Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (Prima parte)
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Sabino Venezia
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“la programmazione viene infatti intesa come una
coerente ed efficace strategia interna del sindacato sulla politica economica
di sviluppo, una razionalizzazione omogenea delle politiche rivendicative
e delle linee di azione...” [1]
La fase della programmazione, elemento propulsivo dell’unità sindacale,
perde la sua forza quando traspare che l’unità non è frutto
di un processo che ha coinvolto a pieno la base dei lavoratori, bensì l’equilibrio
tra le forze politiche che ispirano i dirigenti sindacali; la tanto decantata
indipendenza, (contestata alla sinistra CGIL “cinghia di trasmissione” ma
non dalla componente comunista) [2], svela la falsa strategia innovatrice e riformista
della corrente socialista CGIL, ne determina la pressoché totale disfatta
negli anni ’70 [3], e ne compromette l’esistenza
negli anni ’80 nonostante, con l’avvento del craxismo, il partito
sarà più presente sulla scena del sistema politico [4]

6. Gli anni ’60
6.1 Le trasformazioni socio-occupazionali
Una attenta analisi del decennio in esame, il ’60, evidenzia
tutti i limiti del sindacalismo italiano che, con la strategia unitaria della
programmazione, non si accorge della crisi capitalistica che il mondo attraversa
né tantomeno percepisce il rischio che corre il mondo del lavoro nelle
soluzioni e nelle dinamiche che si tengono per dare soluzione a tale crisi;
si pensi che dal ’53 al ’60 l’indice di rendimento del lavoro
passa dal 100 al 140,6% mentre quello dei guadagni da lavoro dipendente da
100 a 108,9%. Il miracolo economico si basa prevalentemente sulla compressione
dei salari e sullo sfruttamento della manodopera.
Uno dei principali ambiti di sviluppo della dottrina della
programmazione sarà la politica dei redditi, frequentemente confusa
con la sola politica dei salari, alla quale lo stesso Governo dell’epoca
tentò di ricorrere.
Il Governo di quegli anni, spinto anche da una “dottrina
sociale della Chiesa” che caratterizzava ampi strati della Democrazia
Cristiana, si predispose verso una politica delle riforme, nel campo del lavoro,
di particolare importanza: “Si cominciò nel 1959 con l’estensione
per legge a tutti i lavoratori delle stesse condizioni economiche e normative
contenute nei contratti collettivi.
Si proseguì poi con la fondamentale riforma dell’intermediazione
di manodopera del 1960, che consentì di superare la pratica del “caporalato”,
che metteva i lavoratori in mano ad organizzazioni criminali, soprattutto al
sud, e li esponeva allo sfruttamento per l’applicazione di condizioni
deteriori ma tuttavia “legali”.
La legge vietò la mera intermediazione, garantendo
condizioni paritarie in caso di appalto di mano d’opera tra lavoratori
dell’appaltatore e dell’appaltante e costituendo una spinta decisiva
verso una delle caratteristiche fondamentali del “diritto del lavoro”:
la prevalenza della “sostanza” sulla “forma”. Nel diritto
del lavoro, infatti, conta, e può essere accertato giudizialmente, chi è il
vero datore di lavoro, quale è la vera natura del rapporto di lavoro
(autonomo o subordinato), quali sono le vere condizioni e modalità del
rapporto, a prescindere dagli aspetti formali del contratto.
Seguì poi la riforma del contratto a termine (nel 1962), che vincolò l’utilizzazione
di questo strumento a ben precise condizioni e forme, con l’automatica
conversione in rapporto a tempo indeterminato in caso di violazione, per
evitarne l’abuso allo scopo di sottrarsi alle norme a tutela del lavoro
a tempo indeterminato (ma l’importanza della riforma divenne più evidente
a seguito soprattutto del successivo sviluppo della normativa sui licenziamenti)
e la legge del 1963 sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa
di matrimonio.” [5]
[1] A. Pepe - il sindacato nell’Italia
del ’900 - Rubbettino editore Dicembre ’96 pag. 211.
[2] La sinistra di V. Foa traeva ispirazione
proprio dal rifiuto della programmazione per giustificare il processo unitario
e costruire un sindacato conflittuale e rappresentativo delle nuove esperienze
del mondo del lavoro.
[3] Sarà G. Giugni nel ’74, in apertura di
un Convegno sindacale del Partito Socialista, ad individuare una forte crisi
di identità del sindacalismo socialista.
[4] Va comunque
considerato, per onestà intellettuale, che i “convegni sindacali” svolti
tra la componente socialista e l’ufficio della direzione del partito,
erano sempre occasione per ribadire la piena autonomia oltre che per verificare
la coesione interna e la capacità organizzativa.
[5] Giovanni Cannella (magistrato di Corte d’Appello)(pubblicato
su D&L, Riv. crit. dir. lav. 4/2001, p.873)
L’articolo, che è pubblicato anche su Omissis
(www.omissis.too.it), e sul numero monografico di marzo 2002 della rivista “Il
Ponte” intitolato”Quale governo quale giustizia” riproduce
la relazione introduttiva per l’assemblea pubblica e dibattito dal titolo “No
al lavoro senza diritti”, organizzata a Roma il 14/12/01 dal Forum
Diritti-Giustizia (Social Forum Roma)-Antigone, Cred, Giuristi democratici,
Progetto diritti, Camera del lavoro e del non lavoro, Cobas, Rdb, Avvocati
progressisti italiani, Magistratura democratica romana.