1. Introduzione
Credetemi, solamente un senso di impellente necessità mi fa
tentare, in una volta sola, di dare una caratterizzazione al contesto lavorativo
cubano, o per meglio dire, un primo approccio dei tratti e delle contraddizioni
che denotano il contenuto dei processi sociali nella sfera lavorativa cubana in
questo momento di cambiamenti cruciali per le imprese e per i lavoratori del
nostro paese.
Noi sociologi ci siamo convertiti, in questo secolo che se ne
va, (il nostro primo e forse unico secolo come corpo docente), in una sorta di
cronisti del presente dinamico, narratori improvvisati dei cento anni più
veloci e pieni di avvenimenti dell’avvenire umano. Svolgiamo una mansione
terribile anche se appassionante, e sebbene talvolta raggiungiamo, come avrebbe
detto Bloch “... una fibra profonda ...”, altre volte -e seguito con Bloch
“... per un uomo niente è più difficile che esprimere un giudizio su se
stesso.” (__, 1971).
Quando noi cubani diamo un giudizio su noi stessi lo facciamo
con un bagaglio di quattro decenni di impetuose e attive trasformazioni, che
sicuramente non passeranno inavvertite in qualunque Storia dell’America Latina
nella seconda metà del secolo XX. Corriamo i rischi inevitabili del
soggettivismo o la passione del protagonista che recita (e viceversa), soffriamo
la mancanza dei dati -o l’inesperienza nel trovarli- e inoltre, la dinamica di
fine secolo ci ha premiato con un ritmo in cui gli avvenimenti di domani possono
stravolgere le interpretazioni di oggi. Forse sta qui la nuda causa, sebbene non
giustificata, della scarsità di sistematizzazione e della teoria nella sì
abbondante produzione sociologica cubana.
Cosa voglio di più se non correre il rischio di tentarlo qui
nell’ambito che concerne il mondo del lavoro! Purtroppo ci mancano alcuni
elementi fondamentali e discussioni e interscambi inevitabili. Comunque sia, è
giusto che lo facciamo in quel piano dove possiamo avanzare, mi propongo questo:
dare la mia opinione sull’ottica di riferimento che circonda la messa in
pratica del Perfezionamento d’Impresa nella realtà cubana, dare elementi
utili per un dibattito più che necessario, nel contesto in cui si produce
questa formidabile trasformazione e le provocazioni che impone quello stesso
contesto al Perfezionamento. È qui che si radica la necessità impellente di
cui parlavo prima.
Succede inoltre che il Perfezionamento d’Impresa (PE),
espressione del desiderio attuale del socialismo cubano per il suo modello di
sviluppo economico, è anche ed inevitabilmente il terreno di nuove
configurazioni sociologiche e psicologiche che vengono a scontrarsi e a volte ne
sono il risultato di quello che è e sarà il lavoro a Cuba, ma è anche l’arena
del confronto politico sul tema del modello della società che viene sostenuto e
del modello di uomo e donna lavoratori che viene rinforzato. È questo inoltre,
il dibattito culturale che interessa l’identità come una daga e porta alla
luce ciò che siamo e pretendiamo essere: la nostra cultura del lavoro. In fin
dei conti l’essere umano è, su tutte le cose, ciò che fa, ciò che lascia di
sé per gli altri... è un animale culturale.
Come si vede, sto partendo da una definizione ampia di
cultura [1] e, non
solo incorporando il lavoro in essa, ma assumendo quella stessa visione nel
contesto specifico dell’attività lavorativa per concepire ciò che possiamo
comprendere come nostra cultura del lavoro.
Il mio testo cercherà di rispondere, anche se solo
parzialmente, alla domanda: come si influenzeranno reciprocamente la cultura del
lavoro che scaturisce dall’attuale contesto lavorativo del nostro paese e il
processo di Perfezionamento d’Impresa in cui si vanno inserendo le imprese
cubane?
Tale risposta verrà movimentata dalle idee che siamo andati
formando nel nostro gruppo di lavoro sul PE al tepore dell’esperienza di quasi
15 anni di stretto vincolo con il mezzo lavorativo. Non voglio con questo dare
la responsabilità anche al resto dei miei compagni [2]
con le mie opinioni, ma riconoscere loro il ruolo di co-autori nella visione che
trasmetto sul lavoro a Cuba e partendo dalla quale ho formato le mie deduzioni.
Per ultimo una premessa: ho concepito il testo come una
presentazione delle tesi di base per una seguente discussione; cercherò perciò
di essere parsimonioso nelle argomentazioni.
2. Chi siamo nel lavoro? Il contesto lavorativo cubano di fine secolo e
gli impatti sulla cultura del lavoro
Per comprendere ciò che succede a Cuba nella sfera del
lavoro bisogna considerare per lo meno l’evoluzione o l’emergenza, a seconda
dei casi, di tre processi basici:
a) Il riorientamento degli spazi di inserimento dell’economia cubana e la
dinamica negli anni ’90.
b) Il riaggiustamento della strategia di sviluppo e la
multispazialità economica risultante.
c) La configurazione in movimento di una nuova soggettività
lavorativa.
Medio evo della globalizzazione
Malgrado Internet continuo a credere che l’avvenimento
globalizzatore di più forte impatto di quest’epoca è ancora la conquista
dell’America. Curiosamente il primo “paese” -se ci è permessa questa
licenza geostorica- che ha conosciuto Colombo è stata Cuba, luogo che ha
mantenuto come un’ammonizione il suo nome aborigeno malgrado diversi battesimi
e confusioni. Così il mondo ha conosciuto Cuba: proprio quando hanno iniziato a
“globalizzarci”
La continuità di quel processo ha avuto, comunque, il suo
periodo più trascendentale dopo un po’ di tempo, tra il XVIII e il XIX
secolo, con il modello di sviluppo dipendente che aveva attuato la “burocrazia”
creola come un progetto autonomo -sebbene non nazionale- della borghesia
schiavista, che, parallelamente al suo processo di autoconformazione classista
aveva saputo comprare la burocrazia spagnola e riuscì ad inserire l’economia
del paese sul mercato mondiale capitalista che andava già guadagnando quel
carattere, secondo Manuel Moreno Fraginals “... la crescita dello
zuccherificio coloniale cubano non ha avuto la sua origine nella metropoli, ma
venne effettuata a causa di questa [...] nasce nelle viscere cubane...”
(Moreno 1978).
Lo zucchero è stato, a partire da lì e fino a poco fa, il
veicolo di inserimento fondamentale, solamente nell’epoca attuale il suo
primato sarebbe venuto ad indebolirsi a causa del turismo, che si è convertito
nell’elemento che può ridare vigore all’economia cubana e nella fonte di
finanziamento per nuovi e vari investimenti, con la fortunata compagnia di un
importante accumulo di capitale umano [3].
L’inserimento neocoloniale, sebbene imposto dagli USA, è
stato anche co-auspicato dalla borghesia nativa ex schiavista, la quale dalla
sua formazione esisteva a causa e per la dipendenza. La rottura rivoluzionaria
con quel modello di inserimento polarizzatore della ricchezza e inginocchiato in
materia di sovranità ha implicato un importante riaggiustamento: l’iscrizione
in un processo globalizzatore alternativo a quello del capitalismo, quello del
sistema socialista che era scaturito dalla seconda guerra mondiale, dopo la
sconfitta del fascismo. L’alternativa eletta sorgeva dalla necessità di
orientare lo sviluppo verso gli interessi popolari e nazionali, sebbene ancora
non si disponesse di un veicolo diverso dallo zucchero.
Lo zucchero venne considerato allora “l’unico settore
economico capace di garantire il finanziamento esterno al paese”, mirando a
“eliminare le sproporzioni [...] e promuovere lo sviluppo industriale e
infrastrutturale”... (Rodriguez, 1984).
Ovviamente quel modello di inserimento si basava, primo sull’esistenza
e dopo sull’appartenenza a quel “Il mondo” con le sue strategie, alla
lunga frustrate, di globalizzazione solitaria. Allo sparire, Cuba ha visto
sfumare lo spazio dove concentrava l’85% dell’attività economica import ed
export e anche come venivano alla luce tutti i rischi della rotta eletta,
inevitabili oltre tutto, di fronte alla sempreterna guerra economica degli USA.
In pochi anni la nostra capacità di acquisto si è ridotta del 70% e il PIL
quasi del 35%.
Iniziamo a vivere, una volta ancora, la crisi del modello di
inserimento. Il coloniale aveva fallito per l’incompatibilità con il progetto
nazionale; non è una casualità che fosse anche questa la causa del fallimento
del modello di inserimento neocoloniale, posto che si differenziava appena dal
precedente nel suo orientamento classista e nel suo funzionamento (mono
esportatore, mono produttore). Ora scompariva il destino dell’inserimento
senza che nessuno avesse superato del tutto né la dipendenza né il
sottosviluppo. La differenza in quest’ultimo caso è che se prima il risultato
essenziale era stato uno “sviluppo del sottosviluppo” ora i progressi
materiali e spirituali raggiunti erano disposti nella forma di distribuzione
coscientemente orientata a beneficio della maggioranza e avevano rafforzato
sensibilmente il progetto di nazione cubana con un programma sociale che avrebbe
avuto un buon risultato e un processo di investimento in ambito materiale e in
ambito umano che definiva basi importanti per l’indipendenza economica. Ma
restava chiara l’insostenibilità dei modelli di inserimento dipendente e la
necessità di trovare strategie di più alta capacità di autoregolazione
mettendo in gioco le nostre nuove fortezze e ponendole di fronte alle nostre
vecchie debolezze.
Due argomenti cruciali, angustianti e difficili, hanno dovuto
intraprendere una feroce battaglia contro il tempo lungo questi anni ’90: una
trasformazione virtuosa della nostra cultura del lavoro e una resistenza
efficace all’ostilità imperialista degli USA.
Mi riferirò brevemente alla seconda; non si può ovviare ma
non è neanche il centro di attenzione di questo articolo, ciò che invece
accade con la prima, come si vedrà.
È risaputo che il riaggiustamento degli anni’90 è stato
attuato in speciali condizioni di guerra economica con la potenza trionfatrice
della “guerra fredda”, così il blocco, sempre dannoso, è stato rapidamente
rafforzato da nuove leggi imperialiste e si è sentito con tutto il suo rigore
di fronte all’assenza di passaggi alternativi. Ma c’è da dire che, stando
ai suoi impatti, il blocco è un nemico viscerale che ci ha sempre accompagnato
dall’esistenza stessa di progetti nazionali a Cuba e negli USA. Sono stati
blocchi anche le intenzioni nordamericane di comprare a Cuba dal secolo XVIII, l’atteggiamento
negativo yankies all’invasione liberatrice del Bolivar all’inizio del XIX
secolo, il suo intervento opportunista nella guerra d’indipendenza alla fine
proprio di questo secolo, il suo dominio neocoloniale col Trattato di
Reciprocità e intervento militare incluso in tutta la prima metà di questo
secolo, come anche lo sono e seguitano ad essere le sue azioni di genocidio
degli ultimi 40 anni. Hanno sempre bloccato il nostro inserimento indipendente
nel mondo.
Adesso, il blocco economico propriamente detto, con tutta la
sua attuale obsolescenza, ha posto la sua impronta indiscutibile con perdite di
migliaia di milioni di dollari in queste quattro decadi ed ha lasciato il segno
nella cultura del lavoro a Cuba, ha cioè mediato e ostruito il nostro accesso
alle nuove tecnologie, l’inserimento dell’esperienza di gestione occidentale
e l’internazionalizzazione di modelli di qualità, disegno e varietà dei
prodotti prevalentemente a livello internazionale. I vincoli con il campo
socialista non possono mai sostituire gli affari lavorativi con questi punti di
riferimento generali e questo impatto non è stato innocuo. Malgrado la sua
crudezza, il blocco ha iniziato a dare sintomi di sgretolamento, di fatto le
bugie sulla sua flessibilità sono indicatori di una scomposizione inevitabile
che non si è prodotta perché non c’è garanzia di sostituzione con un altro
meccanismo di pari letalità.
Il blocco verrà vinto, il tempo scorre in suo favore, ma non
si deciderà realmente tra di noi e avverrà, in ultima analisi, nell’area
lavorativa, ciò che ci riporta alla prima argomentazione di questi anni ’90.
Trasformare la nostra cultura del lavoro.
Devo riconoscere che identificarlo come preoccupazione
suprema di questi anni è un’interpretazione molto particolare dei processi
che abbiamo vissuto e seguitiamo a vivere. Il concetto di cultura del lavoro
viene appena menzionato nei discorsi ufficiali e in quelli accademici, tuttavia
anche così è il nostro pane quotidiano comprendente le trasformazioni delle
relazioni economiche nelle nostre imprese -con incluso il perfezionamento d’impresa-
fino alla volontà del Partito Comunista Cubano di abbandonare procedimenti
amministrativi tradizionali ed erronei. Per questo insisto sul fatto che bisogna
indirizzare la nostra analisi.
Per questa mansione che è già cominciata e sta continuando
si impone una diagnosi dello stato attuale della nostra cultura del lavoro dopo
le successive globalizzazioni, nella quale non solo abbiamo accumulato
esperienze e sviluppato capacità di azione, ma anche profonde ferite che
dobbiamo bonificare. Cosa è Cuba quindi nella visione più generale della sua
cultura del lavoro alla fine di questo millennio?
Ci giungono vari segnali:
Il marchio dell’esportazione. Per secoli Cuba è stata
un paese di importatori che si realizza per se stessa fuori di essi; prima
esportavamo zucchero, tabacco ed altri prodotti primari e/o semiprodotti. Oggi
senza abbandonare il resto importiamo anche bellezza naturale e servizi per
oziare, minerali, mercanzie con forte inclusione di conoscenze come vaccini etc;
e sicuramente in un prossimo futuro, servizi professionali. Senza dubbio abbiamo
sviluppato capacità per farci riconoscere nel mondo, ma il costo è stato un
notevole indebolimento del riconoscimento e le misure interne di prodotti e del
disimpegno, un mercato interno sempre irrilevante per la nostra stessa economia,
una infrastruttura insufficiente e trascurata e, come una sintesi risultante da
tutto ciò che è stato detto, una debole istituzionalità nelle nostre entità
produttive e dei servizi che simula la costruzione particolare di una cultura
del lavoro di ogni entità o emblematica di una attività. Ci sono delle
eccezioni, certo, ma questa è la regola.
Il marchio dell’importazione. Come ogni paese che si
orienta verso l’esportazione siamo anche sottoposti all’importazione e così
consumiamo ciò che non produciamo. Il lato positivo di questa area è la
capacità di assimilazione del nuovo; per ricrearlo anche, per selezionare
alternative senza molti pregiudizi, ma il costo è stato ed è sempre stato il
nostro punto vulnerabile in relazione al mercato estero; una tendenza al
mimetismo mai ben contenuta e una insufficiente disposizione, al posto di un
lento apprendistato, alla necessità di mantenere, conservare, distinguere tra
il nuovo ed il buono. Un’altra conseguenza culturale importante è la tendenza
ad inglobare criteri di qualità soggetti a protettorati esterni.
Il marchio della resistenza nella precarietà. La crisi
o/e il doverci trovare ad affrontare costantemente le difficoltà che sembrano
superarci è quasi il nostro stato naturale, è un marchio secolare sebbene si
evidenzi di più negli ultimi 40 anni. Questo ci ha dato la forza di resistere,
serenità di fronte ai pericoli, creatività di fronte alle difficoltà, ha
alimentato l’orgoglio e la fiducia nelle nostre possibilità, così come il
rispetto degli amici e soci reali o potenziali. Si è anche diversificato il
nostro repertorio delle strategie di resistenza e, allo stesso tempo, una certa
capacità autocritica e una vocazione all’autoperfezionamento. Ma anche i
costi sono stati importanti perché abbiamo vissuto in permanente precarietà
rispetto al necessario per vivere, produrre e commerciare; ciò ci ha resi
tolleranti di fronte ai cattivi disimpegni e poco esigenti in materia di
qualità. I nostri orientamenti d’asse risultano molto precisi per ciò che
può concernere direttamente alla questione nazionale e a tutto ciò che in
qualche modo la mette in risalto, ma molto diffuso in quanto al comportamento
quotidiano, allo sforzo sostenuto, all’onore con cui si trattano le risorse,
all’onestà nella condotta politica in diverse situazioni di lavoro. Ci siamo
costituiti con fretta, con un senso della previsione molto subordinato all’incertezza
o alla pressione congiunturale della sussistenza.
Il marchio dell’oggetto incompiuto. Esistiamo nella
resistenza, l’ho già detto, ma anche nella lotta per arrivare ad essere ciò
che pretendiamo: non è che ci disgusta come siamo, ma non siamo ancora ciò che
vorremmo essere come popolo e come nazione. Esiste di fatto un “cuban dream”,
un ideale di nazione vigente dai tempi di Martí: sviluppo economico insieme
alla giustizia sociale (oggi aggiungeremmo e crescita umana); quel sogno ha
delle traduzioni individuali e di gruppo più o meno coscienti e definisce tra
le altre cose la permanenza insieme al progetto nazionale o l’uscita da esso.
In quel sogno abbiamo costruito i cubani e solamente esso ci unisce, sebbene la
sua capacità di riunione è formidabile. Da questo ideale in sviluppo sorgono
conseguenze che denotano tutta la cultura e quella del lavoro in particolare:
dal lato positivo, unità d’azione, disposizione all’esperimento e alla
solidarietà, consistenza nella ricerca di alternative e coerenza nel discorso
ideologico che sostiene tutte le azioni con qualsiasi grado di difficoltà. Dal
lato negativo la natura dell’"opera in costruzione" ci carica di una
noiosa incertezza, ci molesta costantemente la volontà e ci riporta la vista
sulla vita reale con la crudeltà e la testardaggine che abituano i fatti.
[1] “Insieme dei tratti distintivi, spirituali e materiali, intellettuali
ed affettivi di una società o gruppo sociale. Include non solo arti e lettere,
anche modi di vita, diritti dell’essere umano, valori, tradizioni e credenze...”
UNESCO “Cultura e sviluppo”. Parigi, novembre, 1994, pp. 6 e 7.
[2] Mi riferisco ai laureati:
Josè Luis Nicolau Cruz, Juan Carlos Campos Carrera e Armando Capote Gonzalez.
[3] Tutto il capitale è umano, uso l’espressione
per il suo valore comunicativo malgrado non mi piaccia.