Dopo un decennio di c.d. “transizione dalla prima alla seconda repubblica”, e un venticinquennio dal lancio provocatorio delle “riforme istituzionali” predicate dal fondatore della loggia massonica “P2”, nella prospettiva che la prossima legislatura repubblicana riproponga l’attacco alla Costituzione del 1948 iniziato già dal 18 aprile del ’48 stesso ma reso praticabile solo dopo la “riconversione” degli “ex comunisti” del PDS-DS, occorre che dalla sinistra estrema richiamantesi ai valori antitetici al capitalismo e al fascismo si avvii una riflessione, mediante la quale in sede culturale - e alieni da ogni latticismo contingente della c.d. “sinistra di governo” - si recuperino i fondamenti di una valutazione dei rapporti che corrono tra società e istituzioni, democrazia formale e democrazia sostanziale, diritti individuali e diritti collettivi, forma di stato e forma di governo, centralismo e federalismo, nel quadro di una contraddizione non solo non superata, ma anzi resa sempre più acuta tra capitalismo come formazione sociale dominata da ristretti gruppi di potere finanziario “privato” a livello internazionale e nazionale, e democrazia sociale come forma sempre più pallida e ai limiti dell’astrazione dei rapporti socio-politici-istituzionali “dipendenti” dal capitalismo stesso.
Occorre cioè riflettere - avendo davanti un materiale complesso (ignoto alle masse) di progetti di revisione costituzionale arenatisi ma non inefficaci nel loro sovrapporsi nel tempo, e di revisioni costituzionali “parziali” operanti già in senso contrario al processo di democratizzazione aperto negli anni 1944-47 - sul tipo di impegno che è richiesto per orientare una teoria della prassi che ha perso abbrivio proprio in coincidenza con una controffensiva ideologica che è concomitante ma non dipende - contrariamente a quel che ci si è affrettati maldestramente a dire - dal processo di informatizzazione che ha investito le forme del lavoro, e quindi anche la capacità di replica socio-politica-istituzionale del movimento operaio internazionale al ritorno sempre più prevasivo dell’autoritarismo nei rapporti sociali e nei rapporti politici e istituzionali.
Oggi che la controffensiva ideologica ha raggiunto un elevato grado di assestamento nel segno assai ambiguo - proprio perché divenuto passivamente unanimistico - del “federalismo” sia in sede “nazionale” che in sede “sovranazionale”, si fa più pressante l’esigenza di ripercorrere il tragitto logico-cronologico che ha assecondato il raggiungimento di una omologazione tatticistica, che rischia di configurarsi come grave cedimento strategico ove si persista nell’accettare quella scissione tra “sociale”, “politico” e “istituzionale” che la cultura dominante opera tradizionalmente per occultare alla forte presa “reale” quell’interconnessione organica che viceversa il capitalismo riesce a perseguire gerarchizzando all’interno di una irrinunciabile unità ideologica ogni rapporto che si presenta sui versanti sociale, politico e istituzionale, artatamente disegnati come rispondenti a logiche in-comunicanti.
Nel seguire tale percorso, infatti, quel che subito appare - e che però va rigorosamente spiegato - è come improvvisamente in Italia si sia abbracciata la prospettiva federalista come questione “nazionale” e non solo “sovranazionale” pur in assenza di una tradizione culturale consolidata: ché anzi - e proprio al contrario - riandando alle minoritarie aspirazioni di tipo federalista dell’ottocento, si viene a scoprire che il federalismo delle origini era in antitesi con quella concezione unitario-centralistica delle monarchie che in successione di tempo si è impadronita dello stesso federalismo in stretta relazione con il processo di integrazione storicamente verificatosi tra sviluppo del capitale e sviluppo dello stato, all’ombra di quella accoppiata “società civile/società politica” la cui indeterminatezza ha costituito e costituisce il luogo di occultamento dell’antitesi tra teoria borghese e teoria marxista dello stato e del diritto, nella misura in cui si ignori o viceversa si rimarchi l’incidenza dei poteri “reali” espressi dal capitalismo “organizzato”.
Ma tale antitesi - oggi mistificatoriamente mascherata con richiami “mitici” al federalismo - non risulta comunque tale da assegnare al vetero/federalismo una portata idonea a qualificare il ruolo dello Stato in quella vicenda ottocentesca nella quale autonomia comunale e regionale erano comunque concepite come luogo di esplicazione di poteri centrali a garanzia del potere sociale della borghesia, secondo l’egemonia moderata nel risorgimento di cui Gramsci ha sottolineato che “è uno svolgimento storico complesso e contraddittorio che risulta integrale da tutti i suoi elementi antitetici, da suoi protagonisti e dai suoi antagonisti” (Quaderno 8 n. 33). In proposito, è decisivo il richiamo al caso nordamericano che - prima delle modifiche nel ruolo dello stato maturata nel novecento - ha ben rappresentato nelle forme del cosiddetto “federalismo duale”, il concretarsi del primato delle classi dirigenti dello stato federale e degli stati membri, in simbiosi rispetto al ruolo passivo delle classi subalterne, con l’ausilio degli strumenti istituzionali identificabili nelle forme di governo erette sulla base dei decisivi criteri di rappresentanza riassumibili nell’assenza del suffragio universale, e nei caratteri delle leggi elettorali di tipo “maggioritario”.
Ciò posto, per capire come mai una questione risultante del
tutto secondaria come quella del federalismo abbia potuto farsi decisamente
strada sino a divenire luogo comune proprio nel “caso italiano” - facendo
addirittura riformare la denominazione della Parte II della Costituzione da “Ordinamento
della Repubblica” in “Ordinamento FEDERALE della Repubblica” nella
Commissione Bicamerale D’Alema - si rende indispensabile diradare le nebbie
che la stessa espressione formale - riforme “istituzionali”, anziché quella
più specifica di riforma “costituzionale” - è valsa a effondere, con un
pregiudizio rivelatosi crescente a danno delle posizioni politico-culturali di
una sinistra che - già divisa dal ritorno dell’insanabile diaspora tra
socialisti e comunisti - ha poi finito per accelerare dispersivamente la sua
caduta nelle spire di una strategia controriformatrice e antidemocratica che
tuttavia è stata accettata come base di una “modernizzazione” che rilancia
rinnovandone le forme - il tradizionale autoritarismo liberal-liberista
proprio del c.d. “stato di diritto” sia a livello di stato/nazione, sia a
livello di unità europea, come sancito nella “carta europea dei diritti”.
Se, infatti, la tendenza controriformatrice ha preso avvio - e ha mantenuto la sua forza espansiva, coinvolgendo persino forze contro cui tale strategia è stata elaborata - in nome delle riforme “istituzionali” che poi sarebbero sfociate nei tentativi di “revisione costituzionale” come obiettivo ineludibile perché realmente dominate, ciò è dipeso dal fatto che la rigidità della costituzione è stata sottoposta ad un aggiramento, ad una vera e propria elusione attraverso modifiche sia della legislazione ordinaria sia di norme regolamentari delle due Camere operate nella salvaguardia formale delle norme costituzionali di pur inevitabile riferimento; per poi - in una fase più favorevole, con l’avallo delle modifiche “istituzionali” già conseguite con la accennata metodologia - passare alle più essenziali revisioni costituzionali. Si è trattato di un’operazione strategica di lungo respiro, lanciata nel momento di lotta sociale e politica espressosi negli anni 64/74, su un terreno nel quale si erano sovrapposte posizioni estreme di una sinistra comunista e di una sinistra “extraparlamentare” - la prima rivendicando la piattaforma della Costituzione come progetto da realizzare, la seconda ritenendo all’opposto che tali lotte palesassero in quanto tali la necessità di superare il “blocco” addirittura della Costituzione medesima - sinistra che da posizioni teoriche diverse avevano concorso ad esaltare, da un lato il ruolo di un nuovo parlamentarismo (la c.d. “centralità” del parlamento) come “longa manus” non più degli esecutivi (secondo il modello britannico, imitato dal “cancellierato” germanico e dal “semi-presidenzialismo” francese di stampo gollista), ma di una sovranità popolare propria della democrazia di massa; e, dall’altro lato, il ruolo di una “democrazia diretta” prodotto di una concezione della lotta di classe volta a superare i limiti del sindacato divenuto istituzione a rischio di perdere autonomia e dal padronato e dalle istituzioni.
Era stata quella chiusasi sotto l’onda di un duplice terrorismo, e di una tentazione della destra comunista (risultata alla fine vincente con la chiusura del Pci e la fondazione del Pds) di scambiare la lotta per la transizione al socialismo con la mera delegittimazione della “conventio ed excludendum” usata ideologicamente come strumento di preclusione ad ogni forma di democratizzazione della società e dello Stato, una fase nella quale il dispiegarsi dell’autonomia del movimento operaio e di altri movimenti come quello studentesco, dei ricercatori e degli scienziati, delle donne e di portatori di quelli che saranno denominati “interessi diffusi”, era riuscito a combinare strumenti riformatori e in fabbrica e negli altri luoghi di lavoro, e nelle istituzioni: facendo della creazione delle Regioni (rimandata di circa cinque lustri) l’asse delle rivendicazioni del primato del “territorio” come referente istituzionale della più vasta autonomia “sociale”, contro ogni forma di gerarchizzazione coerente con uno stato tradizionale di tipo “autoritario” e non con uno stato di “democrazia sociale”.
Lungi da ogni possibile suggestione di tipo federalista - nonostante che il processo di integrazione europea compiesse importanti passi - la regionalizzazione veniva in quegli anni posta - in sede di riforma dello Stato - a paradigma dell’autonomia sociale e dell’autonomia politica, per puntellare i “contratti-riforma” con cui le organizzazioni sindacali (a quel tempo percorse da una forte spinta unitaria) puntavano - in convergenza con la lotta politico-parlamentare del Pci per la programmazione democratica dell’economia, per le riforme sociali e amministrative, nonché per la democratizzazione delle partecipazioni statali e del sistema delle comunicazioni di massa - a spezzare l’uniformità dell’organizzazione del potere sopravvissuta alla caduta del fascismo e al superamento dello Stato liberale, per aprire varchi ad una democrazia sociale aperta alla transizione verso un sistema di potere non più dominato dal mercato, e dalla forza di un capitalismo privato corroborato dal capitalismo di stato in mano agli esponenti del centro-sinistra.
Ma è proprio dopo le elezioni regionali del 1975, quando -
come si enfatizzò a destra - ben dieci su quindici regioni a statuto ordinario
furono conquistate dall’estrema sinistra (solo oggi, infatti, si parla
genericamente di “sinistra”), che il “revirement” di cui stiamo
supportanto le conseguenze si è anno dopo anno impadronito di Pci e Cgil, sotto
gli impulsi di un Psi lanciato da Craxi e Amato - e da un punto di vista
culturale soprattutto da quest’ultimo - alla ricerca di una politica di “alternanza”
in contrapposizione a quella di “alternativa” antisistemica -, secondo l’imperativo
della “riduzione della complessità” prospettato già nel 1973 dalla
Commissione Trilaterale, nel quadro teorico elaborato da un Lunmann quasi
negletto ormai nella letteratura filosofica e sociologica, a risultati
sostanzialmente raggiunti sul terreno socio-politico-istituzionale.
Per capire, allora, come si sia pervenuti allo scenario attuale dominato da un incompiuto processo di “revisione costituzionale” (l’incerta fase di c.d. “transizione” alla “seconda repubblica”) nel segno permanente delle “riforme istituzionali”, occorre aver ben presente quel lavorìo che ha contrassegnato tutti gli anni ottanta sulla spinta della svolta ideologica maturata, all’insegna della nuova “modernizzazione”, nei termini delle “privatizzazioni” di ogni settore dell’organizzazione pubblica a causa del fatto che per la produzione di beni e di servizi si era pervenuti a porre in condizioni di equilibrio senza precedenti la relazione Stato-mercato, ad onta dello stesso emergente contrasto tra Costituzioni statali e sistema dei poteri sovranazionali - come risvolto della contraddizione dinamica tra “sociale” ed “economico” -: lavorìo che è stato alimentato dall’allineamento - sotto l’egida di Craxi - di Psi e Pli, in un “pentapartito” volto a rovesciare gli indirizzi politici e quindi legislativi del decennio precedente, nel momento stesso in cui si puntava a quello che è stato chiamato lo “sdoganamento” dell’estrema destra con il definitivo annacquamento dell’antifascismo che era stato il cemento ideologico dei Principi Fondamentali e della Prima Parte della Costituzione italiana, in ciò nettamente diversa da ogni altra Costituzione dell’Occidente, come appare chiaro oggi anche a quanti da sinistra l’avevano semplicisticamente confusa con qualunque altra costituzione “borghese”.
Chiave di volta della modernizzazione perseguita - simultaneamente - contro la proprietà pubblica demaniale, contro i servizi pubblici monopolistici, contro il sistema delle partecipazioni statali, contro le banche pubbliche sono stati, sui due fronti sociali e politici che avevano caratterizzato l’avanzata dei processi di democratizzazione sino a metà degli anni settanta, per un verso il mutamento strategico della Cgil espresso nel lancio della c. “autoriduzione” del diritto di sciopero (in vista della legge del 1990 sulla limitazione dello sciopero nei “servizi pubblici essenziali”), e per un altro verso l’aggiramento dell’art. 81 della Costituzione sulla disciplina del bilancio dello stato, operato con l’introduzione della c.d. “legge finanziaria” volta a condizionare tutta l’attività legislativa “sostanziale” e quindi di carattere economico-sociale ai parametri di un “prodotto interno lordo” (il “pil” assunto come criterio di lettura “privatistico” delle scelte economico-finanziarie “pubbliche”: a partire da una controffensiva puntualmente avviata contro la riforma sanitaria, la prima ed unica riforma sociale e amministrativa licenziata alla fine del 1978, subito dopo la creazione della “legge finanziaria” come suo antidoto.-----
Parallelamente - dal 1980 in poi, sino all’interruzione dei lavori della Commissione Bicamerale D’Alema, imposta peraltro da Berlusconi senza incidenza di una sinistra passiva - si è sviluppata una iniziativa espressamente rivolta a elaborare le “revisioni costituzionali” indotte dalla legislazione controriformatrice iscritta negli indirizzi politici egemonizzati dal craxismo, e alla lunga coonestate da una Corte Costituzionale corriva al prevalere nella dottrina giuridica dell’idea che entro il modello costituzionale di democrazia sociale possano convivere - “bilanciandosi”, così si è detto - le opposte concezioni dei rapporti economico-sociali, quella volta all’egualitarismo emancipatorio, e quella volta alla riaffermazione del primato dell’“economico-privato” sul “pubblico-sociale”: e tale iniziativa - anziché prendere posizione frontale contro i Principi Fondamentali e la Prima Parte della Costituzione, - ha focalizzato obliquamente un attacco sistematico alla Seconda Parte della Costituzione medesima, ritenendosi decisivo intaccare la strumentazione della forma di governo con cui i principi di democrazia sociale potevano divenire operanti, strumenti che infatti davano alla democrazia politica italiana una configurazione tale da consentire un giudizio - reiteratamente diffuso - sulla c.d. “anomalia” del caso italiano.
Ciò comporta una importante precisazione su un punto teorico-politico mal assimilato dal marxismo, a causa del vuoto interpostosi tra visione filosofica e visione politico-istituzionale della qustione dello stato, “vexata quaestio” che ha visto l’inserimento in tale vuoto di un marxismo dogmatico elaborato dai gruppi dirigenti comunisti interessati solo a coprire di un manto teorico pseudo-marxista le scelte tattiche volta a volta suggeritigli dalle congiunture politiche nell’asprezza della lotta di classe sia nei paesi del “socialismo reale” sia nell’Europa occidentale: precisazione che chiama in causa il c.d. “specialismo giuridico” mediante il quale - dal canto suo - la cultura borghese è riuscita quasi sempre a condizionare la coerenza di una analisi marxista raramente disposta a perseguire una stretta connessione tra incidenza “economica”, e incidenza “politica”, della critica del capitale: sì che nella questione dello Stato, teoria generale e teoria analitica si integrano correttamente se si tiene ben presente la relazione che - con le cadenze della storia dei conflitti sociali - si è venuta variamente a configurare tra le “forme di Stato” e le “forme di governo”. È in tale ambito, infatti, che le culture giuridiche “borghesi” si sono mantenute conseguenti ai loro obiettivi ideologici, privilegiando funzione e analisi delle “forme di governo” su funzione e analisi delle “forme di Stato”, proprio allo scopo di far dipendere la regolazione dei rapporti sociali - storicamente dominati dal capitale - da forme della “politica” coerenti (grazie al loro variegato “autoritarismo”) con la gerarchizzazione dei rapporti esistenti nella società civile.
Ne è derivato che le mistificazioni sulla teoria marxista
dello stato - sino al punto che prevale l’idea addirittura della sua “inesistenza”
(Bobbio) - si sono potute alimentare a misura del disconoscimento dei caratteri
peculiari della Costituzione italiana del 1948 rispetto alle altre costituzioni
borghesi, caratteri identificabili nella stretta interrelazione posta tra
Principi Fondamentali e Prima Parte - da un lato - e Seconda Parte - dall’altro
lato -, a seguito di una novità di grande rilievo che è consistita del
rovesciamento tra la concezione della forma di governo e la concezione della
forma di stato proprie del costituzionalismo liberale fatta propria poi sia
dalla cultura socialdemocratica sia dalla cultura fascista: rovesciamento che i
partiti di massa nella Assemblea Costituente del 1946-47 attuarono con un
duplice obiettivo caro ai comunisti, alla sinistra cattolica e ad una parte di
socialisti, che era quello di non limitarsi a respingere la tradizionale idea
derivante già dalla rivoluzione francese di premettere un “preambolo” -
cioè una premessa enfatica ed inefficace - ad una costituzione intesa solo come
luogo della disciplina dei rapporti tra “autorità politica” e libertà “civili
e politiche”, facendo allora della teoria della democrazia “sostanziale” -
in nome dell’intreccio e non della separatezza tra democrazia
politica/economica/sociale - il perno di una nuova e conseguente democrazia “formale”
cioè modificando la profondamente la forma di governo parlamentare di tipo
liberale (oltre ad avere respinto pregiudizialmente la forma di governo
presidenzialeperorata non solo dai neo-fascisti assenti alla Costituente, ma dal
partito d’azione e per esso dal giurista Calamandrei), con l’obiettivo di
fare della sovranità popolare l’antitesi della sovranità dello
stato-apparato, incentrato sul primato degli esecutivi su parlamenti intesi come
luogo di “teatro”, e non di canalizzazione di autonomie politiche
organizzate nei partiti e nei movimenti. Tale precisazione è indispensabile per
comprendere come lo snaturamento progressivo della sinistra estrema sia stata l’effetto
di trascinamento della strategia delle “riforme istituzionali” per rimuovere
con il blocco delle lotte sociali a partire dalla fine degli anni settanta -
quelle applicazioni del modello costituzionale di forma di governo che si erano
potute realizzare nella stretta connessione tra lotte sociali/rete delle
assemblee elettive nel “comtinuum” comuni, province, regioni e “centralità”
del Parlamento: ciò che aveva consentito una operazione di democratizzazione,
il cui punto più qualificante fu espresso nella riforma della Rai-tv come
luogo-cardine dei poteri centrali, precedentemente esclusivi in una materia
così essenziale alla soggettività di cittadini e di organizzazioni politiche e
sociali, donde quella replica tuttora espressiva altamente del ruolo di
Berlusconi, passato da proprietario di radio e televisioni “locali” a parte
del “duopolio” radiotelevisivo, con il supporto della leadership di un “polo”
politico pretendente di sostituirsi ai partiti democratici - in crisi - alla
guida del Paese.
L’accennato snaturamento - con il prevalere nel Pci dei “miglioristi” anticipatori della deriva del Pds, agevolata a sua volta dall’appannamento dell’ingraismo post-berlingueriano - ha avuto come referente decisivo l’influenza di una elaborazione culturale divenuta pervasiva di tutta la cultura politico-istituzionale degli anni ottanta (dispiegatasi nei lavori di ben tre Commissioni Bicamerali Bozzi, De Mita/Jotti, e D’Alema, nel periodo 1983/1997), sotto l’egida di Gianfranco Miglio, professore di Scienza della politica, cattolico tradizionalista, nemico dichiarato ed acerrimo di quello che egli denunciava come “parlamentarismo assoluto” perché foriero della c.d. “democrazia integrale”; il quale aveva assunto come asse del suo operare teorico/politico “verso una nuova costituzione” (contenuto in due tomi, nel nome di un enfatizzato “gruppo di Milano”, la tesi secondo cui la Repubblica italiana sarebbe passata da un “primo” modello “formale” - iscritto nella carta costituzionale del 1948 - ad un “secondo” modello derivante dallo “scostamento” del sistema politico “reale” dal c.d. modello di regime “occidentale”, come effetto dell’incidenza delle lotte sociali e politiche di Pci e Cgil: donde l’auspicio di passare alla “terza Repubblica”, quando all’inizio degli anni novanta la Costituzione del 1948 era uscita ancora indenne dai varchi aperti con le “riforme istituzionali” sino allora avviate - e poi riprese nel corso dell’ultimo decennio dai governi Amato/Dini/Ciampi - perorando per la prima volta espressamente la causa del superamento dei Principi Fondamentali, come riconoscimento che obiettivo reale era quello di sostituire al modello formale della Costituzione democratica e antifascista “fondata sul lavoro” un nuovo modello fondato sull’incremento della ricchezza secondo la logica del capitalismo organico.
Quel che, quindi, occorre rilevare, è che l’ambizione di
restituire pienezza di autonomia al capitalismo privato - con un attacco
sistematico all’intervento pubblico nell’economia e allo “Stato sociale”
che (beninteso, in forme assistenzialistiche) su tali premesse si era potuto
avviare - ha come suo presupposto la rifondazione, in antitesi al modello di
costituzione di una democrazia di massa, di un sistema di potere decisionale che
è proprio dei sistemi “autoritari” anglosassoni - descritti
mistificatoriamente come “democratici”, addirittura in senso “classico”
nonché di quelli “totalitari” appartenenti al medesimo “genus”
decisionista e antisociale. Il nucleo centrale delle teorie decisioniste proprie
della forma di stato “liberal-democratiche” è rappresentato dall’idea che
“l’Esecutivo sta al centro dell’apparato statale ed ha di fatto il
controllo più o meno pieno della funzione legislativa e dei flussi della spesa
pubblica” (Bognetti, Revisione della forma di governo e revisione delle
disposizioni costituzionali vigenti in materia economica, p. 258),
distinguendosi solo - in nome della c.d. “ingegneria costituzionale” cara a
Sartori - tra preminenza del Presidente della Repubblica (tipico il caso Usa),
preminenza del Primo Ministro (tipico il caso della Gran Bretagna), o a duplice
preminenza come nel caso del c.d. “semi-presidenzialismo”, escogitato dal
gollismo ma recepito dalla socialdemocrazia mitterandiana senza riserve degli
stessi comunisti, per garantire quella che propriamente è un “bicefalismo”
che subordina in ogni caso il parlamento e l’organizzazione sociale e politica
che era stata alla base del rilancio della democrazia dopo la caduta del
nazi-fascismo.
Ma l’ingegneria costituzionale della fine del XX secolo non mira solo a riallacciarsi all’autoritarismo dello stato liberale ottocentesco, in quanto l’evoluzione dei rapporti tra società e stato sulla spinta della “questione sociale” sollecitata dai partiti di massa sia interclassisti che classisti, ha coinvolto la stessa cultura dominante ad una estensione della normativa costituzionale ad ambiti che - sul presupposto della “governabilità” e di uno spostamento di equilibrio della funzione normativa dalla “legge” verso il “regolamento”, con una “delegificazione” volta a sommarsi al carattere dipendente del voto parlamentare nella legislazione ordinaria - riguardano l’uso delle risorse finanziarie, e lo stesso rapporto tra autonomia privata e autonomia pubblica nell’esercizio delle funzioni produttive, a tal fine utilizzando il peso delle vicende che hanno visto trascinare lo stato/nazione nelle spire delle istituzioni sovranazionali ove primeggiano le autorità monetarie.
Ecco che, allora, nel passaggio dalla Commissione Bozzi, a quella De Mita/Jotti e D’Alema, si è assistito ad una operazione incrementale di scostamento da ogni principio di democrazia, sia “politica” - essendosi addirittura sfociati ad una sorta di modello semipresidenziale alla francese, in nome della c.d. democrazia “immediata” raffigurata con l’immagine della “Monarchia repubblicana” da Duvergere; sia “economico-sociale”, in tale prospettiva essendo passati dall’ipotesi (peraltro mistificatoria) delle regioni “forti” - con un’enfasi mutuata da certo filosofeggiare “in senso forte” - del modello De Mita-Jotti, all’ipotesi esplicita “federalista”, da un lato ignorando le preclusioni dell’art. 5 dei Principi Fondamentali relativi all’unità e indivisibilità della Repubblica, e dall’altro lato assimilando le suggestioni provenienti dalle cadenze dei Trattati europei nel segno di una “sussidiarietà” peraltro usata capziosamente: perché altro è la sussidiarietà tra normative comunitarie e normative statali, altro è la sussidiarietà delle funzioni “pubbliche” rispetto all’esercizio delle “autonome iniziative” dei privati, camuffati lessicalmente da “cittadini” quando notoriamente si tratta di soggetti economico-sociali dotati di personalità giuridica, e non di persone fisiche.
Poiché i tentativi durati circa ventanni di modificare la forma di governo parlamentare benché non giunti ancora in porto hanno via via stratificato passi rilevanti nella direzione controriformatrice - sia con il modificare in senso “maggioritario” le leggi elettorali, sia dando luogo al “presidenzialismo locale” con l’elezione diretta di sindaci, presidenti di provincia e presidenti regionali - si tratta di annotare come nella lentezza del processo di “modernizzazione” le forze della destra sociale e politica abbiano avuto un sostegno imprevedibile nel pervicace “neofitismo” degli ex comunisti resisi disponibili a quella visione di c.d. socialismo liberale - o liberalsocialismo - che si è tradizionalmente configurato come base ideologica di un conformismo al capitalismo, rivolto a omologare gli assetti di potere dell’Europa a quelli degli Usa, ad onta di differenze storico-sociali che risultano incancellabili, ed anzi tali da favorire nella c.d. “globalizzazione” una combattuta e difficile ma incontenibile esigenza di internazionalizzazione dei movimenti che rivendicano l’autonomia delle società nazionali del dominio di un capitale finanziario sempre più intollerabilmente distruttive di risorse sociali e naturali.
Né si può e deve tacere l’insufficienza del comportamento
delle residue forse che si richiamano genericamente al comunismo, poiché i
pilastri della strategia controfirmatrice sono stati criticati “passivamente”,
sia mediante l’accettazione in linea di principio del primato dell’esecutivo
aderendo all’idea del “premierato”, e della sua variante germanica nota
nel nome del “cancelierato” -, sia mediante il cedimento verso la deriva “federalista”,
deriva che trova come sua concausa determinante il deficit culturale che tuttora
caratterizza la discussione del federalismo, ignorandosi che la forma
federalista rappresenta come insegna proprio il prototipo cui si usa guardare -
quello nordamericano - una forma più moderna di unità dell’organizzazione
del potere politico-burocratico, in quanto forma di elevazione delle classi
dirigenti del c.d. decentramento nazional/statale al rango tradizionalmente
detenuto dalle classi dirigenti centrali, come comprova il tanto richiamato caso
della Germania che vede gli esponenti degli esecutivi dei vari Ladd componenti
della Camera corrispondente.
Ma non solo va chiarito che il federalismo non ha mai rappresentato lo strumento di autonomia delle comunità degli “stati-membri” rispetto allo Stato federale, ad ogni buon fine esclusivo nelle competenze più qualificanti dello stato di diritto come lo Stato/nazione; ché negli sviluppi più recenti che tengono conto del dispiegarsi di una governabilità fondata sull’intreccio tra poteri statali e poteri sovranazionali - il caso dell’Unione Europea insegna - il federalismo si palesa come strumento istituzionale più idoneo al rilancio di quella “sussidiarietà” del “pubblico” rispetto al “privato” che è parte della dottrina sociale cattolica, ma che ha ricevuto concretezza di esaltazione dai principi del corporativismo fascista proprio in Italia, laddove nella “carta del lavoro” del 1927 si era sancito che l’intervento dello Stato nella produzione economica deve manifestarsi “soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata”, ciò che concorre a fare giustizia della tesi di comodo accolta dalla stessa sinistra odierna che parla insensatamente di “federalismo solidale”, quando la c.d. solidarietà riguarda solo la dialettica delle classi dirigenti nell’uso del governo dall’alto delle risorse.
Né, per capire davvero l’origine reale del senso comune federalistico che si è fatta strada in Italia, va sottovalutato come terreno di incubazione di tale orientamento sia stata - come una sorta di pregiudiziale - la proposta avanzata da Miglio nel 1900 di usare la “secessione” del Nord - vagheggiata, più o meno irrazionalmente, dal “leghismo” che incombe dal 1987 - come strategia per sostituire addirittura questa Costituzione, cioè facendo di una “frattura istituzionale” imperniata sulla spaccatura “tra due Italie” quella che è stata chiamata “la nostra Algeria”, per fare del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica l’equivalente del passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica francese.