i lavoratori superassero la condizione dei dipendenti e subordinati; ma nel senso di riappropriarsi del controllo sull’organizzazione dell’intero ciclo produttivo: da qui discenderebbe la possibilità di partecipare al profitto non come misura elargitiva o compensativa, ancorché necessitata da dati oggettivi, ma per un’autonoma posizione da cui scaturirebbe tale diritto alla spartizione.

I fenomeni che si sono osservati negli ultimi due decenni, soprattutto in paesi fortemente industrializzati, risultano di tutt’altra natura: in essi vi è, infatti, un peggioramento e non un miglioramento della condizione del lavoratore sia dal lato retributivo, della sicurezza e degli orari, sia dal lato del suo controllo sul processo produttivo nel complesso.

Precari di tutti i tipi, partite IVA, consulenti, imprenditori totalmente dipendenti da altri, cooperative fasulle ed economia sommersa sono state tutte formule - in certi casi anche di apparente partecipazione agli utili - che hanno portato ad una riduzione (e non ad un aumento) della quantità di valore aggiunto spettante al lavoratore medio o alla media dei lavoratori: tutto ciò, assieme al peggioramento o al non miglioramento della situazione per il lavoratore a contratto sindacale (subordinato e a tempo indeterminato), è stato chiamato flessibilizzazione. Un modo molto elegante per determinare e per giustificare un aumento della quota dei profitti in condizioni di emergenza a causa della crescente competitività sui mercati (globalizzazione). Con un modello diverso il valore aggiunto, a parità di profitti, sarebbe cresciuto molto di più e una parte considerevole dei problemi sociali ed economici contemporanei sarebbe risultata fortemente ridimensionata. Da un punto di vista generale, infatti, la globalizzazione sposta solo il livello del contrasto fra micro-economia e macro-economia dal dato nazionale a quello sovranazionale; se il succo della faccenda è che, non essendovi più regole, la parte debole (vale a dire i lavoratori minacciati dalla disoccupazione e che non possono investire le loro risorse su un mercato diverso da quello dei beni e dei servizi reali) deve veder continuamente ridotta la sua parte di valore aggiunto, allora non c’è da meravigliarsi se la sola spettacolare dinamica dei profitti non risolve, ma innesca la crisi del sistema.

Occorre capire come i lavoratori possono riproporsi (o essere riproposti) in condizioni tali da affermare il loro diritto a o il loro desiderio di una maggiore quota di valore aggiunto che, forse giova ripeterlo, appare l’unica via per garantire sviluppo ed equilibrio.

Le autorità sovranazionali (o gli accordi tra le parti nazionali) potrebbero stabilire minimi salariali e normativi, prevedendo misure nei confronti dei produttori inadempienti; se, allora, aumentassero le retribuzioni per i lavoratori e migliorassero le condizioni di vita nei paesi più poveri, sarebbe proponibile una politica delle tecnologie che rendesse compatibili i nuovi e più elevati salari con il mantenimento delle quote di mercato estero e la possibilità di vendere più prodotti all’interno di tali paesi. In tal modo finirebbe per crescere anche la domanda di prodotti che provengono dai paesi più industrializzati, non solo la domanda di prodotti autoctoni; con la attuale forma di globalizzazione, invece, c’è solo la spinta dei paesi poveri a tenere bassi i salari: questo, però, costituisce una minaccia per i produttori dei paesi ricchi. Con la attuale forma di globalizzazione ci sono solo prospettive di squilibrio: sia nei paesi meno industrializzati dove i salari reali e la domanda interna non possono crescere per favorire lo sviluppo, sia nei paesi ricchi dove i produttori risultano sempre più ostacolati da coloro che controllano il momento “scarso” dell’intero processo, vale a dire lo sbocco sui mercati.

 

3. Proprietà privata e alti profitti nuocciono allo sviluppo?

 

L’esperienza sia del periodo storico in cui le retribuzioni dei lavoratori dipendenti non erano conseguenza dell’andamento dell’economia, ma stabilite “a priori”, sia del periodo storico attuale in cui esse sono state sempre più trattate come variabili residuali (flessibilizzazione), ha dimostrato la insostenibilità di quest’ultimo modello e la sostenibilità del primo, seppure con i limiti evidenziati da una cospicua, autorevole e ben remunerata letteratura economica.

Poiché ai fini del presente ragionamento le componenti che concorrono alla spartizione del valore aggiunto sono retribuzioni e profitti, è molto difficile che entrambe possano venir definite “a priori”. Adesso non importa sceverare sulla natura dei vari percettori di profitto; per ora ci si limita a ciò che “spetta” alla proprietà una volta pagati tutti i costi definiti o definibili all’inizio del processo produttivo.

Pertanto, in questa sede: a) si è rilevato che la definizione del livello della remunerazione del lavoro in base ai risultati dell’impresa (controllata da una componente che è concorrente nella spartizione del valore aggiunto) non porta a conseguenze positive, ma negative ai fini dello sviluppo; b) parimenti si è rilevato che la definizione “a priori” della remunerazione del lavoro (qualcosa di simile anche se non di coincidente con la nozione del “partire dai bisogni”), quando è stata praticata, ha prodotto numerosi inconvenienti nei casi in cui non è stata ben regolata (inflazione, rigidità produttive), ma ha consentito - nelle circostanze di un’economia moderna - di garantire compatibilità tra alti salari, soddisfacente occupazione, stabilità dei prezzi, adeguati profitti (oppure profitti contenuti, ma adeguata valorizzazione dei patrimoni); c) la riflessione continuerà con il caso di una “non definizione a priori” di quanto spetti al profitto; d) non si sta cercando di portare avanti il discorso attorno alla ipotesi di un sistema dove proprietà e profitto siano eliminati, ma dove essi siano trattati in modo che le esigenze dello sviluppo non siano ostacolate dal loro straripare.

In altri termini ci si vuole qui chiedere quali siano i limiti della proprietà e se coincida, tale domanda, con quella usuale circa la funzione sociale della proprietà stessa. L’imprenditore, nell’approntare i fattori produttivi in vista della fornitura di beni o servizi di cui ritiene esista un bisogno solvibile, effettua un insieme di valutazioni economiche che lo portano a definire un suo profitto o guadagno netto. Tali valutazioni sono tutte incerte, tranne il minimo dei costi così come essi si presentano correntemente sul mercato (ipotizzando conosciuto il livello di tali costi e sufficientemente disponibile l’offerta delle risorse necessarie); dunque la valutazione del profitto da parte dell’imprenditore è incerta o rischiosa per tre ordini di ragioni:

a) egli conosce il costo minimo (o medio corrente) dei fattori, ma non sa se ci saranno variazioni (qui si parla solo delle variazioni verso l’alto perché le altre confermerebbero, migliorandola, la valutazione sul profitto finale netto);

b) egli non sa per certo se la quantità di prodotto assorbita dai mercati sarà sufficiente per confermare le sue previsioni;

c) la valutazione del profitto così ottenuta, per quanto possa risultare scritta a chiare lettere e giustificata da serissime ragioni, permane qualcosa di più vicino alla speranza rispetto a qualunque altra categoria.

La remunerazione della proprietà - in quanto distinta dalla gestione - rientra in questa dinamica, anche se si assume la nota e logica formula keynesiana del pareggio del profitto netto con il rendimento netto e reale delle obbligazioni; se non fosse così e si trattasse di un costo definito a priori, non sarebbe più profitto, ma, appunto, costo (minimo) del capitale. Entrambi gli approcci non modificano il ragionamento sin qui svolto e da svolgere: il profitto è il residuo della sottrazione dei costi (di tutti i costi, anche quello del danaro) dal fatturato; è, come si è accennato all’inizio, il valore aggiunto meno il costo del lavoro e altri servizi imputabili al processo produttivo sotto forma di remunerazione diversa da ciò che si definisce profitto.

Ovviamente, dal punto di vista della proprietà (e, quindi, del profitto) anche l’imprenditore - nel senso del gestore - può essere considerato un costo se la sua remunerazione viene stabilita all’inizio del processo produttivo. Se, invece, è la proprietà (finanziaria) la parte a cui dev’essere riconosciuto un profitto (“rectius” guadagno) minimo secondo la concezione keynesiana, allora questo minimo (al livello delle obbligazioni) non è profitto nella sua accezione di variabile residuale il cui montante spetta, alla fine, al titolare dell’impresa.

La sua variabilità, la sua flessibilità, deriva, dunque, dalla qualità e dal realismo delle previsioni “ex ante” dell’imprenditore; “ex post” deriva dalla effettiva rispondenza delle previsioni stesse alle faccende dell’economia, da “fattori” imponderabili - per scarsità di informazioni o ignoranza poco importa - che, parimenti non è rilevante, si possono chiamare fortuna o fattore F, P, k, z2, eccetera.

Se il sistema riesce ad attrezzarsi in modo che i percettori di profitti stabiliscano strategie di perseguimento dei loro interessi che non nuocciano all’adeguatezza del trend dello sviluppo rispetto alle esigenze della società civile nel suo complesso, allora i conflitti tra gli obiettivi di crescita delle forze produttive e i modi in cui è organizzata l’economia non esplodono (possono non esplodere) in tutta la loro drammaticità.

Ma siccome non è logico né possibile attendersi comportamenti autolimitativi di fronte alla spartizione del valore aggiunto, specialmente quando la parte che può avvantaggiarsi è anche la più forte nel conflitto per la spartizione stessa, allora occorre una organizzazione più ampia che predisponga le necessarie limitazioni; una organizzazione generale che si ponga obiettivi ragionevoli e raggiungibili di coerenza tra lo sviluppo reale e le esigenze sociali, di equilibrio dei prezzi, di livelli occupazionali. Se tale organizzazione manca o manca al suo compito o lo travisa nel senso di assicurare un mero rispetto delle regole economiche che generano e aggravano diseguaglianze, disequità e squilibri di forza, allora si scivola facilmente in situazioni sociali rischiose e difficili.

Se il contrasto tra l’interesse allo sviluppo delle forze produttive e i modi di organizzazione dell’economia si acuisce e non viene gestito ai fini di una possibile e realistica, ma non inefficace soddisfazione dei bisogni delle persone, la radicalizzazione dei conflitti è l’unica alternativa alla accettazione di un continuo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro per grandi strati della popolazione che non sono percettori dei profitti.

La proprietà e l’impresa possono esistere e prosperare senza influire negativamente sullo sviluppo auspicabile e sostenibile; ma possono anche esistere e prosperare a scapito dello sviluppo auspicabile e sostenibile. Nel tempo questa seconda eventualità porta all’aggravarsi delle crisi sociali ed economiche, ma ciò non toglie che, ciclicamente e per periodi non brevi, tale nocumenza si ripresenti prepotentemente. Allora l’esclusivo controllo dei mezzi di produzione da parte della proprietà privata, l’assenza
 anche solo virtuale in termini di insufficiente presenza - di un’organizzazione riequilibratrice, un insieme di altre circostanze più o meno strutturali che adesso risulta superfluo cercare di identificare con precisione, determinano situazioni che solo uno sforzo politico straordinario può cercare di contrastare.

Prima di tentare di affrontare tale aspetto pare, però, utile specificare meglio - anche da un punto di vista giuridico (“a regole date”) - il tema dei limiti alla proprietà/impresa che non hanno come oggetto la acquisizione del profitto (netto), ma le circostanze che stanno a monte della sua formazione.

Finora si è visto che la determinazione “ a priori” delle retribuzioni e l’agganciamento del loro trend a quello della produttività (e, quindi, anche a quello delle applicazioni della ricerca scientifica e tecnica) servono ad evitare che lo sviluppo o, meglio, i suoi benefici sociali, finiscano per risultare circoscritti e destinati a una porzione esigua della società.

Se si determinano “a priori” le retribuzioni (contratti sindacali, stabilizzazione del lavoro, formazione professionale “obbligatoria”) e la destinazione dei guadagni di produttività (a incrementi retributivi, riserve e investimenti non meramente finanziari), la quota destinata ai profitti è “libera” o flessibile o residuale o individuabile solo “ex post” rispetto al processo produttivo. L’appena trascorso ventennio liberista - che è ancora realtà attuale - ha fortemente voluto un tendenziale confinamento della remunerazione dei lavoratori sempre più verso situazioni di tipo “residuale”; ciò ha conseguenza sul livello dello sviluppo (che sarebbe meno limitato con l’altro tipo di economia) ed ha a che vedere con il fenomeno della riduzione degli effetti sull’occupazione di un tasso di crescita positivo, ma non accelerato: ciò accade perché uno sviluppo debole lascia il mercato del lavoro nelle mani della domanda (le imprese), relegando l’offerta (gli occupati e gli aspiranti tali) nella situazione di chi - in mancanza di una politica riequilibratrice - deve solo subire.

Se tutto il guadagno annuale di produttività va al profitto e l’aumento del prodotto nello stesso periodo non è superiore (a tale incremento del profitto), l’equilibrio economico così ottenuto - insoddisfacente per i lavoratori e i disoccupati - non lascia altro spazio alla crescita dell’occupazione di quello di distribuire il lavoro esistente tra più soggetti.

Se tale operazione avviene con un aumento della precarizzazione (un certo numero di lavoratori stabili viene sostituito da un numero superiore di lavoratori che possono essere impiegati per un tempo inferiore, ma che ricevono una paga oraria inferiore) è facile che il pareggio tra incremento di produttività e incremento di profitti trovi conferma. Così si riafferma che il conflitto va da politica (le condizioni della distribuzione) a economia (la scarsità dello sviluppo); è vero anche il contrario (poco sviluppo produce precarizzazione), ma il nesso tra politica ed economia è più importante di quello tra economia e politica perché apre alla possibilità di soluzioni alternative, mentre il secondo si chiude al regno della necessità.

Una alternativa è quella di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, in quanto, così, si introduce un’incrinatura nel modello di totale accaparramento dei guadagni di produttività da parte dei profitti; ma, perché funzioni anche a livello occupazionale e non solo come misura per la rivincita della politica sull’economia, occorre: 1) che le quantità di prodotto non si riducano in proporzione alla riduzione di orario; 2) che i margini operativi delle varie imprese presenti nel sistema siano molto omogenei tra di loro.

Se, però, l’occupazione aumenta, il nuovo equilibrio consente e richiede una crescita della produzione, perché c’è da attendersi un incremento della domanda stimolata dai nuovi occupati. Tuttavia le discrasie tra i momenti microeconomici legati alla riduzione di orario a parità di salario e quelli macroeconomici possono indurre talune - forse gravi - incertezze: a) se la nuova domanda è costituita da beni non prodotti dal sistema di imprese che ha registrato le riduzioni di orario (a parità di salario, quindi con aumento retributivo orario) come può avvenire in presenza di un vincolo delle importazioni; b) se si determina una accelerazione nella introduzione di tecnologie che servono a risparmiare lavoro; c) se gli effetti della accresciuta disomogeneità nei margini operativi tra i vari tipi di imprese riducono le capacità delle imprese meno efficienti di introdurre nuove e/o adeguate tecnologie (e, con ciò, aumenta nel sistema la divaricazione tra i soggetti economici in rapporto alle loro capacità di gestire risorse finanziarie per investimenti).

Ma la conseguenza, forse più importante, del passaggio da un’economia dove i salari venivano definiti “a priori” (nei paesi industrializzati ancora negli anni ’70) ad un’ “economia liberista” dove importa solo il profitto, riguarda il conflitto tra norme giuridiche - risultato di una lunga gestazione dottrinaria conseguente all’evolversi delle sensibilità interne al sistema capitalistico durante tutta la sua precedente storia - e rappresentazione concreta dell’impresa.

Infatti, l’ordinamento giuridico positivo (Costituzione, Codice Civile, leggi speciali) sconta un sistema di retribuzioni “a priori” e di profitti “ a posteriori”; altrimenti la proprietà non avrebbe limiti nell’esercitare un o il suo diritto a vedersi riconosciuto il profitto. In questo caso, invero, il profitto sarebbe definito “ex ante”; infatti è sufficiente decidere la priorità del profitto per ottenere che la retribuzione del lavoro abbia una mera connotazione residuale, ovverossia con ben scarsi diritti.

Il contrasto tra norma positiva e fatto concreto nasce dall’aver, la politica, accettato passivamente il passaggio da un’economia dove venivano prima i lavoratori ad un’economia dove vengono prima i profitti. Un’economia, quest’ultima, poco sostenibile: dove a crescite spettacolari dei profitti finanziari seguono crisi e squilibri socialmente indesiderabili che possono arrivare, come le esperienze insegnano, a cancellare tutto o quasi tutto.

Viceversa l’altro sistema - quello della priorità assegnata alla parte altrimenti debole, vale a dire i lavoratori (che, fra l’altro, non possono investire le proprie risorse principali sul mercato puramente finanziario, ma solo su quello produttivo) - è compatibile con la sopravvivenza di profitti e proprietà, a patto di limitazioni per quest’ultima, proprio al fine di evitare che nuoccia ad un sano e ordinato sviluppo economico.-----

La remunerazione del capitale ad un determinato livello (keynesianamente il tasso di interesse reale delle obbligazioni maggiormente diffuse e negoziabili) è un costo; come tale, è distinto dall’elemento imprenditivo dell’impresa; anche per questo, la titolarità del capitale non dovrebbe dare diritto a ingerenze nella gestione.

Se, invece, il proprietario del capitale non si comporta come prestatore, ma come “padrone” (e, quindi, a seconda dei casi può gestire o nominare il gestore), allora opta per il cosiddetto rischio, non ha “diritto” alla remunerazione certa, ma ha diritto a percepire l’avanzo netto della gestione stessa (altrimenti detto, appunto, profitto).

Tale impostazione risulterebbe del tutto inefficace se il potere del proprietario potesse arrivare a definire il costo dei fattori liberamente oppure se la sua azione organizzativa dei fattori produttivi - in vista del risultato monetario - si conformasse in modo di nuocere al buon risultato economico e sociale dell’impresa.

Tali circostanze - costo dei fattori e buon risultato dell’impresa
 non sono facili da identificare e definire nel concreto, ma nemmeno impossibili.

L’economia studia, infatti, i fenomeni oggettivi (comprese le relative soggettività) nel loro continuo dinamismo oltre che nella loro definibilità.

Il diritto o, meglio, la norma considera, più o meno in generale, i limiti delle condotte umane non solo sulla base di quanto emerge dalla realtà, ma anche o soprattutto di come la realtà emergente possa o debba venir rapportata ai principi e ai valori che ispirano una data comunità.

L’applicazione del diritto valuta la rispondenza del caso alla norma, sicché l’esistenza di una norma (ad esempio l’art. 42 della Costituzione) e la comprensione dei fenomeni economici, consente la valutazione delle circostanze e degli interessi in gioco, fino a giungere ad una decisione vera e propria o ad un accordo.

 

4. Rivoluzione, resistenza o resa?

 

L’introduzione di nuove e più efficaci tecnologie e/o di migliore organizzazione del lavoro fanno diminuire la quantità di quest’ultimo per unità di prodotto. Ciò riduce altresì il costo per unità di prodotto e, a parità di prezzo, consente un aumento del profitto; a parità di profitto, consente una riduzione di prezzo: così le necessità, vere o presunte, della globalizzazione (della concorrenza) si incontrano con le teorie economiche che auspicano riduzione (o contenimento) dei prezzi e crescita della competitività. Se, in tali circostanze, i salari non subiscono variazioni o si riducono (per effetto della concorrenza con i nuovi e vecchi disoccupati sul mercato del lavoro) può succedere sia che aumentino i profitti, sia che si riducano i prezzi. E’ questo uno degli scenari della depressione economica che, in genere, prelude ad una successiva riduzione dei profitti concomitante a quella degli investimenti e compatibile con continue riduzioni dei prezzi derivanti, appunto, da relativa scarsità di compratori.

Secondo alcune teorie economiche arriverebbe un punto in cui i prezzi sarebbero così bassi da consentire l’acquisto dei prodotti da parte dei compratori che, in precedenza, non avevano sufficiente capacità di acquisto. In effetti può accadere:

1) che prima di questo punto gli investimenti si siano così ridotti da non consentire continue riduzioni dei prezzi semplicemente perché anche le quantità dei prodotti sono divenute scarse (non si capirebbe, infatti, perché, se non ci sono più compratori, le imprese dovrebbero continuare a produrre solo per far calare ulteriormente il valore delle loro merci);

2) che le quantità di moneta ancora in possesso dei compratori si siano assottigliate di più di quanto non sia cresciuta la capacità di acquisto di ciascuna unità di moneta (per l’effetto valorizzativo della deflazione);

3) che la riduzione dei salari e dell’occupazione abbia determinato una trappola ristagnativa da dove il sistema autonomamente (senza un intervento dello Stato) non riesce ad uscire.

Ma prima che si verificasse tale situazione, c’è stato un periodo - in genere non brevissimo, ma neanche troppo lungo - in cui i profitti sono cresciuti enormemente per l’effetto combinato di miglioramenti nell’organizzazione produttiva, di introduzione di nuove tecnologie e di bassi salari.

Dato l’andamento dei salari, infatti, una riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto comporta un aumento di prodotto per unità di lavoro; come dire che aumenta il valore del lavoro sociale e, se non aumenta anche il suo costo/prezzo in proporzione, si determina lo squilibrio che, prima, produce più profitti e dopo meno investimenti, meno domanda effettiva, meno occupazione.

Di quanto la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto non si riflette in un aumento proporzionale di costo/prezzo assoluto del lavoro, di tanto si sono poste le basi dello squilibrio.

Lo squilibrio - con evidenti conseguenze sui livelli dell’occupazione
 consisterebbe, dunque, nella crescente distanza tra il valore sociale del lavoro (proporzionato all’aumento della sua capacità produttiva a seguito del progresso tecnologico) ed il suo costo effettivo, depresso da circostanze congiunturali, da valutazioni pseudoeconomiche e dagli interessi di breve e medio termine dei percettori di profitti.

Ovviamente, se i salari e il costo del lavoro aumentano di più della riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto, allora l’effetto
 di tale aumento oltre la produttività - è inflattivo e non anche reale; ma in questo caso, sebbene ci sia uno squilibrio monetario, vi è altresì lo stimolo ad investire, dato che i prodotti continuano ad essere domandati. Pertanto, se una maggiore inflazione non è compatibile con l’economia della globalizzazione e della concorrenza, occorre introdurre della tecnologia o della migliore organizzazione che riduca la quantità di lavoro per unità di prodotto in modo che il livello dei salari e dei profitti non spiazzi la competitività del prodotto (indicata dal suo prezzo).

Ma, dato il livello dei prezzi, in condizioni di globalizzazione e concorrenza, non è prescritto da nessuna parte che il costo del lavoro non possa crescere in proporzione alla riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto (ottenuta per effetto delle tecnologie) poiché ciò avverrà a parità di prezzo e di profitto.

Ma la proprietà o il management possono giustificare con la globalizzazione e la concorrenza due comportamenti deleteri per l’economia, mentre, per effetto della tecnologia, continua a ridursi il costo del lavoro per unità di prodotto:

1) un’insoddisfacente dinamica dei salari a parità di prezzi con un aumento dei profitti;

2) un’insoddisfacente dinamica dei salari con riduzione dei prezzi, a parità di profitti. Si possono anche verificare infinite miscele delle due cose; il punto è che tali politiche deprimono l’economia a medio termine molto di più di quanto non mostrino le apparenze iniziali.

Nel medio periodo tali comportamenti finiscono per compromettere la dinamica del valore aggiunto e le uniche alternative sono date dal ripristino di una normale dinamica salariale (che avvicini il costo del lavoro al suo valore) e da un intervento pubblico che restituisca alla domanda effettiva le quote di valore aggiunto perse a causa delle modalità con le quali il profitto ha ottenuto di prevalere nel conflitto per la spartizione del valore aggiunto stesso.

Se, infatti, l’aumento del profitto è stato registrato in percentuale dell’investimento o per unità di pezzi venduti, l’attività economica si è arrestata prima del raggiungimento del massimo possibile di prodotto (che è anche il massimo possibile di valore aggiunto - a parità di altre circostanze - e di occupazione).

Se l’attività economica si ferma prima, non si raggiunge nemmeno il massimo profitto totale, viene impedita la realizzazione di quote di valore aggiunto, l’occupazione è minore di quella possibile e vengono sottratte alla domanda effettiva quelle quote che consentirebbero l’acquisto dei beni di cui è mancata la produzione. Il livello del valore aggiunto è inferiore rispetto a quello possibile per una somma pari al numero dei posti di lavoro persi moltiplicato per il costo corrente del lavoro più la differenza tra il massimo profitto totale ed il profitto realizzato. Il numero dei posti persi è proporzionale alla differenza dei due prodotti (uno corrispondente al massimo profitto totale, l’altro al massimo profitto per unità di investimento), tenendo conto dello stato delle tecniche.

L’azienda che ricorra ai tagli di occupazione, prodotto e profitto totale, in vista della massimizzazione del profitto per unità di prodotto o per unità di investimento, vede crescere il valore del suo titolo in borsa; e questa crescita di valore, il più delle volte, supera la differenza tra profitto totale e profitto ottenuto portando produzione e domanda di lavoro (cioè occupazione) fino al livello in cui veniva massimizzato il profitto per unità di investimento.

Se i tassi di interesse sono bassi e l’impresa è quotata in borsa, quello appena descritto corrisponde al comportamento prevalente. Se, invece, i tassi di interesse sono elevati, tutte le imprese possono distogliere dall’attività produttiva la parte del loro investimento il cui profitto sarebbe pari o inferiore al tasso dell’interesse e comperare obbligazioni.

Quando i tassi di interesse si riducono, quindi, le imprese non ancora quotate hanno interesse a entrare in borsa; in questo modo molta parte dei guadagni di occupazione che gli esperti governativi si attendono dal miglioramento delle condizioni monetarie, si annullano.

Quando, invece, i tassi di interesse aumentano (e la situazione economica peggiora), niente impedisce alle imprese quotate in borsa di comperare obbligazioni.

Qualunque disinvestimento causato dall’eccesso dei profitti e dalle possibilità di guadagno sui mercati finanziari ha effetti depressivi abbastanza evidenti sull’economia reale (esclusi, ovviamente, i beni di lusso la cui domanda dipende dall’andamento dei profitti) e, quindi, si aggrava il conflitto tra esigenze di occupazione (di sviluppo produttivo) e modi di organizzazione dell’economia.

La questione, quindi, è politica e non economica poiché lo studio dell’economia dimostra che sono possibili equilibri con maggiore occupazione, maggiore valore aggiunto, maggiori profitti provenienti dai processi produttivi (e minori guadagni finanziari), più elevati salari.

Tuttavia, in mancanza di una forza che si contrapponga efficacemente all’attuale versione del capitalismo, il sistema di regolazione persegue scelte e comportamenti che ripropongono il conflitto fra l’interesse allo sviluppo occupazionale - nonché sociale - massimo possibile e i modi di organizzazione dell’economia. Tali scelte e comportamenti vengono giustificati in base a vari ragionamenti che, prepotentemente veicolati dai mezzi di comunicazione di massa, raggiungono una spettacolare importanza; il più efficace e ripetuto è il seguente: si deve fare così perché le leggi dell’economia non consentono altrimenti, ogni alternativa è preclusa e chi cerca di perseguirne una non fa che riproporre soluzioni vecchie e fallite, pericolose e controproducenti, folli e velleitarie.-----

Così, migliaia di anni di civiltà hanno alla fine prodotto il loro risultato: “si deve fare così e basta”.

Il problema è che risulta non solo falso che non possano perseguirsi alternative, ma altresì evidente che proprio l’incapacità a proporre e a praticare alternative porta l’attuale sistema verso crisi e squilibri che sembrano negare gran parte e il minimo dei valori civili risultanti dagli ultimi diecimila anni di evoluzione umana.

Disgraziatamente sembrano confrontarsi, almeno a livello delle idee, i difensori dell’attuale sistema liberistico da una parte (peraltro in un momento di evidente difficoltà per quanto sta accadendo nel mondo proprio a causa delle scelte cosiddette liberistiche) e, dall’altra, gruppi sparuti di alternativi che, però, ritengono che l’economia sia completamente adattabile ai desideri della volontà organizzata.

Si tratta di due tipi opposti e simili di follia politica (che non si possa e/o non si debba far nulla, che tutto sia possibile e fattibile) che finiscono per avvantaggiarsi dell’attuale sistema dei mass media in cui tutto deve venir banalizzato e ridotto a funzioni lineari. Purtroppo la realtà è complicata e intervenire, ad esempio, sulla disoccupazione richiederebbe passaggi logici e ragionamenti di non agevole sintesi all’interno di un telegiornale o di un articolo giornalistico di facile lettura.

Ma proprio nelle società complesse c’è bisogno di semplificazione e di efficacia nei messaggi, sicché chi controlla i mass media è in grado di indicare la rotta che la società segue (anche se, a volte succede, i fatti si evolvono secondo dinamiche indipendenti dalla loro rappresentazione).

Comunque sia, tale situazione - associata con la rapidità dei cambiamenti ed il fatto che i centri del potere economico e finanziario, in prevalenza “privati”, decidono prima che si sappia su che cosa occorrerebbe prendere una decisione - determina l’annichilimento di ciò che un tempo si chiamava resistenza operaia (parente, seppure non vicinissima di quella che, con linguaggio cristiano, si chiamava testimonianza).

Non sembrerebbe rimanere che la scelta tra due possibilità:

1) la negazione radicale del sistema e delle sue regole, in una parola il (tentativo del) suo rovesciamento;

2) la resa.

In effetti, la società complessa consente di organizzarsi per sopravvivere all’esterno di essa, ma al prezzo della totale rinuncia ad incidere sui meccanismi sociali complessivi. Questa “politica” è stata sperimentata negli USA a partire dagli anni ’70: non a caso da quando il liberismo attuale si è proposto come visione dominante ed esclusiva del mondo (risultato che ha potuto raggiungere solo in seguito la caduta dei regimi cosiddetti comunisti).

Dopo di che è stata introdotta, in modo più o meno massiccio, negli altri paesi industrializzati. Ciò ha consentito il congelamento delle energie che potevano esser definite, fino agli inizi degli anni ’70, rivoluzionarie.

Nessuna possibilità rivoluzionaria è ipotizzabile in una società complessa se non si sono già costituite delle solide teste di ponte al suo interno.

Ma non si parlerebbe di società complessa se si pensasse a gruppi rivoluzionari che si preparano fondando e gestendo banche, scuole, ospedali, aziende all’interno del sistema. Si tratta, invece, di qualcosa che deve influire sulla regolazione del sistema (della società complessa) non di una semplice presenza fisica, seppure qualificata.

Dopo la crisi del 1929 e l’introduzione dello Stato interclassista che rompe con la tradizione dello Stato stesso come mero momento organizzativo della classe dominante, si arriva - quasi contemporaneamente - alla più alta realizzazione della previsione marxiana della fine del capitalismo, ma anche alla negazione del suo esito in termini di dittatura del proletariato come forma di transizione verso il vero e proprio comunismo.

Il conflitto tra forze produttive e modo di produzione porta effettivamente alla crisi capitalistica (e, come previsto da Marx, cade, come conseguenza, la sovrastruttura statuale corrispondente alle esigenze organizzative della classe dominante). Ma il modello che emerge non è di quelli previsti da Marx: è un modello (peraltro non perfettamente unitario) di regolazione capitalistica che, dal lato strutturale, riduce il conflitto tra sviluppo produttivo e organizzazione dell’economia; mentre, dal lato della sovrastruttura, introduce lo Stato pluriclasse.

Tale modello finisce per spiazzare qualsiasi prospettiva rivoluzionaria in quanto la contrapposizione politica viene trasformata continuamente in contrappeso (o controbilanciamento del nuovo sistema a quello vecchio che generava più squilibri) a cui corrisponde il fenomeno sociale della continua riduzione della condizione di emarginazione che, nel passato, aveva interessato strati ingenti della popolazione.

Qui, ovviamente, si sta cercando di parlare di prospettive, non di singole persone che, durante il periodo successivo agli anni ’30 (a parte la parentesi della guerra e della lotta al nazifascismo), hanno scelto di continuare una battaglia rivoluzionaria; quest’ultimo fatto dimostra solo che l’uomo è un essere libero anche quando pretende di comportarsi come se le condizioni oggettive non esistessero.

Con il regresso liberistico, dunque, la forza di quei contrappesi è venuta meno, ma la società è comunque cambiata ed il modello rivoluzionario “tout court”, come si cercava di evidenziare in precedenza, non è più praticabile se non come conseguenza dell’avvenuto fallimento della regolazione interna al sistema. Ma, senza un previo ed esteso tentativo di ricostituzione dei contrappesi, una forza rivoluzionaria mancherebbe completamente di appigli in una società come l’attuale.

Dunque, resistenza e rivoluzione, così come storicamente si sono affermate in Europa e negli USA per oltre due secoli, non risultano più strumenti adatti per affermare quei criteri di giustizia sociale che sono alla base di qualunque aggregato che voglia definirsi umano non solo in modo superficiale.

La prima (la resistenza) risulta poco efficace per il fatto che gli eventi marciano su tracce troppo spesso imprevedibili e ad un ritmo più rapido delle capacità degli esclusi di organizzarsi per controllarli.

La seconda (la rivoluzione) non appare più proponibile in prima battuta, in quanto occorrerebbe non solo escludere la praticabilità di un’ipotesi di regolazione alternativa (i contrappesi), ma anche realizzare il cartello delle forze che, unicamente dopo aver compreso che il sistema non è riformabile, accettano di sostituirlo.

 

5. Progresso dello sviluppo e della forma capitalistica

 

Ma forse c’è un altro modo per raggiungere conclusioni simili.

Se l’essenza della questione politico-sociale consiste nel conflitto che esiste tra forze dello sviluppo (forze produttive) e modi di valorizzazione del capitale, l’opposizione deve riguardare questi ultimi e non coinvolgere anche lo sviluppo. La distinzione può sembrare ovvia e banale ma, forse, non è così.

Identificare cosa sta dal lato dello sviluppo e può favorirlo, distinguendolo da quanto lo contrasta, è il compito precipuo dell’organizzazione politica delle forze che vogliono opporsi non solo alle limitazioni della crescita economica, ma anche alle grandi ingiustizie sociali che si accentuano via via che i modi di produzione e di valorizzazione del capitale sono lasciati liberi di estremizzare i loro comportamenti e i loro obiettivi.

Questo potrebbe spiegare perché il concetto di progresso è così controverso in un’epoca come l’attuale - epoca iniziata verso la metà degli anni ’70, di fatto terminata dopo l’estate del 1998, ma attualmente solo in via di superamento - che si caratterizza per un aumento di predominio della componente proprietaria rispetto all’apparente ristagno della componente produttiva.

Quando prevale lo sviluppo produttivo, tecnologico, sociale, civile, umano sugli interessi dei proprietari è più agevole parlare di progresso; ma quando “a progredire” sono le forze che possono contrastare il progresso, allora concetti e situazioni appaiono confusi.

La confusione, infatti, è reale, non apparente ed è generata dalla insufficiente capacità a distinguere veramente i cambiamenti che portano a ridurre la dipendenza o il bisogno economico e l’asservimento di persone ad altre persone da ciò che determina regressi rispetto a tali obiettivi.

Il “progresso” tecnologico, ad esempio, e, nel nostro tempo, le biotecnologie, sono fenomeni a cui le forze progressiste debbano opporsi perché il loro sviluppo - se mal pilotato - può peggiorare lo stato di cose esistente (dal punto di vista della grande maggioranza della popolazione) oppure no?

Tecnologie e biotecnologie, in altre parole, sono fenomeni cattivi in sé o per un uso non corretto (non utilmente indirizzato) che se ne fa, che se ne può fare?

Tutto ciò che è capace di contribuire al cambiamento delle cose contiene necessariamente una rilevante componente distruttiva e, quindi, non tutto ciò che appare contenere elementi distruttivi sarà incapace di apportare vero progresso.-----

Insomma, ci sono forze alle quali è giusto opporsi perché il loro ruolo contrasta con gli obiettivi di riequilibrio e giustizia sociale; ci sono forze, invece, la cui regolazione è possibile per raggiungere tali obiettivi. Distinguere tra le due situazioni è compito della politica e dell’etica.

Tutto il progresso scientifico e tecnologico dei due secoli passati ha consentito di minimizzare la quantità di lavoro per unità di prodotto. Ciò non solo ha reso accessibili alla maggioranza della popolazione i beni che hanno consentito a centinaia di milioni di individui di liberarsi dallo stato di necessità; non solo ha reso meno scarsa, a parità di prodotto, le disponibilità di forza lavoro qualificata (senza la quale non sarebbe possibile produrre una massa crescente e imponente di beni e servizi di comune e generale utilità); ma soprattutto ha massimizzato la quantità di prodotto per unità di lavoro.

Quest’ultimo fenomeno fa crescere il valore del lavoro, mentre i modi di organizzazione dell’economia richiedono che il lavoro perda di valore per mandare ai profitti la maggior parte del nuovo prodotto al netto dei costi intermedi ovvero per ridurre questi ultimi, spingere verso il basso i prezzi e far crescere, a parità del resto, il valore della moneta.

Il progresso tecnologico fa crescere il prodotto per unità di lavoro, ma l’obiettivo di valorizzazione della moneta fa sì che il processo economico si legga al contrario: il costo del lavoro per unità di prodotto si minimizza; e siccome il costo (del lavoro) è un modo per tradurre il valore in termini monetari, ecco che il supremo obiettivo sociale diviene quello di pagare meno il fattore umano produttivo.

La mistificazione è talmente completa che non solo i modi di far crescere i profitti (anche, come si è visto, a scapito della produzione e dell’occupazione) vengono considerati sociali, ma che il motore dello sviluppo (nel discorso che si sta cercando di fare, il progresso tecnologico) viene chiamato sul banco degli imputati da coloro che si oppongono alla esistenza o alla crescita delle grandi diseguaglianze tra gli esseri umani.

Cercare di mettere ordine in questa materia corrisponde a mettere le basi di un serio programma politico di cambiamento sociale che abbia come obiettivo la liberazione dell’uomo da ogni forma di asservimento e come strategie la capacità, da una parte, di controbilanciare il potere dei proprietari (dei mezzi di produzione) nella società e, dall’altra, di accelerare il progresso civile ed economico qualificando le forze che lo sostengono.

La mera resistenza alle condizioni di sfruttamento - che sembrano persino peggiorare per avventura storica dell’ultimo quarto di secolo del corrente millennio - appare pertanto insufficiente a conseguire risultati di rilievo, non solo per le ragioni esposte in precedenza, ma anche sotto quest’aspetto: una strategia di mera resistenza non può che fallire perché l’aspetto fondamentale della lotta politica discende dal saper indicare come gestire e indirizzare i grandi cambiamenti in corso con l’evoluzione possibile e reale delle cose.

Occorre, pertanto, una strategia che punti a costruire, all’interno del sistema, forti elementi di controbilanciamento allo strapotere delle forze economiche che minacciano il progresso civile.

Certamente distinguere all’interno degli aspetti del cambiamento, ad esempio all’interno dello stesso progresso tecnologico (si pensi soprattutto alle biotecnologie), per qualificare il progresso, non è una cosa facile; ma, forse, favorire od impedire le potenzialità delle tecniche in funzione della loro capacità di migliorare le condizioni di vita delle persone (senza compromettere oggi le risorse di domani) costituisce il principale terreno di riflessione per la politica e per l’etica.

 

6. I cambiamenti

nella domanda di lavoro

 

L’ultima rilevazione trimestrale delle forze di lavoro (ISTAT, ottobre 1998) ha evidenziato un incremento degli occupati precari, a tempo parziale e temporanei, di 320.000 unità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Siccome l’incremento, nei dodici mesi, di coloro che si sono dichiarati occupati è stato pari a 183.000 unità, la differenza tra i due aggregati dimostra la drammaticità del cambiamento, in corso da quasi un ventennio, non ancora terminato e, forse, in via di accelerazione. In tutto il mondo industrializzato e, infatti, anche in Italia, milioni di lavoratori, con contratti a tempo pieno e indeterminato, si sono visti sostituire da un numero maggiore di lavoratori precari, ma con paghe orarie più basse; la differenza tra i due aggregati, nella media degli ultimi 15 anni - sempre limitandosi ad osservare quanto accade nei principali paesi industrializzati - ha fornito una cifra più piccola dell’incremento annuale medio dell’offerta di lavoro, sicché la disoccupazione è aumentata.

Ciò è avvenuto con qualche eccezione, determinata più da un fatto manipolativo delle statistiche che non reale. Gran Bretagna, Stati uniti e Olanda - ad esempio - hanno visto un incremento del numero dei lavoratori assunti a part-time, temporanei e, in genere, precari, maggiore dell’incremento nel numero di coloro che si sono dichiarati disoccupati. Tuttavia se si considerasse il “monte ore” all’inizio del processo e quello alla fine, ci si renderebbe conto che la disoccupazione non è diminuita nemmeno in questi paesi; occorre poi aggiungere che il “monte-salari” si è ridotto molto di più (per effetto dello scadimento nella domanda di lavoro e, quindi, nelle retribuzioni), mentre i profitti sono aumentati in proporzione, ma anche maggiormente (segno che i guadagni di produttività hanno consentito una intensa concentrazione della ricchezza e non l’adeguamento della dinamica dello sviluppo economico alle esigenze della popolazione).

La precarizzazione della forza lavoro nei paesi industrializzati ha seguito vie e modalità diverse.

In Olanda, Gran Bretagna e Stati Uniti è stata contrabbandata come via per combattere la disoccupazione di massa ed è entrata in modo ufficiale e coercitivo nelle politiche economiche di quei paesi.

In Francia, Spagna e, soprattutto, Italia la trasformazione del lavoro a tempo pieno in lavoro a “part-time” è stata sopravanzata dallo sviluppo di contratti formalmente regolari, ma sostanzialmente irregolari: lavoratori di fatto dipendenti, ma con partita IVA e apparentemente indipendenti o autonomi; contratti di consulenza che mascherano situazioni che potrebbero essere definite, nella maggior parte dei casi, cottimo di servizi. Fino ad arrivare al noto fenomeno del lavoro propriamente irregolare o in nero o sommerso che riguarda, solo in Italia, non meno di 3,5 milioni di persone; senza contare i doppi e tripli lavori che portano, secondo l’ISTAT, il totale delle varie forme di irregolarità verso una cifra di quasi 11 milioni di casi.

I doppi e tripli lavori, ovvero il fenomeno dei pensionati che continuano - a vario titolo - ad essere presenti nella produzione, appartengono tutti alla medesima dinamica economica che presenta almeno quattro sfaccettature:

a) l’esigenza del lavoratore e della sua famiglia di accrescere le proprie entrate per fronteggiare le necessità economiche corrispondenti - come minimo - al mantenimento di un determinato livello medio dei consumi;

b) la ricerca di autorealizzazione personale in cui rientra anche il lavoro gratuito o volontario che, a volte, nasconde forme di sfruttamento spesso giovanile o di ingresso in varie carriere (Università, associazioni sportive, mondo dello spettacolo, studi professionali di tutti i tipi);

c) l’aggiustamento rispetto alla insufficienza dei trattamenti pensionistici, da una parte, e alla loro eccessiva onerosità per le imprese, dall’altra; d) la strategia di precarizzazione della forza lavoro che non ha, come unico o, forse, principale obiettivo quello di ridurre il costo del lavoro regolare.

In questa sede ci si sta occupando solo dell’ultimo aspetto sebbene giovi, forse, sottolineare, che la contribuzione previdenziale, in quanto reddito differito (e/o redistribuito a seconda dei sistemi pensionistici) ha a che vedere - e rientra perfettamente - nel ragionamento sulla domanda effettiva e sulla capacità di acquisto della popolazione come riferimento principale delle imprese che debbono stabilire i volumi produttivi e, quindi, i livelli occupazionali (dai quali, a loro volta, dipendono la domanda di prodotti e, quindi, gli investimenti non meramente finanziari delle imprese).

Ma siccome l’obiettivo della precarizzazione non è sicuramente e unicamente solo legato alla componente indiretta del costo del lavoro (che dal punto di osservazione del presente ragionamento non deve essere distinto dal salario immediatamente percepito), forse un tentativo di approfondimento delle tendenze sottostanti la precarizzazione stessa può risultare utile per comprendere meglio le strategie delle imprese nella loro connotazione politica generale.

Si prendano, ad esempio, gli ultimi dati disponibili.

In un anno si sono dichiarati occupati 183.000 individui in più: questi “occupati in complesso” possono essere, ad esempio, persone che si erano dichiarate disoccupate nell’indagine dell’anno precedente e che adesso hanno accettato un impiego a tempo determinato per 2 ore al giorno.

Infatti, questi 183 mila occupati in più andrebbero messi in correlazione con le 198 mila donne che si sono dichiarate occupate nell’ultima rilevazione; i maschi hanno perso 15 mila posti “nel complesso”. Questa perdita, ad esempio, ha riguardato, nel Mezzogiorno, ben 71 mila contratti di lavoro a tempo indeterminato, mentre 44 mila maschi in più (sempre in un anno) hanno trovato un impiego temporaneo. Non si sa con certezza di questi 71.000 occupati a tempo indeterminato che hanno perso il lavoro in un anno quanti si siano visti costretti ad accettarne uno temporaneo o a “part-time”, quanti siano andati a compattare le schiere dei disoccupati, quanti abbiano accettato un lavoro in nero o come consulenti, quanti si siano accontentati della doppia assunzione - pur sempre come temporanei - della moglie e di un figlio o di una figlia, quanti abbiano avuto accesso ai meccanismi cosiddetti di ammortizzazione sociale a carico dello Stato.

Anche il numero delle 198 mila donne (in più, sempre in un anno) che si sono dichiarate occupate, viene superato dalla sommatoria delle 139 mila che hanno avuto accesso ad un impiego a “part-time” e delle 96 mila che hanno ottenuto un impiego temporaneo. Questi dati potrebbero segnalare che le imprese si disfano dei lavoratori (e delle lavoratrici) più anziani (che significa ultraquarantenni, creando problemi sociali e previdenziali di non facile soluzione), assumendo un numero maggiore (a part-time e con minore capacità lavorativa, ma pagati molto meno) di giovani che sono in prevalenza donne poiché queste ultime si adattano meglio al lavoro così selvaggiamente flessibilizzato.

Tutto ciò non sempre è sufficiente per stabilire qual è la strategia del mondo imprenditivo rispetto alla gestione della forza lavoro, ma qualche idea è, forse, possibile già farsela. Molti casi concreti, d’altra parte, testimoniano circa le tendenze che si stanno cercando di ricavare a livello più o meno macroeconomico: a parità di produzione, ci sarà un aumento moderato dell’occupazione complessiva dietro il quale si nasconde un calo dell’occupazione a tempo pieno e indeterminato e un più forte aumento di quella precaria e, in genere, sottopagata.

I risultati di tali dinamiche nel mercato del lavoro sono facilmente intuibili:

1) forte divisione all’interno della forza lavoro;

2) insostenibilità del vecchio modello di garanzie per gli occupati;

3) aumento dei profitti a fronte di una flessione media non solo delle retribuzioni - ovviamente qui non si sta parlando di quelle contrattuali sindacali che stanno divenendo minoritarie - ma anche o soprattutto delle qualificazioni professionali;

4) deficit previdenziale se non si arriva ad un nuovo modello di obbligatorietà dei versamenti legato al riscontro dell’oggettiva esistenza di un’integrazione del lavoratore - non importa con quale tipo di contratto o senza contratto - nel processo produttivo (ciò richiede, almeno, di spostare il momento della globalizzazione e della concorrenza dal livello nazionale a quello intercontinentale con un serio accordo all’interno dell’Unione Europea allargata, dal lato terrestre, il più possibile ad Est e, dal lato marittimo, verso i paesi delle rive Sud ed Est del Mediterraneo).

La politica economica, pertanto, dovrebbe cercare di affrontare tali problemi e di concentrare l’attenzione dei cosiddetti accordi tra le parti sociali in modo che la “concertazione” serva a trovare soluzioni, rimedi, al limite compromessi, e non, semplicemente, a legittimare le dinamiche - più o meno delocalizzate - dello stato di cose esistente.-----

Non è nell’interesse della stragrande maggioranza della popolazione, infatti, che la qualificazione della forza lavoro si depauperi per il mero obiettivo di una momentanea e anomala crescita dei profitti. Né la formazione professionale, “occupazionale” e “mirata”, sarebbe sufficiente da sola senza essere accompagnata dalla precisa volontà politica di dare stabilità (invece che incertezza) alle prospettive dei giovani; non è ragionevole, infatti, pensare che un giovane accetti continui supplementi di formazione obbligatoria o semi-obbligatoria solo per incontrare un impiego che, verosimilmente, non gli consentirà di costruirsi una famiglia che possa vivere al di sopra della soglia della povertà.

Certo, la formazione obbligatoria o semi-obbligatoria può essere appetibile oltre che per i formatori anche nella prospettiva di un qualche reddito e di un qualche implemento del curriculum; però le condizioni del mercato del lavoro possono venire influenzate da scelte della politica che contribuiscano a rafforzare e non a indebolire le prospettive di un adeguato inserimento da parte dei giovani o di re-inserimento da parte dei meno giovani.

A questo proposito, ovviamente, occorre distinguere tra l’aspettativa di un “posto” a prescindere dal senso produttivo dell’attività svolta e il proposito di riportare indietro le condizioni di dipendenza (dalle necessità economiche, da chi governa, da chi può decidere) che hanno caratterizzato l’involuzione politico-economica degli ultimi tempi.

Diversamente, la società finisce per frammentarsi in una miriade di pezzi corrispondenti a piccoli “regni” autonomi tra di loro (o relativamente autonomi) con un padrone, il suo piccolo esercito, i suoi schiavi. Certamente occorre che i giovani accettino che ciascuna attività, per esser definita lavoro, deve risultare produttiva e rispondere ad un bisogno, ad un’esigenza sociale; il lavoro, di per sé, è una necessità a cui corrisponde un valore, ma è conseguenza e non presupposto di un bisogno o, meglio, della soddisfazione di un bisogno. E siccome tutti non possono fare le stesse cose perché è più ragionevole dividersi il lavoro (anche in base alle proprie inclinazioni e capacità) in vista della soddisfazione dei bisogni di tutti, allora il lavoro ha anche un significato o valore generale/collettivo che è misurato dalla sua efficacia complessiva (appunto a soddisfare le esigenze della società di cui i lavoratori stessi sono parte integrante).

Di qui il giudizio su come vanno le cose: aumenta o si riduce la soddisfazione dei bisogni? Se aumenta e, per caso, si riduce l’occupazione, allora vorrebbe dire che il lavoro non è ben distribuito; ma se accade il contrario, come sembra concretamente succedere nelle nostre società (la soddisfazione diminuisce e l’occupazione non raggiunge il livello corrispondente, date le tecniche e l’organizzazione, alla produzione di tanti beni e servizi quanti ne servirebbero per tale soddisfazione), allora vuol dire che c’è qualcosa che non funziona.

 

7. Oltre la mera resistenza, senza resa

 

Probabilmente l’errore delle classi dirigenti - compresi i sindacati - è stato quello di credere (o di far finta di credere) alla praticabilità dello scambio tra flessibilità e occupazione.

Questo scambio, infatti, ha funzionato, ma in modo perverso, come s’è visto: l’aumento (o il contenimento del calo) del numero degli occupati ha corrisposto a netti peggioramenti salariali, contributivi, assicurativi e normativi per i nuovi assunti e per gran parte dei lavoratori. L’occupazione non è aumentata per effetto della flessibilità; inoltre l’aumento dei profitti che ha accompagnato la flessibilità ha ridotto non solo la quantità di valore aggiunto destinato ai lavoratori, ma anche il potenziale sviluppo che si sarebbe avuto con una diversa dinamica salariale pur nei limiti dei guadagni di produttività.

Se, infatti, lo scambio fosse avvenuto tra flessibilità e moneta (nei limiti dei guadagni di produttività se non si voleva stimolare l’inflazione), allora i profitti correnti sarebbero stati ridotti, ma l’aumento della domanda interna avrebbe fatto crescere l’attesa di profitti successivi e ciò avrebbe stimolato gli investimenti produttivi che avrebbero rafforzato il trend della domanda ed anche il valore aggiunto e il trend dello sviluppo sarebbero stati maggiori.

Se i sindacati e le classi dirigenti avessero scelto questo tipo di scambio, dappertutto sarebbe stato così e le condizioni della concorrenza (globalizzazione) sarebbero state rispettate.

Ovviamente, sarebbe stato pur sempre possibile che qualcuno avesse cercato di forzare il gioco nel senso del contenimento salariale per ottenere di migliorare la propria condizione competitiva; ma ciò è potuto avvenire e avviene anche nel contesto di scambio fra flessibilità e occupazione che sconta i bassi salari perché la precarizzazione della forza lavoro (uso improprio dei contratti di consulenza e delle partiteIVA, lavoro irregolare, lavoro sommerso) non ha, comunque, limiti precisi. Lo scambio tra flessibilità e moneta - al contrario di quanto è avvenuto tra l’inizio della rivoluzione industriale e gli anni ’70 del nostro secolo - richiede e comporta la ricomposizione della classe lavoratrice, laddove lo scambio tra flessibilità e occupazione la ha ulteriormente divisa (di più di quello che non fosse implicito nell’ordine delle cose).

Di qui due possibilità per il movimento operaio:

1) richiedere un cambiamento nella disciplina del lavoro dipendente che tenga solo conto delle condizioni oggettive (integrazione nel ciclo produttivo) e non dell’opzione contrattuale che è falsata dai rapporti di forza individuali (sempre più sbilanciati a sfavore del lavoro); 2) ottenere il cambiamento nell’oggetto dello scambio, vale dire accettando non più la promessa dell’occupazione contro la flessibilità, ma la certezza di aumenti salariali che portino la classe lavoratrice a trovare significativi momenti di convergenza e coagulo. Oppure un po’ di tutt’e due le cose.

Oggi, infatti, esistono spaccature evidenti e di difficile riassorbimento all’interno delle categorie di occupati tra gli stabili e i precari; ma esiste anche una spaccatura più pericolosa tra i lavoratori che, pur essendo precari, risultano tuttavia all’interno del sistema e quelli che ne sono fuori, come i disoccupati veri e propri (privi di ammortizzatori sociali) e i lavoratori che non raggiungono quel minimo che consente di fuoriuscire dalle secche della povertà. Tra le due categorie, inoltre, si va sempre più ingrossando quella che si potrebbe chiamare della “semi-emarginazione”, vale a dire delle famiglie che passano alcuni mesi all’anno nell’ambito della povertà ed altri periodi lievemente al di sopra di tale soglia. Ma crescono anche il timore e la sensazione di cadere da un momento all’altro nella condizione peggiore senza sapere quanto durerà.

Tale situazione, estremamente pericolosa politicamente, perché facilmente strumentalizzabile in un’alleanza - certamente né nuova, né originale - tra emarginazione, semi-emarginazione e “poteri forti”, può venir affrontata solo individuando la giusta miscela di stabilizzazione dei rapporti di lavoro e di scambio fra flessibilità e moneta.

Negli ultimi 25 anni circa, la sinistra si è divisa tra coloro che, pur difendendo valori e princìpi propri della democrazia, tuttavia si sono limitati ad osservare e lasciar passare il carro della storia ritenendo
 non del tutto a torto - che tale carro non potesse venir fermato; e coloro che hanno pensato di opporsi al corso della storia, spesso con una notevole dose di velleitarismo.

In realtà, compito della sinistra non dovrebbe essere né quello di opporsi, né quello di lasciar fare, ma di salire sul carro della storia per governarlo, per cercare di imprimergli una direzione adeguata.

La partita, centrale e determinante, della flessibilità, quindi, richiede non una opposizione cieca che riproporrebbe velleitariamente rigidità nei processi produttivi che oramai la storia ha definitivamente superate; ma di separare ciò che serve veramente all’impresa (che dovrebbe risultare oggetto di scambio, ma fra cose certe) da ciò che serve alla proprietà e alle classi dirigenti per mantenere e rafforzare profitti e potere a scapito dello sviluppo e degli equilibri generali.

Qualificazione professionale, formazione, ricerca scientifica e tecnologica, progresso civile, solidità istituzionale, mercati che funzionano, sicurezza per i cittadini, certezze per i giovani, equilibri finanziari degli assetti pensionistici, richiedono stabilità e chiarezza nei rapporti di lavoro e aumenti della sua remunerazione nei limiti dei guadagni di produttività determinati dai miglioramenti nella organizzazione della produzione.

Anche lo stesso obiettivo delle 35 ore dovrebbe venir rivisitato alla luce di quanto esposto: esso non è un obiettivo di avanguardia, un punto di arrivo, ma semmai un punto di partenza per forzare il sistema, per sfidarlo ad essere più efficiente.

Esso ha avuto, in Italia, il merito di sbloccare la logica di una politica prona all’economia; ma, se fosse considerato un traguardo, finirebbe per evidenziarsi come una trappola autolimitativa.

Il movimento dei lavoratori, di tutti i lavoratori, vale a dire dei produttori, può guardare molto più avanti, mettendo insieme ciò che serve ad apportare miglioramenti e benessere alla maggior parte della popolazione e relegando al museo della storia - pur con i dovuti onori - i vecchi programmi di resistenza, oramai travolti dall’evoluzione degli avvenimenti.