Spartizione del valore aggiunto e precarizzazione dell’occupazione
Nicola Galloni
Una riduzione della quantità di lavoro per unità di
prodotto comporta un aumento di prodotto per unità di lavoro; come dire che
aumenta il valore del lavoro sociale e, se non aumenta anche il suo costo/prezzo
in proporzione, si determina lo squilibrio che, prima, produce
più profitti e dopo meno investimenti, meno domanda effettiva, meno
occupazione. Di quanto la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto
non si riflette in un aumento proporzionale di costo/prezzo assoluto del lavoro,
di tanto si sono poste le basi dello squilibrio.
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Insomma, ci sono forze alle quali è giusto opporsi perché
il loro ruolo contrasta con gli obiettivi di riequilibrio e giustizia sociale;
ci sono forze, invece, la cui regolazione è possibile per raggiungere tali
obiettivi. Distinguere tra le due situazioni è compito della politica e dell’etica.
Tutto il progresso scientifico e tecnologico dei due secoli
passati ha consentito di minimizzare la quantità di lavoro per unità di
prodotto. Ciò non solo ha reso accessibili alla maggioranza della popolazione i
beni che hanno consentito a centinaia di milioni di individui di liberarsi dallo
stato di necessità; non solo ha reso meno scarsa, a parità di prodotto, le
disponibilità di forza lavoro qualificata (senza la quale non sarebbe possibile
produrre una massa crescente e imponente di beni e servizi di comune e generale
utilità); ma soprattutto ha massimizzato la quantità di prodotto per unità di
lavoro.
Quest’ultimo fenomeno fa crescere il valore del
lavoro, mentre i modi di organizzazione dell’economia richiedono che il lavoro
perda di valore per mandare ai profitti la maggior parte del nuovo
prodotto al netto dei costi intermedi ovvero per ridurre questi ultimi, spingere
verso il basso i prezzi e far crescere, a parità del resto, il valore della
moneta.
Il progresso tecnologico fa crescere il prodotto per unità
di lavoro, ma l’obiettivo di valorizzazione della moneta fa sì che il
processo economico si legga al contrario: il costo del lavoro per unità di
prodotto si minimizza; e siccome il costo (del lavoro) è un modo per
tradurre il valore in termini monetari, ecco che il supremo obiettivo sociale
diviene quello di pagare meno il fattore umano produttivo.
La mistificazione è talmente completa che non solo i modi di
far crescere i profitti (anche, come si è visto, a scapito della produzione e
dell’occupazione) vengono considerati sociali, ma che il motore dello sviluppo
(nel discorso che si sta cercando di fare, il progresso tecnologico) viene
chiamato sul banco degli imputati da coloro che si oppongono alla esistenza o
alla crescita delle grandi diseguaglianze tra gli esseri umani.
Cercare di mettere ordine in questa materia corrisponde a
mettere le basi di un serio programma politico di cambiamento sociale che abbia
come obiettivo la liberazione dell’uomo da ogni forma di asservimento e come
strategie la capacità, da una parte, di controbilanciare il potere dei
proprietari (dei mezzi di produzione) nella società e, dall’altra, di
accelerare il progresso civile ed economico qualificando le forze che lo
sostengono.
La mera resistenza alle condizioni di sfruttamento - che
sembrano persino peggiorare per avventura storica dell’ultimo quarto di secolo
del corrente millennio - appare pertanto insufficiente a conseguire risultati di
rilievo, non solo per le ragioni esposte in precedenza, ma anche sotto quest’aspetto:
una strategia di mera resistenza non può che fallire perché l’aspetto
fondamentale della lotta politica discende dal saper indicare come gestire e
indirizzare i grandi cambiamenti in corso con l’evoluzione possibile e reale
delle cose.
Occorre, pertanto, una strategia che punti a costruire, all’interno
del sistema, forti elementi di controbilanciamento allo strapotere delle forze
economiche che minacciano il progresso civile.
Certamente distinguere all’interno degli aspetti del
cambiamento, ad esempio all’interno dello stesso progresso tecnologico (si
pensi soprattutto alle biotecnologie), per qualificare il progresso, non è una
cosa facile; ma, forse, favorire od impedire le potenzialità delle tecniche in
funzione della loro capacità di migliorare le condizioni di vita delle persone
(senza compromettere oggi le risorse di domani) costituisce il principale
terreno di riflessione per la politica e per l’etica.
6. I cambiamenti
nella domanda di lavoro
L’ultima rilevazione trimestrale delle forze di lavoro
(ISTAT, ottobre 1998) ha evidenziato un incremento degli occupati precari, a
tempo parziale e temporanei, di 320.000 unità rispetto allo stesso periodo dell’anno
precedente.
Siccome l’incremento, nei dodici mesi, di coloro che si
sono dichiarati occupati è stato pari a 183.000 unità, la differenza tra i due
aggregati dimostra la drammaticità del cambiamento, in corso da quasi un
ventennio, non ancora terminato e, forse, in via di accelerazione. In tutto il
mondo industrializzato e, infatti, anche in Italia, milioni di lavoratori, con
contratti a tempo pieno e indeterminato, si sono visti sostituire da un numero
maggiore di lavoratori precari, ma con paghe orarie più basse; la differenza
tra i due aggregati, nella media degli ultimi 15 anni - sempre limitandosi ad
osservare quanto accade nei principali paesi industrializzati - ha fornito una
cifra più piccola dell’incremento annuale medio dell’offerta di lavoro,
sicché la disoccupazione è aumentata.
Ciò è avvenuto con qualche eccezione, determinata più da
un fatto manipolativo delle statistiche che non reale. Gran Bretagna, Stati
uniti e Olanda - ad esempio - hanno visto un incremento del numero dei
lavoratori assunti a part-time, temporanei e, in genere, precari, maggiore dell’incremento
nel numero di coloro che si sono dichiarati disoccupati. Tuttavia se si
considerasse il “monte ore” all’inizio del processo e quello alla fine, ci
si renderebbe conto che la disoccupazione non è diminuita nemmeno in questi
paesi; occorre poi aggiungere che il “monte-salari” si è ridotto molto di
più (per effetto dello scadimento nella domanda di lavoro e, quindi, nelle
retribuzioni), mentre i profitti sono aumentati in proporzione, ma anche
maggiormente (segno che i guadagni di produttività hanno consentito una intensa
concentrazione della ricchezza e non l’adeguamento della dinamica dello
sviluppo economico alle esigenze della popolazione).
La precarizzazione della forza lavoro nei paesi
industrializzati ha seguito vie e modalità diverse.
In Olanda, Gran Bretagna e Stati Uniti è stata
contrabbandata come via per combattere la disoccupazione di massa ed è entrata
in modo ufficiale e coercitivo nelle politiche economiche di quei paesi.
In Francia, Spagna e, soprattutto, Italia la trasformazione
del lavoro a tempo pieno in lavoro a “part-time” è stata sopravanzata dallo
sviluppo di contratti formalmente regolari, ma sostanzialmente irregolari:
lavoratori di fatto dipendenti, ma con partita IVA e apparentemente indipendenti
o autonomi; contratti di consulenza che mascherano situazioni che potrebbero
essere definite, nella maggior parte dei casi, cottimo di servizi. Fino ad
arrivare al noto fenomeno del lavoro propriamente irregolare o in nero o
sommerso che riguarda, solo in Italia, non meno di 3,5 milioni di persone; senza
contare i doppi e tripli lavori che portano, secondo l’ISTAT, il totale delle
varie forme di irregolarità verso una cifra di quasi 11 milioni di casi.
I doppi e tripli lavori, ovvero il fenomeno dei pensionati
che continuano - a vario titolo - ad essere presenti nella produzione,
appartengono tutti alla medesima dinamica economica che presenta almeno quattro
sfaccettature:
a) l’esigenza del lavoratore e della sua famiglia di
accrescere le proprie entrate per fronteggiare le necessità economiche
corrispondenti - come minimo - al mantenimento di un determinato livello medio
dei consumi;
b) la ricerca di autorealizzazione personale in cui rientra
anche il lavoro gratuito o volontario che, a volte, nasconde forme di
sfruttamento spesso giovanile o di ingresso in varie carriere (Università,
associazioni sportive, mondo dello spettacolo, studi professionali di tutti i
tipi);
c) l’aggiustamento rispetto alla insufficienza dei
trattamenti pensionistici, da una parte, e alla loro eccessiva onerosità per
le imprese, dall’altra; d) la strategia di precarizzazione della forza
lavoro che non ha, come unico o, forse, principale obiettivo quello di ridurre
il costo del lavoro regolare.
In questa sede ci si sta occupando solo dell’ultimo aspetto
sebbene giovi, forse, sottolineare, che la contribuzione previdenziale, in
quanto reddito differito (e/o redistribuito a seconda dei sistemi pensionistici)
ha a che vedere - e rientra perfettamente - nel ragionamento sulla domanda
effettiva e sulla capacità di acquisto della popolazione come riferimento
principale delle imprese che debbono stabilire i volumi produttivi e, quindi, i
livelli occupazionali (dai quali, a loro volta, dipendono la domanda di prodotti
e, quindi, gli investimenti non meramente finanziari delle imprese).
Ma siccome l’obiettivo della precarizzazione non è
sicuramente e unicamente solo legato alla componente indiretta del costo del
lavoro (che dal punto di osservazione del presente ragionamento non deve essere
distinto dal salario immediatamente percepito), forse un tentativo di
approfondimento delle tendenze sottostanti la precarizzazione stessa può
risultare utile per comprendere meglio le strategie delle imprese nella loro
connotazione politica generale.
Si prendano, ad esempio, gli ultimi dati disponibili.
In un anno si sono dichiarati occupati 183.000 individui in
più: questi “occupati in complesso” possono essere, ad esempio, persone che
si erano dichiarate disoccupate nell’indagine dell’anno precedente e che
adesso hanno accettato un impiego a tempo determinato per 2 ore al giorno.
Infatti, questi 183 mila occupati in più andrebbero messi in
correlazione con le 198 mila donne che si sono dichiarate occupate nell’ultima
rilevazione; i maschi hanno perso 15 mila posti “nel complesso”. Questa
perdita, ad esempio, ha riguardato, nel Mezzogiorno, ben 71 mila contratti di
lavoro a tempo indeterminato, mentre 44 mila maschi in più (sempre in un anno)
hanno trovato un impiego temporaneo. Non si sa con certezza di questi 71.000
occupati a tempo indeterminato che hanno perso il lavoro in un anno quanti si
siano visti costretti ad accettarne uno temporaneo o a “part-time”, quanti
siano andati a compattare le schiere dei disoccupati, quanti abbiano accettato
un lavoro in nero o come consulenti, quanti si siano accontentati della doppia
assunzione - pur sempre come temporanei - della moglie e di un figlio o di una
figlia, quanti abbiano avuto accesso ai meccanismi cosiddetti di ammortizzazione
sociale a carico dello Stato.
Anche il numero delle 198 mila donne (in più, sempre in un
anno) che si sono dichiarate occupate, viene superato dalla sommatoria delle 139
mila che hanno avuto accesso ad un impiego a “part-time” e delle 96 mila che
hanno ottenuto un impiego temporaneo. Questi dati potrebbero segnalare che le
imprese si disfano dei lavoratori (e delle lavoratrici) più anziani (che
significa ultraquarantenni, creando problemi sociali e previdenziali di non
facile soluzione), assumendo un numero maggiore (a part-time e con minore
capacità lavorativa, ma pagati molto meno) di giovani che sono in prevalenza
donne poiché queste ultime si adattano meglio al lavoro così selvaggiamente
flessibilizzato.
Tutto ciò non sempre è sufficiente per stabilire qual è la
strategia del mondo imprenditivo rispetto alla gestione della forza lavoro, ma
qualche idea è, forse, possibile già farsela. Molti casi concreti, d’altra
parte, testimoniano circa le tendenze che si stanno cercando di ricavare a
livello più o meno macroeconomico: a parità di produzione, ci sarà un aumento
moderato dell’occupazione complessiva dietro il quale si nasconde un calo dell’occupazione
a tempo pieno e indeterminato e un più forte aumento di quella precaria e, in
genere, sottopagata.
I risultati di tali dinamiche nel mercato del lavoro sono
facilmente intuibili:
1) forte divisione all’interno della forza lavoro;
2) insostenibilità del vecchio modello di garanzie per gli
occupati;
3) aumento dei profitti a fronte di una flessione media non
solo delle retribuzioni - ovviamente qui non si sta parlando di quelle
contrattuali sindacali che stanno divenendo minoritarie - ma anche o
soprattutto delle qualificazioni professionali;
4) deficit previdenziale se non si arriva ad un nuovo
modello di obbligatorietà dei versamenti legato al riscontro dell’oggettiva
esistenza di un’integrazione del lavoratore - non importa con quale tipo di
contratto o senza contratto - nel processo produttivo (ciò richiede, almeno,
di spostare il momento della globalizzazione e della concorrenza dal livello
nazionale a quello intercontinentale con un serio accordo all’interno dell’Unione
Europea allargata, dal lato terrestre, il più possibile ad Est e, dal lato
marittimo, verso i paesi delle rive Sud ed Est del Mediterraneo).
La politica economica, pertanto, dovrebbe cercare di
affrontare tali problemi e di concentrare l’attenzione dei cosiddetti accordi
tra le parti sociali in modo che la “concertazione” serva a trovare
soluzioni, rimedi, al limite compromessi, e non, semplicemente, a legittimare le
dinamiche - più o meno delocalizzate - dello stato di cose esistente.