La via alle privatizzazioni nel modello capitalistico italiano. Un’indagine statistico-aziendale
Luciano Vasapollo
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Nel corso degli anni l’INA ha ampliato il suo settore di attività
anche al ramo vita attraverso la FATA, e nel ramo danni attraverso le società
FATA e Assitalia; nell’ambito internazionale il gruppo INA agisce nel settore
danni (attraverso la controllata ASTRA in Spagna e la COMAT in Francia); nel
settore finanziario e creditizio invece opera attraverso le società controllate
INA, SIM, e INA Banca.
In Italia il gruppo INA è al primo posto nel ramo assicurazioni
sulla vita con una quota pari al 15,7%, mentre nel ramo assicurazioni danni
ha una quota pari a circa l’8% del totale(Cfr.Graff.27 e 28).


Il 7 Agosto 1992 il Consiglio di Amministrazione dell’INA ha
convocato l’assemblea dei soci ed il Ministero del Tesoro quale azionista unico
ha deliberato la trasformazione dell’ente in società per azioni. Il 30 Giugno
1993, inoltre, l’assemblea straordinaria dell’INA ha decretato la scissione
dell’istituto in due società e precisamente in una società assicurativa che
ha conservato il nome INA e che controlla un gruppo di imprese (Assitalia, Inasim,
Fata, Inabanca) e in una società alla quale vengono assegnati per concessione
i servizi assicurativi pubblici, la Consap; entrambe le società restavano di
proprietà del Tesoro anche se solo l’INA è stata collocata sul mercato
L’operazione di privatizzazione, proposta dal Ministero del
Tesoro che possedeva l’intero capitale sociale dell’istituto (100%), è stata
effettuata con offerta pubblica di vendita attraverso la quale sono state cedute
azioni ordinarie sul mercato nazionale ed internazionale ed è stata coordinata
dall’Istituto Mobiliare Italiano S.p.A. , dalla Banca Commerciale Italiana S.p.A.,
dal Credito Italiano S.p.A. e dall’Istituto San Paolo di Torino S.p.A.
Le azioni INA sono state cedute anche attraverso un collocamento
privato rivolto ad investitori istituzionali italiani ed esteri, un’offerta
pubblica riservata agli Stati Uniti d’America, a un collocamento privato riservato
ai dipendenti ( ai quali viene effettuato uno sconto pari al 10% del prezzo
delle azioni) e ad un collocamento privato riservato agli ex azionisti dell’Assitalia.
L’offerta globale di vendita è stata avviata il 27 giugno 1994;
gli obiettivi seguiti dai vertici del gruppo sono stati quelli di cedere oltre
il 50% delle azioni rimanendo però presenti in maniera significativa per consentire
la costituzione di un assetto azionario stabile. Di seguito sono riportati i
risultati del collocamento delle azioni. (Cfr. Graff.29 e 30).


Il Ministero del Tesoro ha mantenuto la maggioranza relativa
delle azioni dell’istituto, mentre tra i maggiori investitori esteri sono presenti
la J. P. Morgan, la Legal and General, La Janus Capital Corp e la Schroeder
Investments. L’offerta globale INA ha reso 4.152 miliardi di lire; agli investitori
istituzionali italiani è andato il 9,6% dell’offerta, agli investitori istituzionali
esteri il 21,8% mentre ai risparmiatori, ai dipendenti e agli ex azionisti dell’Assitalia
è andato il 68,6% dell’offerta (Cfr. Graf.31 e Tab.15).


4. Rilanciare l’iniziativa politica ed economica contro la
cultura
neoliberista della privatizzazione
dell’intero corpo sociale
Dall’universalismo dei diritti alla privatizzazione del welfare
Con l’inizio degli anni ’90 si accentuano nel nostro Paese
scelte verso forme di capitalismo con connotati di vero e proprio darwinismo
sociale.
Tale decisione che impone il definitivo passaggio dal capitalismo
italiano, fondato su un modello di economia mista, a forme neoliberiste, da
capitalismo selvaggio, basate su ipotesi economiche monetariste è dovuta ad
una scelta europeista acritica del potere politico, economico e finanziario
del nostro Paese che accetta, si sottomette ed anzi si fa promotore delle compatibilità
monetariste dell’Europa de Maastricht, l’Europa voluta e imposta dai grandi
capitali finanziari.
E’ in questa ottica che il processo di privatizzazione in Italia
comincia a colpire pesantemente il welfare, puntando all’abbattimento dell’universalismo
dei diritti e ipotizzando uno Stato Sociale rivolto soltanto, ed in modo inefficiente,
alla copertura dei bisogni esclusivamente degli strati più poveri della popolazione.
La politica economica neo-liberista ha realizzato nel nostro
Paese un quadro macroeconomico che evidenzia tendenze recessive, contrazione
e precarizzazione dell’occupazione, diminuzione dei salari reali, diminuzione
dell’inflazione dovuta soprattutto al forte calo della domanda, all’aumento
delle fasce di povertà e dei tassi di disoccupazione. La risposta alle tragiche
conseguenze della globalizzazione capitalistica non è indirizzata al mantenimento
dei principi solidaristici e all’attuazione di serie politiche indirizzate a
delle congrue prestazioni sociali ma alla creazione di un impianto incentrato
su politiche di tagli del welfare che vanno a colpire sempre più gli strati
più disagiati della popolazione.
Sono diversi i metodi con i quali è possibile attuare la cosiddetta
“privatizzazione del welfare”; si pensi in primo luogo alla vendita di beni
di proprietà pubblica (le imprese e le abitazioni di edilizia popolare); ed
ancora la cessione ad organismi privati della fornitura dei servizi essenziali
anche attraverso la possibilità di rimpiazzare il servizio pubblico con quello
privato (ad esempio le pensioni sociali sostituite dalle forme assicurative
private).
C’è inoltre l’irrigidimento dei criteri di ammissibilità ai
servizi (vengono ristretti i margini di fruizione per costringere il cittadino
a trovare diverse forme di sostegno).
In tal senso, ad esempio, al fine di introdurre sussidi alla
disoccupazione, si è impostata una politica di risparmi in settori fondamentali
quali la previdenza e la sanità, utilizzando come obiettivi prioritari la mobilità,
la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni e i tagli indiscriminati alla
spesa sociale.
In questo modo si riducono i sussidi dei servizi sociali e
sanitari attraverso un aumento dei ticket o comunque attraverso l’attuazione
di normative che propongono una sanità sempre meno pubblica e più privata, con
l’introduzione di forme di assicurazione sanitaria integrativa, con nuove regole
di accesso al mercato della distribuzione dei farmaci o ancora con la gestione
in via sperimentale di alcuni ospedali molto grandi e con la riduzione delle
esenzioni.
Le principali misure previste nel settore della sanità ( al
quale viene destinato circa il 5% in termini di PIL, un sesto della spesa sociale
complessiva) sono chiaramente ispirate al criterio della privatizzazione; si
propone sostanzialmente una sanità sempre meno pubblica e più privata, con l’introduzione
di forme di assicurazione sanitaria integrativa, con nuove regole di accesso
al mercato della distribuzione dei farmaci. Sono i parametri di efficienza e
di efficacia competitiva del mercato, tipici indicatori della gestione d’impresa,
che dovranno determinare le dinamiche evolutive dello Stato Sociale. E’ la cultura
d’impresa, è la “moralità” del liberismo, è la logica del profitto e del mercato
che deve essere caricata sulle già deboli spalle degli ammalati, degli anziani,
dei disoccupati, dei sottoccupati, dei precari, di tutti gli strati emarginati
della società.
Anche per quanto riguarda il sistema pensionistico la constatazione
di una “forte prevalenza di anziani” nel nostro Paese porta alla personalizzazione
e privatizzazione del sistema di protezione sociale arrivando ad optare per
un passaggio al mercato della previdenza.
Non si tiene invece conto dell’elemento economicamente più
importante e cioè che le politiche di welfare sono in difficoltà perché non
ci sono più le condizioni, a causa delle scelte padronali che puntano al mantenimento
del profitto attraverso la riduzione della quantità di lavoro e del suo costo,
che avevano caratterizzato le fasi economicamente tendenti alla piena occupazione
e all’incremento del monte salari dai cui contributi proveniva il finanziamento
dello stato sociale. Oggi con la disoccupazione di massa voluta dalle politiche
neo-liberiste legate ai processi di globalizzazione, e alla conseguente contrazione
del monte salari ( che in Italia tra il 1980 e il 1995 è passato dal 48% del
PIL al 41%), accompagnate da una evasione fiscale istituzionalizzata, si viene
a creare una condizione complessiva macroeconomica in funzione della quale cade
conseguentemente la modalità principale di finanziamento del welfare.
Si sviluppa in questo modo un sistema economico nel quale la
spesa pubblica non è indirizzata ad un reale rafforzamento infrastrutturale
del Paese e ad una efficiente produzione di servizi pubblici, anzi si realizza
una società con maggiori differenziazioni sociali, in cui è sempre più ridotto
il sistema di protezione sociale a favore delle fasce di cittadini più deboli,
fasce che diventano sempre più grandi andando a comprendere anche quegli strati
di società che fino a pochi anni fa erano considerate protette (lavoratori del
pubblico impiego, artigiani e commercianti), creando quindi nuove povertà, nuovi
bisogni, ampliando in sostanza l’area dell’emarginazione sociale complessiva.
Non si riesce a capire che i nuovi indirizzi di politica economica
devono essere assolutamente finalizzati alla lotta alla disoccupazione strutturale
creando nuove possibilità di lavoro ad utilità sociale e collettiva, realizzando
produzioni non necessariamente mercantili, allargando le possibilità del lavoro
femminile, del lavoro agli immigrati, del lavoro ai giovani; di mettere in atto
una seria politica di riduzione generalizzata, sia in senso settoriale sia in
senso terrioriale, dell’orario di lavoro a parità di salario, che riguardi anche
fortemente il terziario pubblico e privato, le piccole e micro imprese.
La proposta del Reddito Sociale Minimo contro la cultura del
Profit State
E’ ormai una necessità storica, politico-economica, oltre che
una battaglia di civiltà riconoscere il Reddito Sociale Minimo per i disoccupati,
i sottoccupati, i precari, i lavoratori atipici; Reddito Sociale Minimo che
assume sia forme di natura diretta, cioè di un vero e proprio assegno mensile,
sia forme di reddito indirette derivanti dalle tariffazioni sociali e dalla
gratuità dei servizi fondamentali.
Un Reddito Sociale Minimo nell’ambito di una concezione che
non deve rappresentare una sorta di “carità minima garantita”, voluta dai vari
governi apparentemente progressisti presenti in Europa. Proposte tutte basate
su una sorta di concezione di “minimo vitale di sopravvivenza”, che seppur finalizzate
a sottrarre le fasce più deboli della società da una condizione di povertà,
le renderebbe ricattabili e condizionate dal potere, innescando senza dubbio
fattori disincentivanti e che ostacolano la ricomposizione di classe, favorendo
invece la nascita di veri e propri assistiti sociali, disponibili alle politiche
clientelari. Il problema non è assicurare un’assistenza caritatevole minima
, ma piuttosto creare condizioni di sviluppo basate su un diverso modello della
produzione, sempre riaffermando la centralità del lavoro come momento di valorizzazione
economica complessiva e di organizzazione del dissendo sociale.
Il Reddito Sociale Minimo deve essere concepito in maniera
tale che si opponga a quel “nuovo patto sociale” nel quale i ricchi e le imprese
non partecipano alla spesa collettiva, la rendita e il profitto non devono essere
intaccati, l’evasione fiscale deve essere legalizzata; gli industriali continuano
a chiedere flessibilità del salario, delle condizioni di lavoro, della sicurezza
del lavoro, degradando e precarizzando sempre più l’occupazione. Il Reddito
Sociale Minimo non è una forma di assistenzialismo ma è una proposta direttamente
connessa alla centralità del lavoro, lavoro che deve ripartire anche dalla funzione
di uno Stato occupatore, che cioè crea condizioni strutturali e distribuisce
occupazione, non delegando tutto al mercato, non privatizzando come se il profitto
fosse il regolatore dell’interesse generale.
Il Reddito Sociale Minimo diventa così anche uno strumento
di iniziativa politica che si contrappone alle forme al ribasso di uguaglianza
che puntano a ripartire tra i poveri solo la miseria, contrapponendo i giovani
agli anziani, gli occupati ai disoccupati, il diritto al lavoro ai diritti del
lavoro, gli aumenti occupazionali a salari ridotti, alla flessibilità, alla
grande precarietà, al continuo abbassamento della qualità del lavoro e della
qualità della vita.