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Joseph Halevi
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Joseph Halevi è docente di economia all’Università di Sydney in Australia e, periodicamente, insegna in Francia alle università di Grenoble (Pierre Mendès France) e di Nizza

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Automobili, crisi e scontro alla FIAT

Joseph Halevi

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L’entrata di Pechino nella produzione mondiale di auto avrà un effetto molto più dirompente del Messico. La rilocalizzazione in questo paese è pressochè interamente manovrata dalle multinazionali Usa per rivendere sullo stesso mercato nordamericano. In Brasile invece la crescita della produzione automobilistica, che allo scoppio delle crisi del 1998 aveva raggiunto un milione e settecentomila unità per poi crollare agli 1,2 milioni attuali, si è prevalentemente orientata verso il mercato interno mentre l’espansione delle esportazioni veniva concepita nel contesto del potenziamento dell’area del Mercosur oggi completamente in crisi. La Cina sarà il primo paese ad alta capacità industriale ma con redditi e costi da terzo mondo ad entrare nel mercato globale del prodotto che costituisce l’asse portante della domanda effettiva di beni industriali finali del mondo capitalistico. Gli effetti saranno devastanti tanto per il Giappone quanto per l’Europa a meno che quest’ultima non denunci gli accordi del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio). Complessivamente quindi il settore è soggetto un’endemica capacità produttiva eccedentaria dovuta alla stagnazione mondiale, da cui si può liberare ricorrendo a massicce delocalizzazioni che possono effettuarsi solo se vi si sono le condizioni politiche e strutturali adatte. La Cina le racchiude tutte. È evidente che le rilocalizzazioni soprattutto verso un paese come la Cina non potranno che comportare ampie dismissioni nei paesi a domanda satura la cui dinamica presenta delle prospettive calanti ad esclusione dei 4WD. L’importanza della Cina non deve essere sottovalutata considerando specialmente il contesto mondiale che ha visto, oltre alla saturazione dei paesi industrializzati, la crisi di paesi verso cui si dirigevano molte aspettative di sviluppo: Indonesia e Brasile. La Cina si appresta quindi a diventare ad un tempo uno dei maggiori paesi produttori ed uno dei maggiori esportatori lasciando poco respiro all’espansione focalizzata sulle localizzazioni tradizionali, comprese quelle in Giappone. Se ciò accadrà, l’effetto sui settori collegati all’auto sarà molto negativo anche perchè il modello di sviluppo cinese è a due tempi: in una prima fase importano macchinari e beni intermedi per sviluppare gli impianti in loco; in una seconda fase esportano e riducono le importazioni in quanto hanno ormai i mezzi per produrre gli input necessari.

La prospettiva del gioco oligopolistico e statal-competitivo (Cina) nel settore dell’auto sul piano mondiale non è nemmeno a somma zero ma piuttosto a somma negativa ove le perdite degli sconfitti tendono ad essere maggiori dei guadagni dei vincitori. Per ora la grande stagnazione produttiva nell’auto tradizionale colpisce sul piano territoriale prevalentemente gli Usa, il Giappone, la Francia, l’Italia. Per le società americane questo non costituisce un problema fintanto che hanno spazi per delocalizzare (in Messico oggi e in Cina domani). Per il Giappone invece è un grande problema in quanto rimette in discussione la coesione e la forza del capitale industriale nipponico. In Europa il ventennio della grande stagnazione dell’auto tradizionale ha visto movimenti contrastanti in cui gli elementi principali nel 1998 - anno di aspettative positive in termine di espansione (in Francia Jospin parlava di rapido ritorno alla piena occupazione!) - erano, rapportati al 1979. Stagnanti ed in calo le produzioni italiane, francesi, svedesi, belghe ed olandesi; in espansione quelle spagnole, britanniche e tedesche. Inoltre a partire dal 1995 è stato notevole il rilancio produttivo nei paesi dell’est europeo soprattutto laddove sono entrate le case tedesche. Due sono gli elementi dominanti del panorama europeo per il periodo 1979-98: la dinamica della produzione tedesca (5milioni e 350mila unità), che nell’arco di tempo considerato aumenta del 36%, contro il magro 19% dell’espansione mondiale, nonchè la ripresa britannica la cui produzione d’auto mostra - con un un milione e settecentocinquantamila auto - un incremento del 70% ritornando ai livelli della fine degli anni sessanta.

Questi due dati racchiudono le strategia globale dei gruppi tedeschi e - in Europa - di quelli giapponesi. Tra i grandi paesi industrialmente maturi la Germania è l’unico ove la produzione non sia rimasta stagnante. Un altro caso è il Canada ove però la maturazione industriale e la riduzione della sua dipendenza dalle esportazioni di materie prime è stata guidata proprio dalla produzione automobilistica. La stessa formidabile espansione spagnola, è imputabile in misura non secondaria alla strategia della Volkswagen dopo l’assorbimento della SEAT già di proprietà FIAT. I gruppi tedeschi espandono la produzione compresa quella estera, nonchè le esportazioni anche dagli stabilimenti esteri . Sul piano nazionale l’occupazione diretta ed indiretta generata dal settore rimane elevata esibendo anche una crescita. La Gran Bretagna, oltre ad essere il terreno di acquisti da parte di società tedesche (Rover), è diventata la base principale degli investimenti delle case nipponiche in Europa. I gruppi giapponesi erano fino al 1999 in costante espansione ricoprendo oltre un terzo della produzione del Regno Unito. Tuttavia a conferma che il boom del biennio 1999-2000 è stato prevalentemente sostenuto dalle produzioni periferiche scaturite da strategie di ristrutturazione a scapito delle localizzazioni centrali anche la dinamica tedesca ha subito un arresto ed un calo. Lo stesso dicasi per la Gran Bretagna (ma a partire dal 2000), per la Spagna e ovviamente per l’Italia. Diversa è la situazione per ciò che riguarda la Francia. Pur non raggiungendo il livello del 1979 la produzione nazionale francese è in espansione da alcuni anni. Contemporaneamente è andata aumentando la produzione estera delle case d’oltralpe.

A conclusione di questa rassegna quantitativa possiamo dire che non si è alterato il quadro altamente stazionistico del settore che in realtà riflette la dinamica della crescita reale. Anzi è possibile afermare che l’espansione del biennio 1999-2000 si è arrestata ed alla stagnazione si è aggiunta la recessione che ora colpisce anche i 4WD. In tale quadro emergono i gruppi multinazionali di tre paesi: USA, Giappone, Germania. I gruppi americani, soprattutto i due principali - essendo il terzo, la Chrysler legata alla Daimler-Mitsubishi in una fusione disastrosa - operano a tutto campo. Negli Stati uniti non hanno esitato a massacrare la forza lavoro degli stabilimenti tradizionali prima spostandosi verso il sud del paese ed appoggiandosi anche sul Canada trasformando poi il Messico in un’importante base produttiva mettendo così in concorrenza permanente i lavoratori messicani contro quelli americani. Infatti qualsiasi convergenza dei salari messicani verso i livelli USA è invalidata dal teorema contenuto nel proverbio “campa cavallo che l’erba cresce”. Il ruolo del Messico è destinato ad accentuarsi, compreso nel campo dei 4WD, e sta probabilmente ponendo termine alla funzione trainante assunta dal settore dell’auto nella neoindustrializzazione del Canada. I gruppi USA benchè anch’essi oberati di capacità eccedentarie sono riusciti, tra delocalizzazioni, repressione salariale e normativa in patria e sviluppo dei 4WD ad imbastire una buona difesa dei margini di profitto. Le case giapponesi invece appaiono alquanto vulnerabili. Sul piano interno esse sono imbrigliate da un’acuta stagnazione. Il loro combattimento, imperniato sulle trasformazioni tecnologiche della produzione e del prodotto, consiste ad evitare che la stagnazione si trasformi in una crisi profonda. Data la grande quantità di auto esportate i loro margini margini di profitto sono stati costantemente rimessi in discussione dalla rivalutazione dello yen. Dal 1995 al 1998 le case nipponiche hanno beneficiato dell’impennata del dollaro dopodichè è rapparso lo spettro della rivalutazione dello yen. Dalla fine del 2000 le autorità di Tokyo hanno cercato periodicamente di svalutare la moneta nazionale ma con l’esplosione della bolla speculativa di Wall Street, la recessione americana e la pressione al ribasso del dollaro tale via di uscita è stata più o meno bloccata. I giapponesi si sono insediati bene nella zona del Nafta ed hanno beneficiato del regime a-sociale britannico per sviluppare la produzione europea. Tuttavia la loro posizione non è così stabile come nell’America settentrionale. Negli ultimi due anni le vendite europee delle marche nipponiche sono calate sensibilmente. Tuttavia le case nipponiche rimangono delle società molto potenti grazie all’indefessa focalizzazione sulla dimensione tecnico innovativa. Nell’insieme le case tedesche se la sono passata meglio. Pur non salvandosi dall’eccesso di capacità, esse hanno incamerato profitti combinando le trasformazioni tecnologiche e nel prodotto all’aumentato volume mondiale delle loro vendite.

3. La FIAT

La stagnazione e la crisi dell’auto crea quindi un’accentuata cesura tra i gruppi dei tre grandi paesi ed il resto del mondo. Dato che ormai l’auto è un prodotto mondiale la concorrenza e lo scontro tra le case marginali per racimolare quote di domanda comprenderà la Francia, la Corea e l’Italia. Quest’ultima, la cui produzione si identifica totalmente con un unico gruppo, la FIAT, è la più debole e fragile. Del resto il comportamento della direzione aziendale non solo durante la crisi in corso ma nell’arco di tutto il trascorso decennio mostra che ad ogni diffcoltà managers e proprietà si ritirano dalla battaglia produttiva. Le stesse ristrutturazioni ed espulsioni di lavoratori, effettuati anche dalle case di altri paesi (meno però in Germania), vengono in Italia concepite per recuperare profitti rispetto alle perdite in un quadro però di abbandono del settore. All’azienda dell’auto italiana si possono muovere le stesse critiche che vennero indirizzate alle società americane negli anni settanta quando gli Usa subirono l’impatto della concorrenza nipponica. Le osservazioni più fondate riguardavano la trasformazione in senso finanziario dei ceti dirigenziali e manageriali delle società americane. Per molti aspetti la FIAT in questo campo è andata oltre i traguardi americani usando la tecnologia per spremere plusvalore da trasferire altrove. Sul piano tecnico e stilistico la storia dell’automobile italiana non è per nulla quella di un paese in via di sviluppo o in fase di industrializzazione, come sono invece le storie dell’auto giapponese e coreana. Nata appena venne concepita l’automobile nella zona del triangolo industriale l’auto italiana è stata tra i pionieri del settore nè è mai stata inferiore alle produzioni straniere in materia di qualità, funzionalità ed aspetti meccanici. Il declino del comparto in Italia sembra corrispondere alla fagocitazione di tutta la produzione automobilistica nazionale da parte della FIAT. Il problema risiede quindi nella strategia monopolistica e di fuga dalla produzione perseguita dal gruppo soprattutto da quando è terminata la sistematica espansione della domanda mondiale dell’auto. In questo quadro i pubblici poteri devono essere messi sotto accusa non perchè hanno sussidiato e trasferito soldi all’azienda ma per averlo fatto con la volontà di assecondare e facilitare la strategia del gruppo.

Qui mi permetto di aprire una breve parentesi. Considero una manifestazione di ritardo culturale quella di definire il capitalismo italiano come un capitalismo assistenziale - così me l’ha definito Lucio Magri, l’anno scorso non trent’anni fa, parlando appunto del Giappone - in contrapposizione all’autonomo ed endogeno produttivismo nipponico ed alla razionalità tecnica dei tedeschi. Tutti i capitalismi sono e sono stati profondamente assistiti. Quello giapponese oggi non si terrebbe in piedi senza il denaro a fondo perduto proveniente dal governo mentre queste stesse operazioni nel passato l’hanno rimesso in piedi permettendogli di correre più degli altri, come del resto è successo anche all’Italia. Negli USA il capitalismo è iper-assistito al punto che funziona veramente solo intorno al comparto militar-industriale ove si concentra l’assistenza. Il resto va più o meno a rotoli [1]. Ma anche nel settore militar-industriale, controllato da un pugno di grandi aziende, le società fanno quello che vogliono: dalla fissazione dei prezzi alla produzione di materiale difettoso. Come documentato da Markusen e Judken le aziende istituzionalmente monopolistiche del complesso militar-industriale ricevono sussidi, aiuti per le esportazioni (spesso e volentieri pagate dallo stesso governo USA con trasferimenti ai paesi satelliti), vengono inoltre regolarmente salvate dalle crisi finanziarie [2]. Esattamente così la Fiat ha fatto con lo Stato italiano con la differenza che ha anche dovuto scontrarsi con le altre società produttrici perdendo in un contesto di domanda globale stagnante.

Allo stato attuale ed in un clima mondiale di recessione sono poche le probabilità di un rilancio dell’auto italiana. La cultura FIAT impedisce perfino la ricerca di una tale possibilità. Vale però la pena mettere in guardia contro la tentazione di stabilire delle correlazioni che possono apparire confortevoli ma che in realtà sono ingannevoli. È fuorviante sostenere, come è stato affermato in ambienti sindacali e politici di sinistra, che la FIAT ha fallito perchè invece di cooperare con i lavoratori ed i sindacati ha scelto la via della repressione pagando ora il prezzo della vittoria del 1980. Invece sostengo che la FIAT ha condotto molto bene la sua lotta di classe vincendo. Forte dell’appoggio dello Stato e completamente guidata da criteri di un conglemerato finanziario, il gruppo ha usato il settore dell’auto come fonte di cash flow finanziario. La sconfitta produttiva della FIAT scaturisce dallo scontro sul piano mondiale tra i capitali del settore segnatamente al vincolo rappresentatao dalla domanda. Non è quindi il prodotto dello scontro specifico tra l’azienda ed i lavoratori. L’unica relazione che si può stabilire tra la gestione manageriale e la lotta di classe condotta dal’azienda è ipotetica e dipende dall’accettazione o meno del modello svedese classico. Si potrebbe infatti dire che un’eventuale vittoria dei lavoratori nel 1980 avrebbe aperto la via ad una costante e sistematica pressione sociale sui margini di profitto tale da obbligare la direzione ad investire in nuovi modelli ed in nuove tecnologie per allentare tale pressione che si sarebbe manifestata nuovamente con l’aumento della produttività indotto dalle innovazioni. Il modello svedese classico si basava su una pressione istituzionalizzata dei margini di profitto attraverso l’azione sindacale. In Svezia il modello non esiste più e veniva abbandonato più o meno mentre la FIAT emergeva vittoriosa nel 1980.

Se è inapplicabile il modello svedese è applicabile alla storia italiana il modello Volkswagen? Anche su questo punto nutro molti dubbi, il primo concerne la natura mitica dell’accordo VW. Ma non conosco la storia aziendale nei dettagli per esprimermi. Mi sembra però che lo schema VW sia nato quando in Germania ancora vigeva tra il governo, i sindacati ed il padronato il totale consenso sulla strategia delle esportazioni per uscire dalla disoccupazione e dalla crisi dal deficit della bilancia dei pagamenti sopravvenuto dopo l’assorbimento della Germania orientale. Bisogna vedere quale è lo stato attuale dello schema in una situazione in cui la produzione di auto in Germania sta flettendo. Il modello svedese è defunto, quello VW è completamente specifico alla Germania. Non vi sono modelli applicabili. È difficile che l’attuale forma proprietaria sia in grado di affrontare concorrenti come le società francesi e coreane. Nel caso coreano l’auto è considerata, assieme alla cantieristica ed all’elettronica, il settore che permetterà al paese di lasciarsi alle spalle definitivamente i ricordi della crisi asiatica. I coreani, che oggi producono 2,6 milioni di automobli, sono consapapevoli del rischio di essere colti tra i colossi nipponici e l’eventuale dinamica cinese. La loro soluzione è la concorrenza mondiale su gamme medie ed alte in conflitto con i giapponesi.

La crisi della FIAT sembra quindi definire l’inizio di una grande fase di deindustrializzazione del paese, di una sua profonda marginalizzazione nell’ambito dell’economia mondiale. La via di uscita dalla crisi non si può trovare all’interno dell’attuale assetto proprietario nè nei tradizionali sussidi pubblici. La questione FIAT è un problema generale che coinvolge molti settori, intere aree comunali ed urbane e può pertanto essere affrontata solo con programma di pianificazione e di controllo sociale sul gruppo mediante la nazionalizzazione. Questa misura però deve essere vista non come un fine ma come uno strumento per socializzare la FIAT. È la dimensione macroeconomica e multisettoriale ad imporla come mezzo di programmazione in alternativa alla deindustrializzazione ed alla devastazione sociale.


[1] Seymour Melman. “From Private to State Capitalism: How the Permanent War Economy Transformed the Institutions of American Capitalism”, Journal of Economic Issues. Vol. 31 (2). p 311-30. June 199.

[2] Ann Markusen and Joel Yudken, Dismantling the Cold War Economy, New York: Harper Collins, Basic Books, 1992.