1. Introduzione
Eric Helleiner nel suo ormai classico lavoro sulla
finanziarizzazione dell’economia mostra come tale processo sia stato stimolato
e sospinto dallo Stato in risposta alla crisi del sistema di Bretton Woods [1]. In tal
senso gli stati occidentali si sono mossi nella direzione della crisi dell’accumulazione
reale iniziatasi ai primi degli anni Settanta. Il principale effetto tangibile
del processo della finanziarizzazione è costituito dall’accresciuta
aleatorietà dell’investimento reale. Se le condizioni per effettuare quest’ultimo
diventano più difficili anche l’ottenimento di profitti da investimenti
produttivi risulterà più ostico. Per Keynes l’aleatorietà dell’investimento
caratterizzava lo stato normale dell’economia per cui la scappatoia verso
attività il cui rendimento non comportava un relativamente alto rischio di
illiquidità era tanto più presente quanto più il sistema finanziario e
borsistico erano efficienti. Per Lenin invece lo sviluppo del sistema
monopolistico conteneva gli elementi della sua finanziarizzazione ed in questo
contesto i movimenti internazionali di capitali e l’imperialismo assumevano
delle caratteristiche connaturate al sistema economico stesso. Le due tesi
sembrano ricongiungersi a partire dagli anni Ottanta quando alla crisi dell’investimento
nei maggiori settori dell’economia corrisponde un vero e proprio boom nei
settori finanziari e nelle tecnologie, spesso nuove e di punta, ad esso
connesse.
La finanziarizzazione è sostenuta attivamente dagli stati e
ciò contribuisce a modificare la definizione stessa del settore pubblico e di
ciò che conviene che sia pubblico o privato. In sostanza lo Stato assume non
solo la funzione di assecondare l’espansione finanziaria ma di diventare a sua
volta una fonte di surplus finanziari appunto. La natura proprietaria delle
imprese viene oggi disgiunta anche dalle tradizionali considerazioni liberali
concernenti i monopoli naturali, la necessità di offrire servizi che, sebbene
non regolarmente domandati, debbono essere sempre disponibili come i pompieri e
le ambulanze. È scomparso totalmente il ragionamento, una volta presente nei
tradizionali manuali di finanza pubblica, secondo il quale un servizio pubblico
non può essere valutato in termini di costi e ricavi, quindi in base al
profitto, perchè il suo eventuale deficit in realtà sovvenziona una
molteplictà di attività che di tale servizio usufruiscono. L’eliminazione di
considerazioni tecnico-normative che provengono dallo stesso pensiero liberale
è da ascriversi alla concezione puramente finanziaria delle forme di proprietà
che annega e distrugge la stessa base tecnica su cui si fonda la ragion d’essere
di una società sia privata, sia pubblica.
2. Mutamento del ruolo della finanza pubblica
Apparentemente gli stati vendono attività pubbliche con l’obiettivo
di alleggerire il bilancio o di ripianare dei deficit e così via. In realtà,
una parte del lavoro erogato che i cittadini occupati recuperano sottoforma di
salario deve essere ulteriormente sacrificata per mantenere in attivo il
bilancio pubblico senza pertanto ottenere alcuna contropartita in termini di
servizi. Pagare per respirare dunque. Perchè? Perchè lo Stato deve
trasformarsi in una società finanziaria, non bancaria, forma moderna dell’esazione
feudale? La risposta va articolata su due livelli. Il primo è quello
macroeconomico, il secondo riguarda le garanzie contro il rischio e le
disfunzionalità, ben note ai neo-proprietari, inerenti alle privatizzazioni.
Sul piano macroeconomico la necessità di disfarsi dai
deficit di bilancio corrisponde all’esigenza di punire, attraverso la
scarsità sociale della moneta, la popolazione lavoratrice - accusata di
domandare troppi servizi e beni sociali quando l’accumulazione era già
entrata in crisi -. Non c’è bisogno di ipotizzare un ‘piano del capitale’
per spiegare la volontà punitiva nei confronti del lavoro dipendente. Basta
constatare come lo Stato si faccia carico - attraverso la politica - delle
preoccupazioni del settore privato, quello delle imprese e quello bancario. La
crisi dell’accumulazione comporta un orientamento pessimistico nelle
aspettative di profitto imprenditoriale. Concretamente le imprese si
adopereranno quindi per aumentare la pressione per una flessibilità verso il
basso dei salari rispetto alla produttività. Le aspettative negative si
riproducono nel settore bancario. Tanto più le banche temono l’avvenire,
tanto più esse esigeranno delle rendite sui prestiti erogati. Questi due
aspetti non possono però coordinarsi spontaneamente. Devono invece venir
incorporati nelle politiche della Banca Centrale ed in quelle della finanza
pubblica. La prima, attraverso il tasso di interesse, deve dunque emettere una
norma monetaria compatibile con le aspettative ed i desideri del settore
bancario cui si deve adeguare anche la finanza pubblica [2]. Quest’ultima
deve assecondare le attese di austerità sia da parte dei mercati finanziari che
da parte delle imprese nei confronti dei salari. Sulla finanza pubblica ricade
quindi il compito di introiettare l’austerità nella gestione del rapporto tra
massa salariale e spesa sociale dato che nelle economie capitalistiche post 1945
questi due elementi sono strettamente collegati, perfino negli Stati Uniti ove
il welfare state è minimo. In questo contesto, la riduzione dei profitti
indotta dalla restrizione della spesa pubblica non induce ad un mutamento nel
consenso capitalistico riguardo l’austerità salariale e generale. Ad
eccezione di casi ove la crisi è percepita come una reale minaccia di
implosione del sistema economico (Giappone), l’austerità iniziale comporta un’ulteriore
dose della medesima.
Raramente tale ricetta produce la quadratura dei conti. La
riduzione della spesa pubblica, l’aumento della disoccupazione permanente, la
necessità di correre in salvataggio di istituti finanziari in eventuale
difficoltà [3] - difficoltà a
loro volta indotte dalla crisi dell’accumulazione reale - impone allo Stato,
una volta introiettata dalle forze politiche l’austerità salariale ed i
corrispondenti desideri di rendita da parte del settore bancario, di predisporre
gli strumenti volti ad evitare il riemergere dei defict pubblici ed il
conseguente deragliamento delle politiche di supporto ai mercati finanziari ed
alla flessibilità del salario e del lavoro. Le privatizzazioni entrano in
questa logica che si sposa pienamente con l’obiettivo di classe di arricchire
il capitale privato trasferendo nelle sue mani ampi fette di richezza pubblica.
In tal modo vengono spesso presi due piccioni con una fava perché le
privatizzazioni comportano l’aumento della precarietà dei dipendenti delle
ex-aziende pubbliche acuendo così la flessibilità del ‘mercato del lavoro’.
Dall’aspetto macreconomico passiamo ora a quello aziendale
e vedremo come questo si colleghi al primo attraverso le disfunzionalità che la
privatizzazione dei servizi pubblici comporta.
Il capitalismo fordista o militar-keynesiano che dir si
voglia, non si poneva in realtà un problema di privatizzazione dei settori
nazionalizzati. Tanto meno si poneva il problema di privatizzare le aziende di
pubblica utilità. Dato il settore pubblco quello privato si espandeva grazie
alla domanda sostenuta dalla spesa statale. A sua volta l’estensione dei
servizi implicava un adeguamento della dimensione del settore pubblico. Oggi per
privatizzazione si intendono prevalentemente le aziende di pubblica utilità non
solo perchè quelle tradizionali o sono state già vendute o, il più delle
volte, sono state chiuse. Ma soprattutto perchè nei settori serviti dalle
aziende di pubblica utilità si trovano o si pensa di trovare delle sicure fonti
di rendita. Il fatto che il capitalismo fordista militar-keynesiano non avesse
delle grandi idee sulle privatizzazioni - negli USA, ove anche acqua e telefoni
appartenevano a società private, il problema non si poneva - comportava la
mancanza di regole e di metodi in materia. Inoltre la stessa distruzione della
coscienza pubblica, condizione necessaria per passare alla privatizzazione
globale, riultava problematica. Infatti non tutte le classi dirigenti dei paesi
capitalistici aventi un ampio settore pubblico, potevano permettersi la guerra
frontale scatenata da Margaret Thatcher prima di passare alle privatizzazioni
che vennero in realtà assai più tardi e mai nella dimensione programmata dal
governo laburista attuale che ha addirittura privatizzato settori ancora
formalmente pubblici con il trucco dei mercati interni.
3. Privatizzazioni laburiste
Procedure istituzionali, quindi soft, di privatizzazione sono
venute da paesi capitalisti periferici ma fortemente ancorati al cuore del mondo
anglo-americano. Si tratta dell’Australia, della Nuova Zelanda e del Canada la
cui esperienza va vista però provincia per provincia. Ad ogni modo le
esperienze di questi paesi sono state incorporate dall’Ocse, dalla Banca
Mondiale e al Fondo Monetario come indicazioni o modelli procedurali [4]. Anche le massicce privatizzazioni effettuate da Jospin
durnate il suo malaugurato governo - tanto ammirato dalla pseudo sinistra
italiana - sono state ispirate, forse indirettamente, dalle procedure adottate
dalle suddette nazioni anglosassoni. Infine la politica privatistica di Blair è
stata esplicitamente influenzata dall’ esperienza australiana, anch’essa
laburista, del periodo 1983-96 [5].
Lo schema generale ricalca le osservazioni macroeconomiche
svolte in precedenza. Tuttavia il ferreo controllo laburista sui sindacati, da
cui provengono la maggioranza dei leader di quel partito, ha comportato la
simultaneità della politica di restrizione di bilancio con la modificazione in
senso negativo dei contratti collettivi di lavoro. L’effetto si è sentito
soprattutto nel settore pubblico le cui componenti hanno subito da un lato una
riduzione, prima relativa poi assoluta, dei fondi erogati e dall’altro un
netto deterioramento nei rapporti contrattuali che ha aperto la strada alla
flessibilità, vedi calo, salariale. Contemporaneamente i laburisti hanno
sollecitato modificazioni negli ordinamenti interni degli enti pubblici
trasformando le carriere dirigenziali in carriere manageriali. Ne consegue che i
manager ottenevano il permesso di fissare i loro stipendi in base alle ‘condizioni
di mercato’. Però ad esclusione del campo medico i cosiddetti ‘mercati’
non esistevano per cui come approssimazione venivano presi gli stipendi ed
emolumenti versati da aziende private di comparabile grandezza. I contratti di
lavoro sancivano la crescente divaricazione salariale trasformando lo stipendio
contrattuale in un salario minimo. Infatti i laburisti hanno richiesto ai
sindacati di accettare la contrattazione individuale per ogni aggiunta al
salario pattuito collettivamente. La trasformazione del salario contrattuale in
stipendio minimo di base non poteva che spingere la maggioranza dei dipendenti a
ricercare un introito aggiuntivo attraverso la contrattazione individuale. In
tal modo la dirigenza neomanageriale poteva richiedere come contropartita nuove
condizioni normative valvoli però per tutti - ricalcanti precise indicazioni
del governo - volte ad introdurre criteri di produttività anche in servizi non
tangibili. A sua volta la contabilità interna di queste aziende ed enti subiva
una mutazione sostanziale. La riduzione dei fondi pubblici e l’esplosione
delle paghe manageriali riduceva tanto le voci per gli stipendi, quanto quelle
afferenti alla produzione dei servizi, a somme residuali. In altre parole, prima
si assicurano gli stipendi manageriali poi gli altri e se non rimane niente, il
nuovo cat scan non si compra, oppure se si compra si devono pianificare
ristrutturazioni, licenziamenti, per l’anno prossimo. Questa libertà di
manovra si rendeva possibile grazie alla sostituzione della normale direzione
burocratica con consigli di amministrazione aventi poteri autonomi in materia di
spesa di assunzioni e di licenziamenti.
Fin qui gli enti sono ancora formalmente pubblici. La
privatizzazione appare in due forme, una diretta ed una indiretta, ossia
attraverso i cosiddetti mercati interni di Blair, già ampiamente sperimentati
in Australia, Nuova Zelanda e Canada. Ambedue le forme derivano dai tagli al
bilancio pubblico. Le decurtazioni di bilancio introducono un vincolo severo
interno all’ente il quale ha difficoltà ad espletare la sua funzione tecnica.
Non ha i soldi e va in deficit. L’ente viene quindi considerato inefficiente e
se ne propone da parte del governo, generalmente statale nel caso dell’Australia
e provinciale nel caso del Canada, la privatizzazione. Ma come si fa a
privatizzare un ente inefficiente? Ristrutturando è vero ma come? Si
commissiona ad una società di consulenza esterna, generalmente una
multinazionale, un rapporto sulle potenzialità competitive dell’ente e sulle
modalità per risanarlo. In effetti tutte le attività dell’ente in questione
vengono esaminate da consulenti il cui unico obiettivo è la valutazione
finanziaria. Questa è una fase molto importante e delicata della
privatizzazione perchè crea un’osmosi tra le società di consulenza e la
dirigenza manageriale dell’ente. Invariabilmente il rapporto finale
raccomanderà schemi di pensionamento anticipato per alcuni dirigenti, i quali
spesso e volentieri passano subito a lavorare presso le suddette società di
consulenza, la messa in esubero di un certo numero di dipendenti normali, con la
liquidazione soggetta a contrattazione. Infine si propone lo scorporo tra
attività tecniche ed attività di coordinamento, subappaltando le prime. Si
ottiene così l’esternalizzazione dei costi dei servizi effettivi e l’ente
appare ormai come la finanziaria delle imprese di subappalto. Infatti compiuta
questa operazione lo Stato continuerà ed erogare i soldi all’ente, ormai
libero del suo apparato tecnico, magari anche con la creazione di un lauto fondo
di garanzia. Ecco dunque che l’ente diventa molto appetibile ad eventuali
società private. Ciò che la prestigiosa SNCF si apprestava a fare l’anno
scorso varando il piano clientela e scorporando la componente viaggiatori dalla
componente tecnica, locomotori,ecc, era già stato visto, vissuto e sofferto in
Australia ed in Gran Bretagna.
Prima di passare all’analisi dei mercati interni voluti da
Blair dobbiamo inoltrarci un attimo nell’azienda quando è già passata ai
privati. Abbiamo visto che tutta la procedura di privatizzazione si fonda su
criteri finanziari. La produzione dei servizi diventa secondaria ed è percepita
come fonte sicura di rendite. Ma queste però possono risultare insufficienti
rispetto ad altre possibilità che si presentano sui mercati finanziari interni
od esteri. Se è così, come è già successo in Nuova Zelanda e nello stato del
Vittoria in Australia nel campo delle centrali elettriche, le società private -
specificatamente al Vittoria si trattava di società americane - vendono e se ne
vanno. Per assicurare l’erogazione dell’elettricità lo Stato deve
riacquistarle. Tuttavia mentre ha privatizzato svuotando, è vero, l’ente del
suo contenuto tecnico ma rimpolpandolo di denaro liquido, in genere ricompra
delle società sotto-capitalizzate. Cosa questa che è in procinto di accadere
in Gran Bretagna nelle ferrovie. Il meccanismo di privatizzazione spesso e
volentieri induce alla sotto-capitalizzazione dell’azienda. La società
acquirente è attirata prevalentemente dal lucro sepculativo, dall’esistenza
del fondo di garanzia grazie allo Stato e dalla promessa da parte dello Stato di
sostenere per un certo periodo i valori azionari della neoprivatizzata. Notiamo
subito che tutto ciò impone allo Stato due funzioni. Da un lato esso è
garante, attraverso l’austerità del bilancio pubblico globale, delle
aspettative di lucro dei mercati finanziari. Dall’altro lato lo Stato deve
accumulare soldi pubblici per sostenere direttamente i valori azionari, almeno
in una fase iniziale, proprio per evitare il pericolo che le società acquirenti
escano repentinamente. In Gran Bretagna il sostegno del valore azionario delle
ferrovie privatizzate è ormai permanente. La spesa pubblica britannica
confluisce verso le ferrovie non per ragioni di investimento tecnico e
strutturale, che sono invece in drammatico declino, ma per sostenere il valore
delle azioni! Nella privatizzazione finanziaria lo Stato assume una doppia
funzione parassitaria, ottiene dal pubblico un introito netto una parte del
quale va a sostenere la componente finanziaria di operazioni fallimentari
private.
Quando l’acquirente privato entra in possesso di un’azienda
di pubblica utilità trova già predisposta la struttura organizzativa che
permetterà di concentrarsi sulle rendite. L’esternalizzazione delle
operazioni tecniche pone l’acquirente in condizioni di sprmere ulteriormente
le società subappaltrici a scapito della funzionalità tecnica del servizio. La
proponsione ad investire ed a modernizzare è bassa mentre quella ad usare i
fondi di garanzia per motivi speculativi è alta. La sottocapitalizzazione è
insita nelle procedure stesse di privatizzazione. Se poi ci si trova di fronte a
servzi le cui unità tecniche sono indivisibili, come nel campo delle centrali
elettriche, allora diventa inutile andare per il sottile: si accumulano soldi e
non si fanno investimenti finchè il sistema non regge più. A quel punto si
vende al vecchio venditore che, essendo lo Stato su cui incombe il dovere di
garantire i servizi essenziali, deve assolutamente comprare.
Nel caso dei mercati interni voluti da Blair cambia la forma
ma non la sostanza. Vi sono vari modi per concepire un mercato interno. Tutti
però si basano su una contabilità fittizia in cui vengono inventati dei
parametri per far emergere degli squilibri di bilancio interni su cui poi agire
in base a ristrutturazioni, chiusure e contratti di lavoro flessibili. Si prenda
ad esempio l’istruzione universitaria. Basta introdurre una componente
privata, permettere cioè l’esistenza di una fascia di studenti paganti per
stabilire delle medie cui l’istituzione dovrebbe tendere nel rapporto studenti
paganti/insegnanti. Ovviamente non tutte le facoltà si troveranno su questa
media. Quelle inferiori alla media sono dichiarate in deficit ed in attivo
quelle situate ad un livello superiore. Èinoltre sufficiente stabilire il
principio dell’autonomia manageriale di ciascuna facoltà affinchè il surplus
fittizio non sia trasferibile. Come nel caso dei paesi colpiti dalle misure di
aggiustamento strutturale del Fondo monetario, le facoltà deficitarie dovranno
effettuare l’aggiustamento con drastici tagli interni e con la ricerca di
nuovi prodotti, corsi paganti, masters serali corsi per corrispondenza
elettronica e via di seguito. L’innovazione dei prodotti non comporta in
genere alcuna nuova assunzione, se non precaria e part-time, con il conseguente
aumento dello stress lavorativo. Un fattore di ulteriore aumento dell’intensità
del lavoro è dato dalla ipertecnologizzazione di tali istituzioni, almeno nel
mondo anglosassone. Questo permette la moltiplicazione dei moduli concernenti
garanzie di qualità, come un prodotto, che richiedono molto tempo per essere
istruiti. Inoltre la ricerca del mercato, cioè degli studenti, in maniera
competitiva impone la formulazione di criteri contrattuali precisi,
specificazione dettagliata degli obiettivi dei corsi, specificazione dello
sbocco conoscitivo finale ecc, al fine di evitare vertenze legali con la
clientela pagante. Ciò richiede un elaborato lavoro elettronico, corso per
corso assieme alla messa in rete delle bibliografie, appunti per le lezioni,
note varie. La managerializzazione verso l’alto ed il cumulo di attività
didattiche ed amminstrative attraverso la tecnologizzazione programmata dai
manager, dequalifica il corpo docente in quanto, assieme alla affannosa ricerca
dei mercati, viene ridotto il tempo disponibile per il proprio sviluppo
professionale ed intellettuale. Inoltre il cumulo, grazie ai computer, di
mansioni amministrative e didattiche dà lo spunto alla direzione manageriale di
trattare le funzioni del personale amministrativo come ridondanti. Il tornaconto
capitalstico sta nella subordinazione totale dell’istruzione superiore alle
più immediate esigenze del mercato, nonchè nel fatto che - entrando negli
schemi di finanziamento una molteplicità di elementi - si crea un alto flusso
di denaro che, in base ad una contabilità fondata sul throughput permette l’espansione
degli strati manageriali7.
La privatizzazione dei servizi della sanità invece alimenta
direttamente l’ammontare accaparrato dai fondi privati aiutati dallo Stato con
una legislazione diretta a spostare la popolazione dal servizio pubblico all’assistenza
sanitaria privata. Ciò vene attuato con una soprattassa sulla salute per chi
rimane con il servizio pubblico e con politiche di sgravi fiscali e polizze
speciali da sottoscrivere non oltre una certa data per stimolare l’abbandono
del settore pubblico. La privatizzazione tipo Australia laburista-Blair dei
servizi sanitari, ha una doppia valenza speculativa e destrutturante. La
stimolazione dell’emigrazione della popolazione verso società di
assicurazione private aumenta il capitale speculativo di queste a scapito del’investimento.
Negli ultimi anni sia negli USA che in Australia l’instabilità finanziaria ha
colpito parecchie società asscuratrici lasciando scoperte decine di migliaia di
persone. Inoltre, nella misura in cui l’emigrazione verso il privato ha
successo e le famiglie aprono polizze concernenti l’assistenza sanitaria, il
governo centrale riduce l’erogazione di fondi al settore pubblico aumentando
il rigore di bilancio ed il surplus e con esso le difficoltà degli ospedali.
4. Privatizzazioni e Banca Mondiale
Rispetto ai paesi summenzionati le privatizzazioni nei paesi
sottosviluppati differiscono in intensità e per la connessione che viene
stabilita tra le politiche economiche della Banca Mondiale del Fondo monetario e
gli interessi delle grandi multinazionali. Spesso nei paesi del terzo mondo
vengano realizzate delle privatizzazioni che prefigurano le condizioni del
nostro prossimo futuro specialmente per ciò che concerne elementi vitali come l’acqua..
Uno di questi casi proviene dalla Bolivia ove dal 1999 al 2000 si sviluppò una
forte battaglia a causa della privatizzazione dell’acqua nella città di
Cochabamba, la terza nel paese per numero di abitanti. È un caso molto
importante perchè la storia degli eventi che hanno portato nel 2000 ad una vera
e propria rivolta obbligando la società dell’acqua ad un completo dietro
front nella politca tariffaria, costituiscono di per sè una elucidazione delle
dinamiche in atto.
Nel 1998 la Banca mondiale rifiutò di firmare una garanzia
su un prestito di 25 milioni di dollari per il risanamento della rete idrica e
de servizi dell’acqua nella città a meno che il Governo non fosse disposto a
prendere immediate misure di privatizzazione completa dell’azienda municipale.
Solo un’offerta venne presa in considerazione proveniente da una sussidiaria
dalla multinazionale USA Bechtel. Appena installatasi a Cochabamba la Bechtel
annunciò il raddoppio delle tariffe. Inoltre la Banca mondiale aveva ottenuto
che ai concessionari privati venissero conferiti poteri di monopolio in nome del
prezzo a costo pieno dell’acqua. L’organismo di Washington fece agganciare
le tariffe dell’acqua al dollaro e proibì che i suoi prestiti al governo
boliviano venissero utilizzati per sovvenzionare il consumo d’acqua dei più
poveri. La politica della tariffa a costo pieno della Banca mondiale altro non
è che il sostegno ai saggi di profitto desiderati dalla società
multinazionale. Tale margine era del 16 per cento annuo garantito dal Governo in
rapporto all’ammontare dell’investimento. E chiaro che un tale margine di
profitto non è diretto alla investimento reale bensì all’accumulazione di
una rendita da monopolio da indirizzare poi verso le piazze finanziarie
speculative. La Banca mondiale era riuscita ad imporre le sue scelte sulla
Bolivia minacciando di intervenire presso il Fondo monetario ed altre fonti di
credito per interrompere ogni prestito.
Nel giro di poche settimane gli utenti si videro aumentare le
tariffe dal 100 al 200% portando il costo mensile dell’acqua ad oltre il 20%
del bilancio di una famiglia con 100 dollari al mese. Nel giro di un anno una
rivolta popolare obbligò il Governo boliviano ad espellere la Bechtel, ad
abolire le esorbitanti tariffe ed a rimunicipalizzare l’acqua. Vi sono stati
episodi ben più gravi con saggi di profitto che raggingevano anche il 700% il
che vuol dire che di investimento non c’era proprio niente. In queste
situazioni la politica monetaria e fiscale deve assorbire gli alti tassi di
profitto e proteggerli con le politiche di aggiustamento strutturale. In Bolivia
il quadro analitico non è poi tanto diverso da quanto è successo ai primi di
quest’anno in Francia allorchè il governo Jospin privatizzò senza nessun
dibattito pubblico all’Assemblea Nazionale la società delle Autostrade del
sud per accelerare l’avvicinamento al tanto agognato defiit zero, come in
Argentina.
Conclusioni
La carellata sul tema delle privatizzazioni permette di
svolgere tanto considerazioni economiche quanto osservazioni puramente
politiche.
Nel mondo economicamente avanzato le privatizzazioni si
effettuano nei settori strategici come nella telefonia e sempre di più nei
settori dei servizi terziari. Nel primo caso l’obiettivo è esplicito ed è
collegato alla formazione di oligopoli dominanti in settori a rendite
assicurate. Nei servizi terziari di natura storicamente pubblica la
privatizzazione, cambiando le condizioni contrattuali e normative introduce
precarizzazione, diversificazione nelle funzioni sociali e anche
dequalificazione per l’uso vieppiù capitalistico della tecnologia.
Considerando che nei paesi avanzati la crescita occupazionale nell’ultimo
ventennio è stata più forte nei settori aventi una ruolo di servizio pubblico,
i processi in atto proletarizzano e precarizzano la gran massa delle persone ivi
impiegate. Senza la presenza, ancora debole, di organizzazioni sindacali o
comunque solidaristiche in questi settori, che non potranno mai più venir
ricompattati in un quadro di stabilità corporativa, si delinea la possibilità
che i servizi, compresi quelli dell’istruzione superiore, generino nel futuro
massicce ondate di precariato e di disoccupazione [6].
La privatizzazione finanziara porta i paesi sviluppati ed i
paesi poveri ad avere la stessa politica in materia di finanza pubblica, il che
dal punto di vista oggettivo dei rispettivi problemi è un’evidente
irrazionalità del mondo reale. In ambo i casi il ruolo della finanza pubblica
è unicamente deflazionistico in quanto lo Stato si deve trasformare in garante
della stabilità del valore monetario della ricchezza nonchè deve agire come
protettore degli interessi finanziari nei confronti del rischio, spesso reso
più acuto dalle politiche di trozzinaggio praticate dalle società privatizzate
(in Bolivia ed in California-Texas ad esempio). La nuova concezione della
finanza pubblica in funzione delle privatizzazioni comporta pertanto la
trasformazione dello Stato in un accumulatore netto di attività. Questo
elemento acuisce la crisi dell’accumulazione reale perchè uno Stato che tende
verso attività nette si fa pagare piuttosto che creare domanda.
Oltre che a detrarre della domanda effettiva, lo Stato,
attraverso le privatizzazioni, genera instabilità finanziaria. Infatti quando
un’impresa privata - non privatizzata - vende delle azioni al pubblico ottiene
del denaro che, in linea di pricncipio, potrebbe utilizzare per migliorare la
capacità produttiva, i prodotti ecc aumentando quindi per il futuro le
probabilità di un flusso di reddito da impresa sostenuto. In tal caso le azioni
in mano al pubblico hanno un riscontro nella capitalizzaione dell’impresa che
le ha emesse. Invece nel caso delle privatizzazioni, i soldi raccolti con la
vendita delle azioni delle società in via di privatizzazione non vanno a queste
società bensì allo Stato che li usa per finanziare la spesa pubblica ed
eventuali fondi di garanzia. In altri termini le imprese non ricevono i denari
raccolti dopo la prima emissione azionaria. Esse partano sottocapitalizzate. É
per questo che i prezzi di vendita della azioni sono al momento di partenza
assai bassi relativamente agli sviluppi successivi. Un’impresa
sottocapitalizzata non può effettuare investimenti significativi quindi non
contribuisce in modo sostanziale alla creazione della domanda In mancanza di
basi solide per l’investimento le neoprivatizzate dipendono dalle aspettative
speculative che provengono dai mercati finanziari. Qualora queste si
sgonfiassero, o qualora problemi tecnici le indebolissero (gli incidenti delle
società ferroviare in Gran Bretagna sono dovuti alla mancanza di investimenti)
lo Stato è costretto ad intervenire sul mercato azionario per garantire un
minimo di stabilità.
Le privatizzazioni di oggi non sono il prodotto di un
processo razionale in base al quale viene valutato il pro ed il contro riguardo
questa o quella fabbrica di mattoni, di acciao in quanto fabbriche di quei
prodotti. Oggi la privatizzazione viene fatta in funzione di aspettative
speculative sul piano azionario ed in funzaione dell’austerità salariale che,
in ultima analisi, travolge lo stesso ruolo della finanza pubblica. Tale
scenario non si presta ad un recupero keynesiano. Esattamente come non è
possibile recuperare Maastricht o l’‘Europa’ all’interno di un quadro
keynesiano, come molto erroneamente credono Valentino Parlato e Lucio Magri. La
trasformazione finanziaria ha generato cambiamenti sia nella scala degli
interessi economici sia nel personale funzionariale civile. Ormai nei maggiori
paesi capitalistici la tendenza è verso la somparsa del civil servant
(funzionario pubblico) e la sua sostituzione con individui perfettamente
omogenei al sistema del capitale finanziario attuale.
[1] Eric
Helleiner. States and the Reemergence of Global Finance: from Bretton
Woods to the 1990s / Ithaca, NY: Cornell University Press, 1994.
[2] Si vedano gli articoli
apparsi sui numeri della serie ’Monnaie et Production’ diretta da Alain
Parguez (1984-1996) della rivista Économies et Sociétés.
[3] Nella seconda metà degli anni ‘90 due grosse manovre di
restrizioni aggiuntive al bilancio vennero effettuate sia in Francia che in
Italia per salvare due importantissimi istituti di credito.
[4] Questo l’ho
appreso in un seminario sul tema effettuato all’Université Pierre Mndès
france di Grenoble.
[5] Boris Frankel, “Beyond Labourism and
Socialism: How the Australian Labor Party developed the Model of ‘New Labour’”,
New Left Review, n. 221, January-February 1997.
[6] David Noble, Digital
Diploma Mills: The Automation fo Higher Education, New Yorrk: Monthly Review
Press, 2002.