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Tendenze della competizione globale

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Vladimiro Giacché
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Studioso di economia e politica economica

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Guerra

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Perché la guerra fa male ai lavoratori (II)

Vladimiro Giacché

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“E’ un momento fortunato per la difesa. Qui si fa più politica estera che alla Farnesina. Inoltre, le Forze Armate vivono la fase di grazia dei vari interventi NATO...
L’obiettivo che continuo a giudicare indispensabile per l’Italia sta nell’elevare la spesa per la funzione Difesa all’1,5% del PIL in un arco ragionevole di tempo”
(Antonio Martino, Ministro della Difesa: intervista al Giornale e dichiarazione al convegno AIAD, 8 luglio 2002)

Noi siamo eroi e mercanti in un’unica ditta
(K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, 1922; tr. it. Milano, Adelphi, 1980, p. 189)

La disfatta la paga il proletario,
la vittoria la paga il proletario

(B. Brecht, Canzone contro la guerra, in Poesie di Svendborg, tr. it. di F. Fortini, Torino, Einaudi, 1976, p. 43)

 

Dopo la “globalizzazione”, la guerra [1]

L’attuale fase delle relazioni internazionali può facilmente essere connotata come regressiva. E’ in regressione, ossia in recessione, innanzitutto l’economia dei principali paesi capitalistici, a cominciare da quella statunitense. Sono in regressione i commerci internazionali: nel 2001 gli scambi sono scesi del 2%, per la prima volta dopo anni di crescita ininterrotta. Che “la Belle Epoque della globalizzazione” sia finita non lo dicono più soltanto studiosi di sinistra, ma è cosa che si può leggere - testualmente - sull’ultimo numero della rivista dell’Aspen Institute. [2] E’ stato scardinato il sistema del diritto internazionale costruito dopo la seconda guerra mondiale: la guerra come modo di risoluzione delle controversie internazionali non è più “ripudiata”, neppure dai Paesi che - come il nostro - questo impegno l’hanno scritto sulla loro Costituzione. E recentemente - nel disinteresse pressoché generale - si è addirittura tornati a parlare, da parte della potenza imperialistica egemone, di “attacchi nucleari preventivi”.

In compenso, aumenta l’instabilità. Nel report di uno dei centri di previsioni strategiche che forniscono le loro analisi a pagamento alle grandi imprese, pubblicato il 21 febbraio scorso e intitolato appunto “L’intensificazione dell’instabilità a livello mondiale”, si poteva leggere che è in atto “una drammatica crescita dell’instabilità”, tanto più grave in quanto “le aree instabili appaiono avere soltanto nessi estremamente tenui tra di loro”. Per esemplificare, il rapporto faceva riferimento ai più recenti focolai di instabilità emersi: Colombia (guerra civile), Venezuela (instabilità politica), Afghanistan (rischio di caos), Medio Oriente (scenari di guerra tra Israeliani e Palestinesi), Iran (scontro tra moderati e fondamentalisti), Giappone (incapacità di gestire la crisi economica). E poi confronto India-Pakistan, minacce di guerra all’Irak, instabilità dei Balcani, default dell’Argentina... [3]

La situazione è fuori controllo. Per questo la guerra torna di moda. Perché - è inutile nasconderselo - quelli che spirano sul pianeta, agli albori del XXI secolo, sono proprio venti di guerra. Intendiamoci: ormai è facile, per chiunque osservi retrospettivamente gli anni Novanta, l’età del liberismo trionfante e dispiegato, constatare che essi non hanno portato con sé la “fine della storia”, come pretendevano alcuni apologeti, ma, al contrario, l’aumento e l’intensificazione dei conflitti (Iraq, Bosnia, Kosovo...). Però è difficile sottrarsi all’impressione che oggi si sia di fronte ad un drammatico salto di qualità.

La data che viene sempre citata, a questo proposito, è l’11 settembre. E in effetti è innegabile che dopo quella data lo scenario delle relazioni internazionali abbia subito un brusco e violento peggioramento. L’11 settembre, però, non è la causa profonda di tutto questo. Quel peggioramento è invece il precipitato di processi di più lunga portata. E riguardo ai quali ci sono date più significative che possono essere citate: lo scoppio della bolla speculativa della “new economy”, nel marzo 2000, o l’elezione-frode di Bush Jr. come Presidente degli USA, alla fine dello stesso anno. Vediamo perché.

Con la crisi della borsa, ed in particolare dei titoli tecnologici (l’indice Nasdaq era a 5.000 punti nel marzo 2000, oggi [luglio 2002] è a 1.350 punti...), si è rotto il giocattolo dell’economia americana: il mercato hi-tech è investito da una forte crisi da sovrapproduzione, la bolla speculativa scoppia ed il mercato borsistico non riesce più ad attrarre i capitali necessari a controbilanciare l’enorme deficit della bilancia commerciale USA; i tentativi della Fed di arginare la crisi ed il crollo delle borse, abbassando (11 volte!) i tassi di interesse, riesce sì a tenere provvisoriamente alte le quotazioni del dollaro, ma a spese della competitività del settore manifatturiero USA, nel quale infatti cominciano a verificarsi fallimenti a catena (ben prima di Enron, si pensi a Polaroid, Bethlehem Steel...). Nel marzo 2001 l’America è tecnicamente in recessione.

Nel frattempo è “sceso in campo” il rampollo della dinastia Bush. Il quale, sin dai primi mesi della sua presidenza, lancia al mondo tre messaggi tanto brutali quanto coerenti: insofferenza e rifiuto nei confronti di ogni vincolo internazionale (a cominciare da quelli rappresentati da trattati multilaterali quali il protocollo di Kyoto, gli accordi sul controllo delle armi chimiche e batteriologiche, quelli contro i paradisi fiscali ed il riciclaggio di capitali, il trattato ABM con Mosca); rilancio in grande stile del protezionismo, con forti dazi sull’import di acciaio (decisi di fatto già nel giugno 2001) e generosissime sovvenzioni agli agricoltori (decise nell’estate 2001); rilancio delle spese militari (a partire dal progetto di difesa missilistica, ripreso sin dai primi mesi del 2001).

Cosa comporta tutto questo? Comporta, con tutta probabilità, la fine di una fase di liberalizzazione degli scambi mondiali, e l’inizio di una fase protezionistica. Ma significa anche che gli USA intendono mettere sul piatto la loro incontrastata supremazia militare al fine di conservare un’egemonia che sentono in pericolo.

In questo contesto, l’opzione della guerra diviene sempre più “naturale”. Con l’11 settembre, poi, gli USA hanno di nuovo un “nemico” e possono mettere da parte ogni remora all’esercizio sul campo della loro potenza militare.

Insomma: il “post-Guerra Fredda” sembra entrato in una fase convulsiva che presenta inquietanti tratti di somiglianza con la situazione pre-1914.

E’ essenziale che i lavoratori abbiano chiari i pericoli di questa nuova fase, ed in particolare il fatto che la guerra e le sue logiche costituiscono immediatamente un attacco anche a loro: alle loro rivendicazioni, alle loro lotte, ai loro diritti. In questo senso, la guerra non è solo a Kabul o a Bagdad: la guerra è già tra noi. Con le sue scelte di campo manichee (“chi non è con noi è contro di noi”, si è affrettato a dire Bush jr. nel settembre scorso), con l’uso politico della paura, con la sua logica repressiva e con la messa in opera di strumenti che vanno dalle leggi liberticide alla più totale manipolazione dell’opinione pubblica.

Vediamo di cosa si tratta, prendendo in esame tanto il “fronte esterno” quanto quello “interno”.

 

A. Il fronte esterno

1. Lo “stato di eccezione” comealterazione delle relazioni internazionali

“Ponendo la minaccia proveniente da Al-Qaeda e dai suoi sostenitori al di sopra di tutto, gli Stati Uniti hanno tentato di sospendere il normale funzionamento del sistema internazionale”. [4]

Sono parole tratte da un rapporto dello stesso istituto che abbiamo citato sopra. In altre parole: la “scusa bin Laden” è servita agli USA proprio per tentare di riprendere il controllo della situazione internazionale.

Si può insomma affermare che la grande invenzione della “guerra infinita” contro il terrorismo consista in un duplice tentativo: da un lato, quello di dare allo sforzo bellico - che non può avere l’estensione nello spazio caratteristica di una guerra mondiale - l’estensione nel tempo che consentirebbe di continuare ad alimentare il modello di sviluppo americano; [5] dall’altro, quello di mantenere sospeso a tempo indeterminato il normale funzionamento delle relazioni internazionali, prolungando indefinitamente lo “stato di eccezione”.

E’ più che probabile (oltreché auspicabile) che questo tentativo sia votato alla sconfitta: anche perché la solidarietà cieca che ha accompagnato le prime mosse degli USA dopo l’11 settembre è un fenomeno non ripetibile.

Però attenzione: sul fronte delle relazioni internazionali qualcosa di molto grave è già successo.

 

2. La “guerra contro il terrore” e lo scardinamento del diritto internazionale

L’intervento in Afghanistan degli USA e dei suoi alleati ha determinato un colpo durissimo a ciò che restava del diritto internazionale costruito dopo il 1945.

E’ stata infatti condotta una guerra senza dichiarazione di guerra. Una guerra illegale, che violava la Carta ONU. Su questo punto la propaganda di guerra è stata particolarmente virulenta, ed è riuscita nell’intento di occultare la realtà delle cose. Varrà quindi la pena di ricostruire con qualche dettaglio quanto è accaduto.

I passi utilizzati dagli USA per scatenare la guerra in Afghanistan, in violazione della Carta dell’ONU, sono stati i seguenti:

a) in primo luogo, si è considerato l’attacco terroristico dell’11 settembre come “un atto di guerra”, che però è tale - se le parole hanno un senso - solo ove vi sia aggressione di uno stato contro un altro stato;

b) in secondo luogo si è esteso indebitamente il “diritto all’autodifesa”, che la Carta dell’ONU contempla solo come diritto temporaneo a respingere un attacco “fintanto che il Consiglio di Sicurezza non abbia attuato le misure necessarie per il mantenimento della pace della sicurezza internazionale” (art. 51); infatti solo il Consiglio può intraprendere “con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace ela sicurezza internazionale” (art. 42);

c) in terzo luogo si è mosso guerra non ad uno stato “aggressore”, ma ad uno stato che aveva ‘dato ospitalità’ ai presunti terroristi;

d) in quarto luogo è stato mosso un attacco non “proporzionato” all’offesa subita;

e) in quinto luogo, la guerra è stata iniziata senza aver di fatto nemmeno esperito le alternative (in effetti gli USA hanno rifiutato il negoziato con i Talebani). [6]

E’ importante sottolineare che queste violazioni sono avvenute con la complicità del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che:

a) con la risoluzione 1368 del 12 settembre 2001 ha dichiarato gli attacchi terroristici dell’11 settembre “una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”, accettando così di fatto l’equiparazione tra atto terroristico e atto di guerra; [7]

b) ha sostenuto che “il diritto alla legittima difesa individuale o collettiva” era “in conformità con la Carta” (senza alcun cenno alle fondamentali limitazioni di cui sopra), e dunque offerto agli USA un pseudo-fondamento giuridico per la loro guerra; questo in aperta violazione dell’art. 42 della Carta, citato più sopra. [8]

Va notato che, sugli altri tre punti menzionati più sopra, neppure l’obbediente Consiglio di Sicurezza è stato in grado di trovare una foglia di fico adeguata a coprire l’illegalità dell’intervento americano in Afghanistan. Resta il fatto che il Consiglio di Sicurezza ha definitivamente abdicato al suo ruolo. Non può quindi stupire che il ruolo dell’ONU, in tutta questa vicenda, sia stato assolutamente ridicolizzato dagli USA, che sono giunti a bombardare le agenzie delle Nazioni Unite.

3. La guerra e il diritto (unilaterale) all’impunità

Il bombardamento di una sede ONU è un crimine. Come lo sono i bombardamenti su civili: e secondo stime attendibili i civili morti sotto le bombe americane in Afghanistan sarebbero tra i 4.000 e i 7.000.

La spiegazione per un numero così elevato di vittime civili, secondo Marc Herold, autore di una meticolosa ricerca sull’argomento, è una sola: “la volontà degli strateghi militari statunitensi di lanciare missili e sganciare bombe su aree densamente popolate dell’Afghanistan”. [9]

Cosa si cela dietro questa scelta? Anche in questo caso, è possibile una sola risposta: la volontà di terrorizzare la popolazione. Ossia, se le parole hanno un senso, di effettuare bombardamenti terroristici. L’ultimo di essi è avvenuto nel mese di giugno, durante un matrimonio.

Ai bombardamenti vanno aggiunti svariati massacri. A cominciare dal massacro di prigionieri a Mazar-i-Sharif, guidato dagli USA, che ha fatto parlare di “pulizia etnica in stile afgano”; [10] a questo proposito vale la pena di ricordare che, contro il parere dell’ONU e della Croce Rossa, gli Stati Uniti e l’Inghilterra si sono opposti anche soltanto ad un’inchiesta sui fatti accaduti. Analoghe carneficine sono avvenute in molte altre località.

Quanto sopra ha indotto l’alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Mary Robinson, a criticare con insolita ruvidezza gli USA per la loro gestione dell’intervento in Afghanistan. Dopo aver definito “irragionevolmente alto” il numero delle vittime civili, la Robinson ha aggiunto: “non posso accettare che vengano inflitti contro villaggi abitati i cosiddetti danni collaterali e che nessuno si preoccupi neanche di chiedere il nome o il numero dei morti. Sono molto preoccupata per questo modo di intervenire”. [11]

E’ una preoccupazione motivata: in realtà, prima in Afghanistan, poi a Guantanamo, sono state violate diverse convenzioni internazionali, a cominciare da quella di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra. A questo proposito, con particolare riferimento a Guantanamo, l’ex presidente del tribunale penale internazionale Antonio Cassese ha parlato senza mezzi termini di “disprezzo del diritto internazionale”. [12]

Disprezzo che si è da ultimo concretizzato nel rifiuto statunitense di aderire al Tribunale Penale Internazionale, per l’ovvio motivo che esso potrebbe perfino permettersi - pensate un po’ - di giudicare anche crimini americani. Nel 1998 gli Stati Uniti (con altri 6 paesi) avevano rifiutato di apporre la loro firma al trattato che istituiva questo tribunale. Alla fine del mandato, Clinton aveva infine aderito. Ma Bush ha ritirato [!] la firma dal trattato. Non solo: di recente ha ottenuto che i soldati americani in servizio sotto la bandiera delle Nazioni Unite godano - a differenza dei loro colleghi dei Paesi che hanno aderito al trattato - di un anno di immunità davanti al Tribunale Penale Internazionale. Un anno di impunità unilaterale per i padroni del mondo (e per gli altri Stati, tra cui Israele, che non hanno aderito al tribunale). E trascorso questo anno? Si avrà “una nuova discussione”, hanno detto i giornali. [13] In verità il testo approvato dall’ossequiente Consiglio di Sicurezza dell’ONU dice una cosa diversa: che sarà possibile “rinnovare la richiesta” di esenzione “alle stesse condizioni ogni 1 luglio per un ulteriore periodo di 12 mesi, per tante volte quanto necessario”. [14]

Insomma: la legge è uguale per tutti; ma per qualcuno è più uguale che per gli altri...

4. L’equiparazione tra movimenti di liberazione e terroristi

Se dalla parte degli USA abbiamo l’impunità più sfacciata, chiunque invece si opponga all’imperialismo americano ed ai suoi alleati di tutto il mondo, è marchiato con il marchio d’infamia di “terrorista”, con tutte le conseguenze del caso. Da questo punto di vista la portata della “Santa Alleanza contro il terrorismo”, in termini di lotta contro i movimenti di liberazione nei Paesi del Terzo Mondo, è stata assolutamente dirompente. Nella lista delle organizzazioni terroristiche, recepita anche dall’Unione Europea, sono in tal modo finiti i curdi del PKK, le FARC colombiane, nonché alcune importanti organizzazioni della sinistra palestinese (prima fra tutte il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina) ed altri movimenti di liberazione. Tutti questi movimenti sono stati messi nello stesso calderone di Al Qaeda.

Le conseguenze di questa equiparazione sono molto gravi. In tal modo, infatti, non soltanto si colpiscono questi movimenti in se stessi, ma si cerca di dare un serio colpo alla creazione di legami internazionalistici e solidarietà reciproca tra il movimento dei lavoratori in Europa (e negli USA) e quei movimenti. Si potrebbe obiettare che incontri a livello internazionale come quello del Forum Sociale di Porto Alegre dimostrano che invece l’internazionalismo è sempre vivo. In verità, proprio il Forum di Porto Alegre rappresenta una delle migliori conferme di quanto andiamo affermando: infatti in esso si è scelto di escludere organizzazioni come le FARC colombiane e Stati come Cuba, allegando - rispettivamente - il fatto di fare uso della lotta armata e la “mancanza di democrazia”. Ora, l’attuale presidente della Colombia, Uribe, è un fascista che da sempre appoggia le squadre della morte dell’AUC (senza che per questo i Paesi occidentali ritirino le loro rappresentanze diplomatiche). Quanto a Cuba, basterà dire che l’ex presidente degli USA, Jimmy Carter, ha recentemente dato prova di maggior apertura nei confronti del regime di Fidel Castro di quanta ne abbiano manifestato gli organizzatori di Porto Alegre.

L’episodio citato dimostra che il timore di essere assimilati ad “organizzazioni terroristiche” o a loro “fiancheggiatori” ha già rappresentato, per buona parte delle organizzazioni di sinistra, un efficace deterrente nei confronti dello svilupparsi di un confronto con alcune componenti importanti dei movimenti di liberazione dell’America Latina. Anche in questo caso, l’imperialismo ha segnato un punto - e un punto importante - a proprio favore.

5. La “guerra al terrorismo”: legittimazione e normalità della guerra

Come abbiamo visto, dopo l’11 settembre e la guerra in Afghanistan, la forza - ossia la guerra - viene posta esplicitamente come supremo principio regolatore dei rapporti tra gli Stati. [15] Tutto questo avviene in un contesto dominato dall’”unilateralismo” americano, che mentre rivendica l’impunità per i propri crimini chiede agli Stati alleati di collaborare fattivamente a schiacciare tanto gli Stati quanto i movimenti di liberazione che ostacolano i suoi interessi.

La “guerra contro il terrore”, insomma, viene adoperata dagli USA come una cambiale in bianco, da far valere di volta in volta contro il nemico di turno.

Un esempio? L’uso che si è inteso fare dell’art. 5 del trattato istitutivo della NATO. Come è noto, la NATO, sùbito dopo l’11 settembre, è stata chiamata (per la prima volta nella sua storia) a dichiarare guerra - ad un nemico ancora senza volto - per solidarietà con gli USA “attaccati”, a norma dell’art. 5 del Trattato istitutivo dell’Alleanza. Ma già l’8 dicembre il suo zelante segretario generale, l’inglese Robertson, in un’intervista a die Welt, diceva che l’art. 5 avrebbe potuto essere utilizzato anche contro l’Irak: “se ci dovessero essere delle prove sul coinvolgimento dell’Irak negli attentati contro gli Stati Uniti, allora l’articolo 5 potrebbe ancora valere”. Due giorni prima, questa volta in un’intervista rilasciata al giornale arabo Al Hayat, Robertson aveva fatto un’affermazione ancora più sorprendente: “la coalizione internazionale non ha mai detto che la lotta al terrorismo è limitata a Osama Bin Laden e alla sua organizzazione al Qaeda o al regime afgano dei Talebani. Il principale obiettivo continuerà a essere sconfiggere il terrorismo, e nel momento in cui vi saranno informazioni di covi di terroristi, questi luoghi saranno bombardati”.

La guerra diventa così un evento normale, equiparabile ad un’operazione di polizia. Con la “guerra al terrorismo”, insomma, il governo americano è riuscito a far passare l’idea della normalità della guerra. E’ quanto notava recentemente, con malcelato stupore, lo stesso periodico economico Fortune: “la cosa surreale è che, almeno per ora, a Washington si parla di sferrare un attacco a Saddam nello stesso modo in cui discuterebbe, poniamo, di votare una legge sulla scuola”. [16]

Ma il punto è proprio questo: ciò che ieri avremmo definito “surreale”, oggi non lo è più. E con questa operazione si colgono numerosi obbiettivi sul piano interno. A cominciare dalla conquista del consenso.


[1] Questo articolo è il secondo di una serie di due articoli. Il primo, dal titolo “Perché la guerra fa bene all’economia” (pubblicato su Proteo, n. 3/2001, pp. 111-118), è stato dedicato ad un’analisi dell’utilizzo della guerra e del “Warfare”, da parte degli USA, come strumento per rilanciare l’economia.

[2] S. Cingolani, “Le guerre di mercato”, Aspenia, n. 16, 2002, p. 70. “La ‘belle epoque’ è finita! Imperialismo ed economia di guerra” era il titolo di un Quaderno di Contropiano pubblicato nel novembre 2001 e dedicato alla guerra in Afghanistan.

[3] “The Intensification of Global Instability”, Stratfor.com, 21 febbraio 2002.

[4] “Second Quarter Forecast: Living in an Asymmetric World”, Stratfor.com, 9 aprile 2002.

[5] Se questo tentativo funzionasse, sarebbero almeno in parte superati i dubbi espressi da M. De Cecco nell’ottobre 2001: “Si può, e certamente sarà fatto, dar lavoro all’industria della difesa e spazio con grandi commesse statali, ma si tratta di un settore specializzato, che solo in parte coinvolge anche i produttori di beni civili, come le automobili. Se si trattasse di una grande mobilitazione bellica, tutti i settori industriali sarebbero coinvolti, e la General Motors produrrebbe navi, come ha fatto nella seconda guerra mondiale, o grandi missili, come durante la guerra fredda. Ma non stiamo parlando di questo tipo di mobilitazione, per fortuna dal punto di vista politico, ma sfortunatamente da quello economico” (“Quando l’angoscia governa l’economia”, la Repubblica, 5 ottobre 2001)

[6] Sull’argomento si veda M. Mandel, “All’Aja una farsa irrilevante”, il Manifesto, 17 marzo 2002.

[7] L’espressione “atto di guerra”, però, non viene usata: evidentemente era troppo anche per loro...

[8] E’ un pseudo-fondamento perché la Carta prevale comunque sulle risoluzioni del Consiglio: “nessuna interpretazione, per quanto autorevole, può modificare la Carta” (D. Gallo, “L’illegittima Difesa”, il Manifesto, 21 ottobre 2001). E quindi, a dispetto dell’on. Napolitano (vedi lettera a Repubblica del 14 ottobre), questa guerra è e resta illegale. In materia vedi anche M. Chemillier-Gendreau, “L’abdicazione del Consiglio di Sicurezza”, le Monde diplomatique, 6 novembre 2001, e l’appello firmato da 120 giuristi italiani “Il no del diritto” pubblicato sul Manifesto il 10 novembre 2001. Non si può quindi legittimamente affermare che “le due risoluzioni 1368 e 1373... conferiscono piena legittimità alle azioni per fronteggiare e sradicare la minaccia terroristica”, se - come sembra - queste frasi sono riferite alla guerra (lettera di Ciampi a Kofi Annan del 25 ottobre 2001).

[9] Vedi http://pubpages.unh.edu/ mwherold/ (vedi anche www.media-alliance.org). Una versione non definitiva della ricerca è stata parzialmente pubblicata dal Manifesto, il 23 dicembre 2001, con il titolo “Quando i morti non contano”.

[10] Vedi R. Caprile, “La repressione guidata dagli USA” e P. Garimberti, “Pulizia etnica in stile afgano”, entrambi su la Repubblica, 29 novembre .

[11] Intervista a Die Zeit, rilanciata dall’Adnkronos/DPA il 6 marzo.

[12] Articolo su la Repubblica del 24 gennaio con questo titolo.

[13] P. Veronese, “Un anno di impunità ai marines”, la Repubblica, 13 luglio 2002.

[14] Vedi il buon commento di D. Zolo, “Sopra tutto”, il Manifesto, 14 luglio 2002 (il quotidiano riporta anche il testo integrale del dispositivo del Consiglio di Sicurezza).

[15] Su questi temi vedi il saggio di S. Senese “Guerra e nuovo ordine mondiale”, in Questione Giustizia, n. 2/2002.

[16] B. Powell, “How a War With Iraq Will Change the World”, Fortune, 8 luglio 2002.