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Trasformazioni sociali e diritto

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Salvatore D’Albergo
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Professore di Diritto Pubblico, Facoltà di Economia dell’Università di Pisa

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Salvatore D’Albergo

 

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Per contrastare le “riforme istituzionali”. Capitalismo, federalismo, democrazia

Salvatore D’Albergo

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Dopo un decennio di c.d. “transizione dalla prima alla seconda repubblica”, e un venticinquennio dal lancio provocatorio delle “riforme istituzionali” predicate dal fondatore della loggia massonica “P2”, nella prospettiva che la prossima legislatura repubblicana riproponga l’attacco alla Costituzione del 1948 iniziato già dal 18 aprile del ’48 stesso ma reso praticabile solo dopo la “riconversione” degli “ex comunisti” del PDS-DS, occorre che dalla sinistra estrema richiamantesi ai valori antitetici al capitalismo e al fascismo si avvii una riflessione, mediante la quale in sede culturale - e alieni da ogni latticismo contingente della c.d. “sinistra di governo” - si recuperino i fondamenti di una valutazione dei rapporti che corrono tra società e istituzioni, democrazia formale e democrazia sostanziale, diritti individuali e diritti collettivi, forma di stato e forma di governo, centralismo e federalismo, nel quadro di una contraddizione non solo non superata, ma anzi resa sempre più acuta tra capitalismo come formazione sociale dominata da ristretti gruppi di potere finanziario “privato” a livello internazionale e nazionale, e democrazia sociale come forma sempre più pallida e ai limiti dell’astrazione dei rapporti socio-politici-istituzionali “dipendenti” dal capitalismo stesso.

Occorre cioè riflettere - avendo davanti un materiale complesso (ignoto alle masse) di progetti di revisione costituzionale arenatisi ma non inefficaci nel loro sovrapporsi nel tempo, e di revisioni costituzionali “parziali” operanti già in senso contrario al processo di democratizzazione aperto negli anni 1944-47 - sul tipo di impegno che è richiesto per orientare una teoria della prassi che ha perso abbrivio proprio in coincidenza con una controffensiva ideologica che è concomitante ma non dipende - contrariamente a quel che ci si è affrettati maldestramente a dire - dal processo di informatizzazione che ha investito le forme del lavoro, e quindi anche la capacità di replica socio-politica-istituzionale del movimento operaio internazionale al ritorno sempre più prevasivo dell’autoritarismo nei rapporti sociali e nei rapporti politici e istituzionali.

Oggi che la controffensiva ideologica ha raggiunto un elevato grado di assestamento nel segno assai ambiguo - proprio perché divenuto passivamente unanimistico - del “federalismo” sia in sede “nazionale” che in sede “sovranazionale”, si fa più pressante l’esigenza di ripercorrere il tragitto logico-cronologico che ha assecondato il raggiungimento di una omologazione tatticistica, che rischia di configurarsi come grave cedimento strategico ove si persista nell’accettare quella scissione tra “sociale”, “politico” e “istituzionale” che la cultura dominante opera tradizionalmente per occultare alla forte presa “reale” quell’interconnessione organica che viceversa il capitalismo riesce a perseguire gerarchizzando all’interno di una irrinunciabile unità ideologica ogni rapporto che si presenta sui versanti sociale, politico e istituzionale, artatamente disegnati come rispondenti a logiche in-comunicanti.

Nel seguire tale percorso, infatti, quel che subito appare - e che però va rigorosamente spiegato - è come improvvisamente in Italia si sia abbracciata la prospettiva federalista come questione “nazionale” e non solo “sovranazionale” pur in assenza di una tradizione culturale consolidata: ché anzi - e proprio al contrario - riandando alle minoritarie aspirazioni di tipo federalista dell’ottocento, si viene a scoprire che il federalismo delle origini era in antitesi con quella concezione unitario-centralistica delle monarchie che in successione di tempo si è impadronita dello stesso federalismo in stretta relazione con il processo di integrazione storicamente verificatosi tra sviluppo del capitale e sviluppo dello stato, all’ombra di quella accoppiata “società civile/società politica” la cui indeterminatezza ha costituito e costituisce il luogo di occultamento dell’antitesi tra teoria borghese e teoria marxista dello stato e del diritto, nella misura in cui si ignori o viceversa si rimarchi l’incidenza dei poteri “reali” espressi dal capitalismo “organizzato”.

Ma tale antitesi - oggi mistificatoriamente mascherata con richiami “mitici” al federalismo - non risulta comunque tale da assegnare al vetero/federalismo una portata idonea a qualificare il ruolo dello Stato in quella vicenda ottocentesca nella quale autonomia comunale e regionale erano comunque concepite come luogo di esplicazione di poteri centrali a garanzia del potere sociale della borghesia, secondo l’egemonia moderata nel risorgimento di cui Gramsci ha sottolineato che “è uno svolgimento storico complesso e contraddittorio che risulta integrale da tutti i suoi elementi antitetici, da suoi protagonisti e dai suoi antagonisti” (Quaderno 8 n. 33). In proposito, è decisivo il richiamo al caso nordamericano che - prima delle modifiche nel ruolo dello stato maturata nel novecento - ha ben rappresentato nelle forme del cosiddetto “federalismo duale”, il concretarsi del primato delle classi dirigenti dello stato federale e degli stati membri, in simbiosi rispetto al ruolo passivo delle classi subalterne, con l’ausilio degli strumenti istituzionali identificabili nelle forme di governo erette sulla base dei decisivi criteri di rappresentanza riassumibili nell’assenza del suffragio universale, e nei caratteri delle leggi elettorali di tipo “maggioritario”.

Ciò posto, per capire come mai una questione risultante del tutto secondaria come quella del federalismo abbia potuto farsi decisamente strada sino a divenire luogo comune proprio nel “caso italiano” - facendo addirittura riformare la denominazione della Parte II della Costituzione da “Ordinamento della Repubblica” in “Ordinamento FEDERALE della Repubblica” nella Commissione Bicamerale D’Alema - si rende indispensabile diradare le nebbie che la stessa espressione formale - riforme “istituzionali”, anziché quella più specifica di riforma “costituzionale” - è valsa a effondere, con un pregiudizio rivelatosi crescente a danno delle posizioni politico-culturali di una sinistra che - già divisa dal ritorno dell’insanabile diaspora tra socialisti e comunisti - ha poi finito per accelerare dispersivamente la sua caduta nelle spire di una strategia controriformatrice e antidemocratica che tuttavia è stata accettata come base di una “modernizzazione” che rilancia
 rinnovandone le forme - il tradizionale autoritarismo liberal-liberista proprio del c.d. “stato di diritto” sia a livello di stato/nazione, sia a livello di unità europea, come sancito nella “carta europea dei diritti”.

Se, infatti, la tendenza controriformatrice ha preso avvio - e ha mantenuto la sua forza espansiva, coinvolgendo persino forze contro cui tale strategia è stata elaborata - in nome delle riforme “istituzionali” che poi sarebbero sfociate nei tentativi di “revisione costituzionale” come obiettivo ineludibile perché realmente dominate, ciò è dipeso dal fatto che la rigidità della costituzione è stata sottoposta ad un aggiramento, ad una vera e propria elusione attraverso modifiche sia della legislazione ordinaria sia di norme regolamentari delle due Camere operate nella salvaguardia formale delle norme costituzionali di pur inevitabile riferimento; per poi - in una fase più favorevole, con l’avallo delle modifiche “istituzionali” già conseguite con la accennata metodologia - passare alle più essenziali revisioni costituzionali. Si è trattato di un’operazione strategica di lungo respiro, lanciata nel momento di lotta sociale e politica espressosi negli anni 64/74, su un terreno nel quale si erano sovrapposte posizioni estreme di una sinistra comunista e di una sinistra “extraparlamentare” - la prima rivendicando la piattaforma della Costituzione come progetto da realizzare, la seconda ritenendo all’opposto che tali lotte palesassero in quanto tali la necessità di superare il “blocco” addirittura della Costituzione medesima - sinistra che da posizioni teoriche diverse avevano concorso ad esaltare, da un lato il ruolo di un nuovo parlamentarismo (la c.d. “centralità” del parlamento) come “longa manus” non più degli esecutivi (secondo il modello britannico, imitato dal “cancellierato” germanico e dal “semi-presidenzialismo” francese di stampo gollista), ma di una sovranità popolare propria della democrazia di massa; e, dall’altro lato, il ruolo di una “democrazia diretta” prodotto di una concezione della lotta di classe volta a superare i limiti del sindacato divenuto istituzione a rischio di perdere autonomia e dal padronato e dalle istituzioni.

Era stata quella chiusasi sotto l’onda di un duplice terrorismo, e di una tentazione della destra comunista (risultata alla fine vincente con la chiusura del Pci e la fondazione del Pds) di scambiare la lotta per la transizione al socialismo con la mera delegittimazione della “conventio ed excludendum” usata ideologicamente come strumento di preclusione ad ogni forma di democratizzazione della società e dello Stato, una fase nella quale il dispiegarsi dell’autonomia del movimento operaio e di altri movimenti come quello studentesco, dei ricercatori e degli scienziati, delle donne e di portatori di quelli che saranno denominati “interessi diffusi”, era riuscito a combinare strumenti riformatori e in fabbrica e negli altri luoghi di lavoro, e nelle istituzioni: facendo della creazione delle Regioni (rimandata di circa cinque lustri) l’asse delle rivendicazioni del primato del “territorio” come referente istituzionale della più vasta autonomia “sociale”, contro ogni forma di gerarchizzazione coerente con uno stato tradizionale di tipo “autoritario” e non con uno stato di “democrazia sociale”.

Lungi da ogni possibile suggestione di tipo federalista - nonostante che il processo di integrazione europea compiesse importanti passi - la regionalizzazione veniva in quegli anni posta - in sede di riforma dello Stato - a paradigma dell’autonomia sociale e dell’autonomia politica, per puntellare i “contratti-riforma” con cui le organizzazioni sindacali (a quel tempo percorse da una forte spinta unitaria) puntavano - in convergenza con la lotta politico-parlamentare del Pci per la programmazione democratica dell’economia, per le riforme sociali e amministrative, nonché per la democratizzazione delle partecipazioni statali e del sistema delle comunicazioni di massa - a spezzare l’uniformità dell’organizzazione del potere sopravvissuta alla caduta del fascismo e al superamento dello Stato liberale, per aprire varchi ad una democrazia sociale aperta alla transizione verso un sistema di potere non più dominato dal mercato, e dalla forza di un capitalismo privato corroborato dal capitalismo di stato in mano agli esponenti del centro-sinistra.

Ma è proprio dopo le elezioni regionali del 1975, quando - come si enfatizzò a destra - ben dieci su quindici regioni a statuto ordinario furono conquistate dall’estrema sinistra (solo oggi, infatti, si parla genericamente di “sinistra”), che il “revirement” di cui stiamo supportanto le conseguenze si è anno dopo anno impadronito di Pci e Cgil, sotto gli impulsi di un Psi lanciato da Craxi e Amato - e da un punto di vista culturale soprattutto da quest’ultimo - alla ricerca di una politica di “alternanza”
 in contrapposizione a quella di “alternativa” antisistemica -, secondo l’imperativo della “riduzione della complessità” prospettato già nel 1973 dalla Commissione Trilaterale, nel quadro teorico elaborato da un Lunmann quasi negletto ormai nella letteratura filosofica e sociologica, a risultati sostanzialmente raggiunti sul terreno socio-politico-istituzionale.

Per capire, allora, come si sia pervenuti allo scenario attuale dominato da un incompiuto processo di “revisione costituzionale” (l’incerta fase di c.d. “transizione” alla “seconda repubblica”) nel segno permanente delle “riforme istituzionali”, occorre aver ben presente quel lavorìo che ha contrassegnato tutti gli anni ottanta sulla spinta della svolta ideologica maturata, all’insegna della nuova “modernizzazione”, nei termini delle “privatizzazioni” di ogni settore dell’organizzazione pubblica a causa del fatto che per la produzione di beni e di servizi si era pervenuti a porre in condizioni di equilibrio senza precedenti la relazione Stato-mercato, ad onta dello stesso emergente contrasto tra Costituzioni statali e sistema dei poteri sovranazionali - come risvolto della contraddizione dinamica tra “sociale” ed “economico” -: lavorìo che è stato alimentato dall’allineamento - sotto l’egida di Craxi - di Psi e Pli, in un “pentapartito” volto a rovesciare gli indirizzi politici e quindi legislativi del decennio precedente, nel momento stesso in cui si puntava a quello che è stato chiamato lo “sdoganamento” dell’estrema destra con il definitivo annacquamento dell’antifascismo che era stato il cemento ideologico dei Principi Fondamentali e della Prima Parte della Costituzione italiana, in ciò nettamente diversa da ogni altra Costituzione dell’Occidente, come appare chiaro oggi anche a quanti da sinistra l’avevano semplicisticamente confusa con qualunque altra costituzione “borghese”.

Chiave di volta della modernizzazione perseguita - simultaneamente - contro la proprietà pubblica demaniale, contro i servizi pubblici monopolistici, contro il sistema delle partecipazioni statali, contro le banche pubbliche sono stati, sui due fronti sociali e politici che avevano caratterizzato l’avanzata dei processi di democratizzazione sino a metà degli anni settanta, per un verso il mutamento strategico della Cgil espresso nel lancio della c. “autoriduzione” del diritto di sciopero (in vista della legge del 1990 sulla limitazione dello sciopero nei “servizi pubblici essenziali”), e per un altro verso l’aggiramento dell’art. 81 della Costituzione sulla disciplina del bilancio dello stato, operato con l’introduzione della c.d. “legge finanziaria” volta a condizionare tutta l’attività legislativa “sostanziale” e quindi di carattere economico-sociale ai parametri di un “prodotto interno lordo” (il “pil” assunto come criterio di lettura “privatistico” delle scelte economico-finanziarie “pubbliche”: a partire da una controffensiva puntualmente avviata contro la riforma sanitaria, la prima ed unica riforma sociale e amministrativa licenziata alla fine del 1978, subito dopo la creazione della “legge finanziaria” come suo antidoto.