Automobili, crisi e scontro alla FIAT

Joseph Halevi

1. Introduzione

L’automobile ha costituito nella storia economica moderna un asse portante del processo di industrializzazione e di accumulazione capitalistica così come nel passato lo furono le ferrovie e la cantieristica per la produzione di navi in acciao. Il settore in questione continua a ricoprire tale ruolo anche dopo otto decenni dalla comparsa della produzione automobilistica di massa. La funzione odierna dell’auto è collegata non più alla formazione di nuovi settori della meccanica ma al fatto che questo prodotto, per l’importanza che ricopre, dopo l’edilizia, nella spesa delle famiglie, è il maggiore catalizzatore della domanda effettiva. Al pari dell’edilizia quindi la dinamica della produzione del settore riflette le tendenze di fondo del processo di accumulazione e della domanda. Da oltre vent’anni la domanda mondiale di auto è sostanzialmente stagnante ripercuotendosi pertanto negativamente sull’andamento della produzione del settore. A loro volta i profitti sono legati al volume delle vendite ed al margine caricato sui costi diretti (lavoro e materie prime). Nel caso le aziende siano state mediamente capaci di mantenere i margini di profitto il calcolo è presto fatto: dal 1979 al 1998 la produzione mondiale di automobili è aumentata del 19,4%. Con un margine costante, i profitti reali sarebbero pertanto aumentati della stessa percentuale [1]. In relazione all’ipertrofico gonfiamento dei valori di borsa e delle plusvalenze imputate alle attività speculativo-finanziarie, un’espansione ventennale dei profitti del 19% è assolutamente irrisoria, per cui la tendenza ad operare delle selvagge ristrutturazioni è molto pronunciata [2].

Dato però il vincolo costituito dalla stagnante domanda, le ristrutturazioni non possono che essere incentrate sui licenziamenti e su aumenti di produttività fondati sull’allentamento della connessione con i salari. In caso di successo questa strategia porta a dei profitti di stagnazione e di disoccupazione. In altri termini, l’aumento dei margini di profitto ottenuto rallentando o bloccando i salari rispetto alla produttività comporta due tendenze stagnazionistiche. In primo luogo le ristrutturazioni effettuate per ottenere gli aumenti di produttività implicano licenziamenti che causano disoccupazione ed una riduzione del reddito disponibile e quindi della domanda globale di beni di consumo. Inoltre è improbabile che le ristrutturazioni comportino investimenti tali da riassorbire o mitigare significativamente le perdite occupazionali [3]. In presenza di capacità produttive eccedentarie gli investimenti saranno ad hoc mentre la riorganizzazione del lavoro volta ad aumentare la produttività tende a coinvolgere l’insieme dei dipendenti. In secondo luogo, l’aumento della produttività rispetto ai salari contribuisce al divario tra produzione e domanda per l’insieme dell’economia.

Questo secondo aspetto si manifesta in maniera più lenta e parziale ma può avere un effetto importante se l’esperienza del settore che la mette in atto viene seguita anche da altri comparti. Al miglioramento dei margini di profitto non corrisponde necessariamente un miglioramento dei saggi di profitto in rapporto al valore del capitale immobilizzato. Abbiamo visto che quando la domanda è atona le ristrutturazioni comportano l’accentuazione delle tendenze stagnazionistiche. Ne consegue che l’economia non genera alcuna spinta all’aumento dell’utilizzo di capacità produttiva eccedentaria. I ragionamenti tradizionali si basano tutti sul capitale come completamente circolante, che termina la sua esistenza alla fine del ciclo produttivo ‘annuale’. In questa logica non vi è posto per la capacità eccedentaria come fenomeno strutturale del capitalismo moderno. Le aziende oligopolistiche di oggi hanno invece un vasto ammontare di capitale fisso per cui l’eccesso di capacità produttiva grava sui saggi di profitto in maniera talmente determinanante da poter anche annullare eventuali miglioramenti nei margini di profitto. La documentazione concernente il settore dell’auto a livello mondiale tende a corroborare la tesi secondo cui eventuali miglioramenti nei margini di profitto non alleviano il peso dell’eccesso di capacità e la conseguente pressione sui saggi di profitto. Governi ed organismi internazionali, in diretta alleanza con le multinazionali del settore, hanno fatto di tutto per creare nuove capacità produttive sapendo benissimo che la domanda non sarebbe stata sufficiente a sostenerle. La stessa strategia delle società produttrici ha comportato un aggravamento della sovraccumulazione aggiungendo strati di capacità produttiva per aumentare, al fine di acchiappare profitti in un mercato stagnante, la diversificazione tipica dell’oligopolio eterogeneo [4].

2. Il quadro mondiale

 

Nel pieno della lunga espansione post bellica (1966) la produzione mondiale di auto, escludendo camion, autobus ed altri veicoli commerciali, era di 19 milioni di unità, di cui 8 milioni e mezzo negli Stati Uniti, circa novecentomila in Giappone, settecentomila in Canada e la quasi totalità dei restanti nove milioni in Europa compresa l’Urss ed i paesi dell’est. La rottura della crescita militaristico keynesiana avvenne intorno al 1974-75, tuttavia, grazie all’espansione della domanda di beni di consumo dovuta agli aumenti salariali, la produzione mondiale ammontava nel 1979 a 31 milioni e trecentomila unità, sempre escludendo i veicoli industriali e commerciali. L’incremento di 12 milioni di unità, mediamente quasi un milione all’anno dal ‘66 al ‘79, va ascritto soprattutto all’entrata nel settore del Giappone che dalle novecentomila unità passò, tredici anni dopo, ad oltre sei milioni di auto prodotte. Inalterata, anzi in leggero calo, era la produzione effettuata sul suolo statunitense compensata però dalla crescita di quella in Canada, mentre in Europa, tanto in occidente che all’est - compresa l’Unione Sovietica - si registrava una progressione generale sebbene di gran lunga inferiore a quella nipponica. Parallelamente all’evoluzione quantitiva del settore nei paesi industrializzati ed in quelli ‘socialisti’ apparivano sul piano mondiale anche i dati del Brasile (900mila unità) e del Messico (circa 300mila unità). Per quel che concerne l’Europa capitalista l’espansione maggiore avvenne in Germania, Francia e Spagna. In Italia invece la dinamica fu molto lenta passando dall’un milione e trecentomila unità del 1966 a un milione e mezzo tredici anni dopo mentre in Gran Bretagna la produzione addirittura crollò di oltre seicentomila unità superando di poco il milione di auto.

All’espansione del primo ventennio post bellico seguono, a partire dal 1979, due decenni completamente stagnanti. Prendendo i dati completi del 1998 si nota che la produzione mondiale di automobili era di 37 milioni di unità vale a dire un incremento medio annuo non superiore all’1%. In altri termini, il settore ha subito sia il rallentamento dovuto al calo dei tassi di crescita globali, sia l’effetto di saturazione del mercato. È interessante notare che un altro settore del tardo ottocento, anch’esso elemento importante della siderurgia e della meccanica, entrato in stagnazione in pieno boom post-bellico, ha subito un totale capovolgimento grazie agli investimenti effettuati dai paesi asiatici. Si tratta della cantieristica navale la cui produzione mondiale era rimasta sui 12-13 milioni di tonnellate di stazza lorda per circa un quarto di secolo. Poi sul finire degli anni ottanta la cantieristica si è ripresa al punto di superare nel 1998 le 27 milioni di tonnellate varate. Di queste circa 22 milioni vengono varate in Giappone (11 milioni), Corea del sud (9 milioni) e Cina (1,5 milioni + 500mila a Taiwan). Il rinnovato boom cantieristico è dovuto all’impatto cumulativo dell’effetto speciale della crescita asiatica fondata su una stretta dipendenza dalle importazioni dal Giappone e dalla conseguentemente necessaria crescita delle esportazioni verso paesi terzi. Il settore, oltre a fornire il veicolo principale per il rifornimento del greggio ed altre materie prime in una zona ad alto sviluppo industriale, ha beneficiato del processo di integrazione regionale e della dinamica delle esportazioni verso il resto del mondo di tutti i paesi dell’area. Per l’auto non vi è stato alcun effetto speciale. Per molti aspetti sia la trasformazione dell’automobile come mezzo di trasporto privilegiato e sostenuto dai pubblici poteri sia la stessa globalizzazione della produzione hanno contribuito a porre il prodotto a diretto contatto con la saturazione del mercato e l’andamento della crescita aggregata mondiale che, malgrado il rapido decollo cinese, nel ventennio 1980-2000 si è più che dimezzata rispetto al periodo 1960-1980.

Il settore dell’automobile può quindi essere visto come il fulcro della stagnazione mondiale. Si prenda ad esempio il caso degli Stati uniti: il parco auto nel 2000 era di circa 133 milioni di unità, circa tre milioni in meno rispetto al 1989 comprovando così la saturazione del mercato. Contemporaneamente avanza la vendita dei fuori-strada 4WD che sono classificati come camion. Chiaramente la strategia dei leader cioè delle case americane e giapponesi consiste nell’immettere sul mercato un prodotto più grande, più caro, meno economico dal lato del consumo di carburante, con meno vincoli ambientali e di far leva su di esso per riequipaggiare il parco auto. Tuttavia i fuori-strada sono solo parzialmente sostitutivi. I livelli di saturazione sono quindi più bassi. È probabile quindi che alla stagnazione della domanda di auto si aggiunga fra breve la stagnazione di quella dei 4WD aggravando così il problema della capacità produttiva eccedentaria. In Giappone la produzione stagna tra gli 8 milioni e gli 8,5 milioni di unità dalla fine degli anni ottanta. Ora oltre ad aggiungere il suo bravo strato di 4WD - che per la struttura urbana di quel paese sono tanto assurdi quanto lo sarebbero per le vie di Gubbio o di Lucca - il Giappone è impegnato in Malaysia ed in Thailandia a sviluppare produzioni di massa quando la domanda globale ha tutte le tendenze a restringersi a meno che non entri rapidamente in scena la Cina. La domanda cinese non verrà però soddisfatta dalle importazioni ma piuttosto dalla produzione in loco effettuata in joint venture con le multinazionali. L’obiettivo non sarà solo la domanda interna ma anche - ed in misura non secondaria - quella estera. La Cina e le multinazionali creeranno quindi ulteriori capacità produttive in eccesso rispetto alla dinamica della domanda interna cinese mentre gli Usa e l’Europa sono saturi e l’America Latina implode sotto la crisi.

È vero che dal 1998 al 2000 la produzione globale è aumentata di 4 milioni di auto toccando la cifra di 41 milioni di unità. Una buona parte dell’espansione proveniva dalla Corea meridionale che nel biennio 1999-2000 ha incrementato la produzione di un milione di auto. Questo è il prodotto della svalutazione della moneta nazionale in seguito alla crisi asiatica del 1997-98 che ha enormemente abbassato i prezzi pagati dalle concessionarie estere importatrici. Anche il Messico e l’Europa orientale hanno mostrato una sostanziale accelerazione della produzione incrementandola per un totale di 550 mila unità a riprova del loro status di aree di rilocalizzazione. Tra i grandi paesi industriali Giappone, Francia e Spagna sommati assieme hanno esibito, durante la breve espansione dell’ultimo biennio del ventesimo secolo, un aumento complessivo di poco più di settecentomila auto; poco rispetto alla totalità delle loro capacità produttive. Negli Usa, in Germania, in Gran Bretagna ed in Italia la produzione è rimasta stagnante ed in calo. Il grosso della crescita della produzione automobilisdtica del biennio “new economy” è stato il portato di crisi deflazionistiche in Asia che hanno generato grandi profitti per le concessionarie importatrici nonchè di processi di rilocalizzazione (Messico ed Europa orientale) piuttosto che dalla flebile vitalità dei redditi delle famiglie da cui scaturisce la domanda afferente al settore.

La mia ipotesi consiste quindi nel prevedere che se l’effetto Cina si materializza a breve scadenza, diciamo nei prossimi sei-sette anni, la crisi dell’auto da stagnazionistica si trasformerà in un massiccio processo di rilocalizzazione. Il Giappone, che non importa molte automobili, sarà tra i paesi che tenteranno di resistere più a lungo alla rilocalizzazione degli impianti. Tutto dipenderà dal grado di controllo che le multinazionali nipponiche eserciteranno sull’evoluzione del settore dell’auto in Cina. Se tale controllo risulterà elevato le società nipponiche cercheranno di applicare i meccanismi a circuito chiuso, ove vengono pianificate sia le esportazioni dal Giappone che le importazioni in Giappone, che con molto successo hanno utilizzato nell’Asia orientale. In tal caso la capacità di evitare o attenuare un’eventuale deindustrializzazione del settore dell’auto in Giappone verrà rafforzata. Ma i cinesi conoscono le strategie nipponiche molto bene e fino ad oggi sono riusciti a non incapparvi grazie anche alla dimensione statuale della Cina. Metà della produzione cinese - che nel 2000 era di 607mila auto raddoppiando rispetto al 1994 - origina dagli impianti Volkswagen. I giapponesi sono presenti con una serie di case ognuna delle quali produce tra le cinquantamila ed ottantamila vetture. In Cina alla concentrazione tedesca corrisponde una notevole frammentazione nipponica. Non penso che i giapponesi riusciranno ad instaurarvi un sistema a circuito controllato, come invece stanno facendo in Malaysia. Il passaggio della Repubblica Popolare alla produzione di massa per esportare creerà un conflitto concorrenziale, dati i differenziali nei costi di produzione, che si ripercuoterà anche all’interno delle case nipponiche. Il risultato sarà che gli impianti in Giappone si troveranno svantaggiati rispetto a quelli delle proprie società in Cina per cui potrebbe avviarsi un processo di delocalizzazione ancora più accelerato di quello che sta caratterizzando il trasferimento della produzione nordamericana verso il Messico. È anche possibile che i giapponesi scelgano strategie diverse però mi pare difficile aggirare la questione cinese.


L’entrata di Pechino nella produzione mondiale di auto avrà un effetto molto più dirompente del Messico. La rilocalizzazione in questo paese è pressochè interamente manovrata dalle multinazionali Usa per rivendere sullo stesso mercato nordamericano. In Brasile invece la crescita della produzione automobilistica, che allo scoppio delle crisi del 1998 aveva raggiunto un milione e settecentomila unità per poi crollare agli 1,2 milioni attuali, si è prevalentemente orientata verso il mercato interno mentre l’espansione delle esportazioni veniva concepita nel contesto del potenziamento dell’area del Mercosur oggi completamente in crisi. La Cina sarà il primo paese ad alta capacità industriale ma con redditi e costi da terzo mondo ad entrare nel mercato globale del prodotto che costituisce l’asse portante della domanda effettiva di beni industriali finali del mondo capitalistico. Gli effetti saranno devastanti tanto per il Giappone quanto per l’Europa a meno che quest’ultima non denunci gli accordi del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio). Complessivamente quindi il settore è soggetto un’endemica capacità produttiva eccedentaria dovuta alla stagnazione mondiale, da cui si può liberare ricorrendo a massicce delocalizzazioni che possono effettuarsi solo se vi si sono le condizioni politiche e strutturali adatte. La Cina le racchiude tutte. È evidente che le rilocalizzazioni soprattutto verso un paese come la Cina non potranno che comportare ampie dismissioni nei paesi a domanda satura la cui dinamica presenta delle prospettive calanti ad esclusione dei 4WD. L’importanza della Cina non deve essere sottovalutata considerando specialmente il contesto mondiale che ha visto, oltre alla saturazione dei paesi industrializzati, la crisi di paesi verso cui si dirigevano molte aspettative di sviluppo: Indonesia e Brasile. La Cina si appresta quindi a diventare ad un tempo uno dei maggiori paesi produttori ed uno dei maggiori esportatori lasciando poco respiro all’espansione focalizzata sulle localizzazioni tradizionali, comprese quelle in Giappone. Se ciò accadrà, l’effetto sui settori collegati all’auto sarà molto negativo anche perchè il modello di sviluppo cinese è a due tempi: in una prima fase importano macchinari e beni intermedi per sviluppare gli impianti in loco; in una seconda fase esportano e riducono le importazioni in quanto hanno ormai i mezzi per produrre gli input necessari.

La prospettiva del gioco oligopolistico e statal-competitivo (Cina) nel settore dell’auto sul piano mondiale non è nemmeno a somma zero ma piuttosto a somma negativa ove le perdite degli sconfitti tendono ad essere maggiori dei guadagni dei vincitori. Per ora la grande stagnazione produttiva nell’auto tradizionale colpisce sul piano territoriale prevalentemente gli Usa, il Giappone, la Francia, l’Italia. Per le società americane questo non costituisce un problema fintanto che hanno spazi per delocalizzare (in Messico oggi e in Cina domani). Per il Giappone invece è un grande problema in quanto rimette in discussione la coesione e la forza del capitale industriale nipponico. In Europa il ventennio della grande stagnazione dell’auto tradizionale ha visto movimenti contrastanti in cui gli elementi principali nel 1998 - anno di aspettative positive in termine di espansione (in Francia Jospin parlava di rapido ritorno alla piena occupazione!) - erano, rapportati al 1979. Stagnanti ed in calo le produzioni italiane, francesi, svedesi, belghe ed olandesi; in espansione quelle spagnole, britanniche e tedesche. Inoltre a partire dal 1995 è stato notevole il rilancio produttivo nei paesi dell’est europeo soprattutto laddove sono entrate le case tedesche. Due sono gli elementi dominanti del panorama europeo per il periodo 1979-98: la dinamica della produzione tedesca (5milioni e 350mila unità), che nell’arco di tempo considerato aumenta del 36%, contro il magro 19% dell’espansione mondiale, nonchè la ripresa britannica la cui produzione d’auto mostra - con un un milione e settecentocinquantamila auto - un incremento del 70% ritornando ai livelli della fine degli anni sessanta.

Questi due dati racchiudono le strategia globale dei gruppi tedeschi e - in Europa - di quelli giapponesi. Tra i grandi paesi industrialmente maturi la Germania è l’unico ove la produzione non sia rimasta stagnante. Un altro caso è il Canada ove però la maturazione industriale e la riduzione della sua dipendenza dalle esportazioni di materie prime è stata guidata proprio dalla produzione automobilistica. La stessa formidabile espansione spagnola, è imputabile in misura non secondaria alla strategia della Volkswagen dopo l’assorbimento della SEAT già di proprietà FIAT. I gruppi tedeschi espandono la produzione compresa quella estera, nonchè le esportazioni anche dagli stabilimenti esteri . Sul piano nazionale l’occupazione diretta ed indiretta generata dal settore rimane elevata esibendo anche una crescita. La Gran Bretagna, oltre ad essere il terreno di acquisti da parte di società tedesche (Rover), è diventata la base principale degli investimenti delle case nipponiche in Europa. I gruppi giapponesi erano fino al 1999 in costante espansione ricoprendo oltre un terzo della produzione del Regno Unito. Tuttavia a conferma che il boom del biennio 1999-2000 è stato prevalentemente sostenuto dalle produzioni periferiche scaturite da strategie di ristrutturazione a scapito delle localizzazioni centrali anche la dinamica tedesca ha subito un arresto ed un calo. Lo stesso dicasi per la Gran Bretagna (ma a partire dal 2000), per la Spagna e ovviamente per l’Italia. Diversa è la situazione per ciò che riguarda la Francia. Pur non raggiungendo il livello del 1979 la produzione nazionale francese è in espansione da alcuni anni. Contemporaneamente è andata aumentando la produzione estera delle case d’oltralpe.

A conclusione di questa rassegna quantitativa possiamo dire che non si è alterato il quadro altamente stazionistico del settore che in realtà riflette la dinamica della crescita reale. Anzi è possibile afermare che l’espansione del biennio 1999-2000 si è arrestata ed alla stagnazione si è aggiunta la recessione che ora colpisce anche i 4WD. In tale quadro emergono i gruppi multinazionali di tre paesi: USA, Giappone, Germania. I gruppi americani, soprattutto i due principali - essendo il terzo, la Chrysler legata alla Daimler-Mitsubishi in una fusione disastrosa - operano a tutto campo. Negli Stati uniti non hanno esitato a massacrare la forza lavoro degli stabilimenti tradizionali prima spostandosi verso il sud del paese ed appoggiandosi anche sul Canada trasformando poi il Messico in un’importante base produttiva mettendo così in concorrenza permanente i lavoratori messicani contro quelli americani. Infatti qualsiasi convergenza dei salari messicani verso i livelli USA è invalidata dal teorema contenuto nel proverbio “campa cavallo che l’erba cresce”. Il ruolo del Messico è destinato ad accentuarsi, compreso nel campo dei 4WD, e sta probabilmente ponendo termine alla funzione trainante assunta dal settore dell’auto nella neoindustrializzazione del Canada. I gruppi USA benchè anch’essi oberati di capacità eccedentarie sono riusciti, tra delocalizzazioni, repressione salariale e normativa in patria e sviluppo dei 4WD ad imbastire una buona difesa dei margini di profitto. Le case giapponesi invece appaiono alquanto vulnerabili. Sul piano interno esse sono imbrigliate da un’acuta stagnazione. Il loro combattimento, imperniato sulle trasformazioni tecnologiche della produzione e del prodotto, consiste ad evitare che la stagnazione si trasformi in una crisi profonda. Data la grande quantità di auto esportate i loro margini margini di profitto sono stati costantemente rimessi in discussione dalla rivalutazione dello yen. Dal 1995 al 1998 le case nipponiche hanno beneficiato dell’impennata del dollaro dopodichè è rapparso lo spettro della rivalutazione dello yen. Dalla fine del 2000 le autorità di Tokyo hanno cercato periodicamente di svalutare la moneta nazionale ma con l’esplosione della bolla speculativa di Wall Street, la recessione americana e la pressione al ribasso del dollaro tale via di uscita è stata più o meno bloccata. I giapponesi si sono insediati bene nella zona del Nafta ed hanno beneficiato del regime a-sociale britannico per sviluppare la produzione europea. Tuttavia la loro posizione non è così stabile come nell’America settentrionale. Negli ultimi due anni le vendite europee delle marche nipponiche sono calate sensibilmente. Tuttavia le case nipponiche rimangono delle società molto potenti grazie all’indefessa focalizzazione sulla dimensione tecnico innovativa. Nell’insieme le case tedesche se la sono passata meglio. Pur non salvandosi dall’eccesso di capacità, esse hanno incamerato profitti combinando le trasformazioni tecnologiche e nel prodotto all’aumentato volume mondiale delle loro vendite.

3. La FIAT

La stagnazione e la crisi dell’auto crea quindi un’accentuata cesura tra i gruppi dei tre grandi paesi ed il resto del mondo. Dato che ormai l’auto è un prodotto mondiale la concorrenza e lo scontro tra le case marginali per racimolare quote di domanda comprenderà la Francia, la Corea e l’Italia. Quest’ultima, la cui produzione si identifica totalmente con un unico gruppo, la FIAT, è la più debole e fragile. Del resto il comportamento della direzione aziendale non solo durante la crisi in corso ma nell’arco di tutto il trascorso decennio mostra che ad ogni diffcoltà managers e proprietà si ritirano dalla battaglia produttiva. Le stesse ristrutturazioni ed espulsioni di lavoratori, effettuati anche dalle case di altri paesi (meno però in Germania), vengono in Italia concepite per recuperare profitti rispetto alle perdite in un quadro però di abbandono del settore. All’azienda dell’auto italiana si possono muovere le stesse critiche che vennero indirizzate alle società americane negli anni settanta quando gli Usa subirono l’impatto della concorrenza nipponica. Le osservazioni più fondate riguardavano la trasformazione in senso finanziario dei ceti dirigenziali e manageriali delle società americane. Per molti aspetti la FIAT in questo campo è andata oltre i traguardi americani usando la tecnologia per spremere plusvalore da trasferire altrove. Sul piano tecnico e stilistico la storia dell’automobile italiana non è per nulla quella di un paese in via di sviluppo o in fase di industrializzazione, come sono invece le storie dell’auto giapponese e coreana. Nata appena venne concepita l’automobile nella zona del triangolo industriale l’auto italiana è stata tra i pionieri del settore nè è mai stata inferiore alle produzioni straniere in materia di qualità, funzionalità ed aspetti meccanici. Il declino del comparto in Italia sembra corrispondere alla fagocitazione di tutta la produzione automobilistica nazionale da parte della FIAT. Il problema risiede quindi nella strategia monopolistica e di fuga dalla produzione perseguita dal gruppo soprattutto da quando è terminata la sistematica espansione della domanda mondiale dell’auto. In questo quadro i pubblici poteri devono essere messi sotto accusa non perchè hanno sussidiato e trasferito soldi all’azienda ma per averlo fatto con la volontà di assecondare e facilitare la strategia del gruppo.

Qui mi permetto di aprire una breve parentesi. Considero una manifestazione di ritardo culturale quella di definire il capitalismo italiano come un capitalismo assistenziale - così me l’ha definito Lucio Magri, l’anno scorso non trent’anni fa, parlando appunto del Giappone - in contrapposizione all’autonomo ed endogeno produttivismo nipponico ed alla razionalità tecnica dei tedeschi. Tutti i capitalismi sono e sono stati profondamente assistiti. Quello giapponese oggi non si terrebbe in piedi senza il denaro a fondo perduto proveniente dal governo mentre queste stesse operazioni nel passato l’hanno rimesso in piedi permettendogli di correre più degli altri, come del resto è successo anche all’Italia. Negli USA il capitalismo è iper-assistito al punto che funziona veramente solo intorno al comparto militar-industriale ove si concentra l’assistenza. Il resto va più o meno a rotoli [5]. Ma anche nel settore militar-industriale, controllato da un pugno di grandi aziende, le società fanno quello che vogliono: dalla fissazione dei prezzi alla produzione di materiale difettoso. Come documentato da Markusen e Judken le aziende istituzionalmente monopolistiche del complesso militar-industriale ricevono sussidi, aiuti per le esportazioni (spesso e volentieri pagate dallo stesso governo USA con trasferimenti ai paesi satelliti), vengono inoltre regolarmente salvate dalle crisi finanziarie [6]. Esattamente così la Fiat ha fatto con lo Stato italiano con la differenza che ha anche dovuto scontrarsi con le altre società produttrici perdendo in un contesto di domanda globale stagnante.

Allo stato attuale ed in un clima mondiale di recessione sono poche le probabilità di un rilancio dell’auto italiana. La cultura FIAT impedisce perfino la ricerca di una tale possibilità. Vale però la pena mettere in guardia contro la tentazione di stabilire delle correlazioni che possono apparire confortevoli ma che in realtà sono ingannevoli. È fuorviante sostenere, come è stato affermato in ambienti sindacali e politici di sinistra, che la FIAT ha fallito perchè invece di cooperare con i lavoratori ed i sindacati ha scelto la via della repressione pagando ora il prezzo della vittoria del 1980. Invece sostengo che la FIAT ha condotto molto bene la sua lotta di classe vincendo. Forte dell’appoggio dello Stato e completamente guidata da criteri di un conglemerato finanziario, il gruppo ha usato il settore dell’auto come fonte di cash flow finanziario. La sconfitta produttiva della FIAT scaturisce dallo scontro sul piano mondiale tra i capitali del settore segnatamente al vincolo rappresentatao dalla domanda. Non è quindi il prodotto dello scontro specifico tra l’azienda ed i lavoratori. L’unica relazione che si può stabilire tra la gestione manageriale e la lotta di classe condotta dal’azienda è ipotetica e dipende dall’accettazione o meno del modello svedese classico. Si potrebbe infatti dire che un’eventuale vittoria dei lavoratori nel 1980 avrebbe aperto la via ad una costante e sistematica pressione sociale sui margini di profitto tale da obbligare la direzione ad investire in nuovi modelli ed in nuove tecnologie per allentare tale pressione che si sarebbe manifestata nuovamente con l’aumento della produttività indotto dalle innovazioni. Il modello svedese classico si basava su una pressione istituzionalizzata dei margini di profitto attraverso l’azione sindacale. In Svezia il modello non esiste più e veniva abbandonato più o meno mentre la FIAT emergeva vittoriosa nel 1980.

Se è inapplicabile il modello svedese è applicabile alla storia italiana il modello Volkswagen? Anche su questo punto nutro molti dubbi, il primo concerne la natura mitica dell’accordo VW. Ma non conosco la storia aziendale nei dettagli per esprimermi. Mi sembra però che lo schema VW sia nato quando in Germania ancora vigeva tra il governo, i sindacati ed il padronato il totale consenso sulla strategia delle esportazioni per uscire dalla disoccupazione e dalla crisi dal deficit della bilancia dei pagamenti sopravvenuto dopo l’assorbimento della Germania orientale. Bisogna vedere quale è lo stato attuale dello schema in una situazione in cui la produzione di auto in Germania sta flettendo. Il modello svedese è defunto, quello VW è completamente specifico alla Germania. Non vi sono modelli applicabili. È difficile che l’attuale forma proprietaria sia in grado di affrontare concorrenti come le società francesi e coreane. Nel caso coreano l’auto è considerata, assieme alla cantieristica ed all’elettronica, il settore che permetterà al paese di lasciarsi alle spalle definitivamente i ricordi della crisi asiatica. I coreani, che oggi producono 2,6 milioni di automobli, sono consapapevoli del rischio di essere colti tra i colossi nipponici e l’eventuale dinamica cinese. La loro soluzione è la concorrenza mondiale su gamme medie ed alte in conflitto con i giapponesi.

La crisi della FIAT sembra quindi definire l’inizio di una grande fase di deindustrializzazione del paese, di una sua profonda marginalizzazione nell’ambito dell’economia mondiale. La via di uscita dalla crisi non si può trovare all’interno dell’attuale assetto proprietario nè nei tradizionali sussidi pubblici. La questione FIAT è un problema generale che coinvolge molti settori, intere aree comunali ed urbane e può pertanto essere affrontata solo con programma di pianificazione e di controllo sociale sul gruppo mediante la nazionalizzazione. Questa misura però deve essere vista non come un fine ma come uno strumento per socializzare la FIAT. È la dimensione macroeconomica e multisettoriale ad imporla come mezzo di programmazione in alternativa alla deindustrializzazione ed alla devastazione sociale.


[1] La comodità del calcolo ipotetico dei profitti attraverso la formula del margine di profitto sui costi consiste nell’integrare anche i processi inflazionistici. Infatti il prezzo oligopolistico è uguale a: salario monetario per unità di prodotto + margine di profitto sul medesimo rapporto + costo delle materie prime per unità di prodotto + margine di profitto sul medesimo rapporto. Salari e costo delle materie prime sono tutti espressi in termini monetari. Ne consegue che, conoscendo il margine di profitto sui costi unitari monetari e le unità vendute otterremo i profitti effettivi quale che sia l’andamento dei prezzi. Ancora validissimo è pertanto il libro di Paolo Sylos-Labini Oligopolio e progresso tecnico, Torino, Einaudi, 1962.

[2] Le statistiche sono prese da: MOTORSAT: http://perso.club-internet.fr/motorsat/; ORGANISATION INTERNATIONALE DES CONSTRUCTEURS D’AUTOMOBILES: http://www.oica.net/, ANFIA: http://www.anfia.it/english/default.htm. Le serie storiche per paese sono state tratte dal Calendario Atlante Geografico, Novara: De Agostini, annate varie 2001-1968.

[3] Se un’azienda ristruttura ordinando nuovi macchinari (investimenti) essa creerà domanda e forse anche occupazione addizionale per le industrie delle macchine. Ma tutto ciò è molto incerto perchè aumenti di produttività e riorganizzazioni nel settore delle macchine possono eliminare l’esigenza di incrementare l’occupazione. I meccansimi keynesiani funzionano con maggiore certezza verso il basso che verso l’alto. Solo con investimenti e spese totalizzanti come nel periodo, storicamente molto limitato, del ‘keynesismo militare’ i suddetti meccanismi funzionavano anche verso l’alto.

[4] William Greider, One World, Ready or Not : the Manic Logic of Global Capitalism, London, Penguin, 1998.

[5] Seymour Melman. “From Private to State Capitalism: How the Permanent War Economy Transformed the Institutions of American Capitalism”, Journal of Economic Issues. Vol. 31 (2). p 311-30. June 199.

[6] Ann Markusen and Joel Yudken, Dismantling the Cold War Economy, New York: Harper Collins, Basic Books, 1992.