Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (Prima parte)

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Sabino Venezia

Ricostruzione e indipendenza

Questo lavoro costituisce una prima bozza di discussione che la redazione di PROTEO presenta ai propri lettori dalle cui osservazioni ci proponiamo non solo di “imparare” su un argomento storico-economico tutto aperto e in cui sicuramente non siamo specialisti, ma anche di prender spunto per le correzioni di tiro e gli ulteriori approfondimenti.

 

1. La caduta del fascismo, il patto di Roma e la CGIL unitaria

1.1 Il dopoguerra

La vittoria degli Alleati, tra le varie imposizioni nelle determinanti dei paradigmi economico-produttivi e sociali, lascia anche una forte impronta nei modelli delle relazioni industriali. Infatti, nell’Europa del dopoguerra il sindacato si afferma come strumento di legittimazione delle politiche del lavoro ponendosi come istituzione tra i modelli internazionali in particolare di tipo anglosassone (USA, Gran Bretagna) e le politiche economiche dei Governi nazionali. Tale processo si determinerà pesantemente in Italia in virtù di un modello sindacale ormai maturo ed in grado di intervenire sulle politiche dello Stato sociale, anche perché la costruzione di tale modello era stata pesantemente influenzata dalla Resistenza al nazifascismo e fortemente caratterizzata, sul mondo del lavoro:

- dallo spirito mutualistico che ne aveva segnato i natali;

- dai valori solidaristici;

- dal pensiero marxista che ne aveva caratterizzato lo sviluppo.

Con la formazione del Governo Badoglio (dopo il 25 luglio) la gestione delle Confederazioni Sindacali Fasciste fu affidata a commissari straordinari: Bruno Buozzi e Oreste Lizzadri (socialisti), Giovanni Riveda e Giuseppe di Vittorio (comunisti), Gioacchino Quadrello, Achille Grandi e Ezio Vanoni (cattolici), Guido de Ruggiero (Partito d’Azione). Fu questa la prima esperienza di collaborazione che ebbe un peso rilevante per la determinazione dei comitati di agitazione clandestini.

Fra il 3 e il 9 Giugno del ’44 Gronchi e Di Vittorio (grande assente Buozzi che alla preparazione aveva lavorato ma che era stato ucciso dai nazisti in fuga) firmarono il Patto di Roma, con l’intento di ricostruire un sindacato unitario ed autonomo dai partiti (la CGIL unitaria). Tale processo tenne conto di tre elementi fondamentali; due caratteristici del sistema italiano, autonomia e indipendenza dai partiti ed uno di stampo anglosassone che vedeva la necessità di un sindacato non politicizzato ed inserito in un ambito strettamente lavorativo.

L’ingerenza di modelli anglosassoni e/o americani è giustificato dal fatto che fino al ’46 gran parte del Paese è amministrato dalle forze di liberazione; il “modello Americano” vedeva il sindacato garante della collaborazione produttiva tra lavoratori e datori di lavoro e garante della regolazione del conflitto, pratica del tutto assente nell’esperienza italiana; il modello inglese invece attribuiva al sindacato la funzione di redistribuzione del reddito, un ruolo di gestione che collocava il sindacato in posizione di conciliazione tra datore di lavoro e lavoratore.

Il prevalere del sistema italiano (che fu figlio di Di Vittorio) su quello anglo-americano, sottintese la fiducia degli alleati verso un sindacato che, da subito, si fece garante delle rappresentanze istituzionali che nel Paese si erano formate, consci del fatto che se la CGIL unitaria si fosse messa di traverso sul piano di normalizzazione politico-economico, avrebbe certamente rappresentato un forte problema per la costruzione istituzionale democratico-borghese postfascista (visto anche il grande e riconosciuto ruolo di rappresentazione delle masse popolari, di interpretazione delle esigenze di queste e dell’azione di coordinamento che ne scaturiva).

L’altro elemento che destò preoccupazione tra gli Alleati, fu rappresentato dalla forte presenza del PCI nella CGIL unitaria. A tal proposito va ricordato che non solo gli statunitensi si fidavano poco della Chiesa e della sua espressione partitica, la DC, ma che essi riconoscevano ai comunisti il merito di aver interpretato coerentemente i bisogni delle masse in venti anni di lotta contro il fascismo.

Del resto la Chiesa avrebbe certamente mitigato il ruolo del PCI nel Paese, e se ciò non fosse bastato, la presenza di posizioni moderate nella CGIL unitaria era talmente rappresentata che certamente si sarebbe arrivati ad una forma di “non egemonia” del PCI [1].

Il dopoguerra in Italia è caratterizzato da un forte spirito di collaborazione per la formazione delle regole del gioco; il sindacato svolge in questo preciso periodo (’44 - ’47) uno straordinario ruolo di sintesi tra componenti diverse.

Il Paese non registrava solo la divisione tra chi considerava la guerra vinta e chi persa, c’era anche chi richiamandosi alla tradizione marxista, giustamente riteneva ancora in atto, e mai sopita la lotta di classe tra lavoratori e padroni e chi, all’ombra di questo storico conflitto ne intravedeva un altro: la guerra tra poveri che si innestava sul tradizionale contrasto tra città e campagna; “se nella prima guerra mondiale il ruolo di imputati era toccato agli operai, imboscati nelle fabbriche mentre i contadini morivano al fronte, ora erano i contadini ad essere aditati come profittatori del mercato nero e affamatori degli operai, vittime dei bombardamenti...” [2]. Il movimento operaio si oppose fin da subito a simili interpretazioni ma anche gli operai politicamente più impegnati a sinistra sopportavano mal volentieri la scarsa propensione dei contadini di adeguarsi alle regole solidaristiche degli operai.

Il movimento operaio e contadino del dopoguerra, nonostante l’oggettiva debolezza sul mercato del lavoro, ottenne comunque notevoli successi sul piano contrattuale. Tali successi non corrisposero tuttavia ad un incremento occupazionale, anche perchè gli imprenditori si dimostrarono poco propensi al rilancio degli investimenti.

Si consideri che anche attualmente il sistema produttivo italiano è caratterizzato da squilibri regionali molto accentuati; queste disparità non sono causate solo dai settori industriali e terziari ma dipendono anche dal contraddittorio sviluppo del settore agricolo, con squilibri più accentuati proprio in considerazione del modello di sviluppo imposto dal dopoguerra dalle grandi famiglie del capitale italiano e internazionale. Pur trattandosi infatti di un campo economico contraddistinto da quote occupazionali minime e decrescenti si tratta comunque di una branca nella quale sono nati e si sono sviluppati i divari esistenti economici e territoriali.

Già nell’Italia del secondo dopoguerra, infatti si individuava, un sistema economico con un grado di industrializzazione molto disomogeneo nel territorio e fortemente condizionato dal ruolo dello Stato che, dopo la fondazione dell’IRI nel 1933 e la successiva gestione e proprietà dei tre più importanti istituti di credito e di altre imprese sull’orlo del fallimento, ha assunto una importanza fondamentale nell’economia italiana.

1. 2 Le correnti nella CGIL unitaria

La corrente sindacale cristiana, guidata da Achille grandi, era fortemente vincolata alla tradizione della Cil, ma anche influenzata dal corporativismo religioso del codice di Malines [3].

Il programma sindacale democristiano (marzo 1944) si traduceva nella formula delle associazioni libere nel sindacato organizzato e prevedeva il riconoscimento giuridico del sindacato, il valore di legge ai contratti di lavoro, la regolamentazione del diritto di sciopero (da vietare nei servizi pubblici), la facoltà di indire uno sciopero solo previo referendum tra i lavoratori e l’arbitrato obbligatorio come strumento di risoluzione dei conflitti, non disdegnando, in prospettiva la partecipazione agli utili e l’azionariato operaio. Contrario alla formula del sindacato obbligatorio, e ancor più all’arbitrato, ma favorevole al valore di legge dei Contratti di categoria, Di Vittorio era convinto che il fulcro della ricostruzione sindacale dovessero essere le Camere del Lavoro e che il diritto di firmare i contratti fosse riservato alle componenti più rappresentative.

Con questi presupposti (opportunamente tralasciati) si approdò alla stesura dello Statuto della CGIL unitaria al Congresso di Napoli del Febbraio 1945, con l’unico risultato di veder strutturata una organizzazione rigidamente centralizzata, al pari del passato sindacato fascista, ma anche nella più antica tradizione delle CGIL riformista. La questione della rappresentatività fu comunque risolta con un passo avanti di Di Vittorio verso la posizione democristiana, fu così che si disegnò l’articolo 39 della Costituzione “...in cui si stabilì che i sindacati registrati avevano personalità giuridica e potevano firmare contratti con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria attraverso una rappresentanza unitaria costituita in proporzione al numero degli iscritti alle varie correnti” [4].

Per la prima volta nella storia delle democrazie europee, il mondo del lavoro nella sua più alta rappresentazione (la CGIL), si determinava come soggetto istituzionale e costringeva le classi dirigenti a riconoscergli una dignità costituzionale pur di continuare ad affermare il potere [5].

 

2. Il dettato costituzionale

“Nella Costituzione il lavoro diventa la base stessa della Repubblica: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (art. 1).

Dare il lavoro ai cittadini e tutelarne le condizioni è il compito fondamentale del nuovo Stato. La Costituzione lo dice esplicitamente con l’art. 4 (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”) o implicitamente con l’art. 2 (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale)”. Inoltre un intero titolo della Costituzione, il III (artt. 35-47), è dedicato ai rapporti economici ispirati essenzialmente alla tutela dei lavoratori: in particolare per l’art. 41, la libertà d’impresa è condizionata alla funzione sociale.

Ma sarà soprattutto l’art. 3 della Costituzione il grimaldello per una più completa emancipazione dei lavoratori.

Il dettato costituzionale, infatti, sancisce il principio di eguaglianza, non limitandosi però ad un’enunciazione solo formale, poiché attribuisce alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Sembra l’alba dell’utopia realizzata.

Ma la Costituzione rimase a lungo, e purtroppo ciò vale anche nella realtà attuale, una bella prospettiva irrealizzata.

La Corte Costituzionale, cioè proprio l’organo che doveva verificare la corrispondenza delle leggi ordinarie con i principi costituzionali, entrò in funzione solo nel 1956 e il Consiglio Superiore della Magistratura, che aveva la funzione di sottrarre la magistratura al controllo dell’esecutivo, garantendone l’indipendenza, solo nel 1959.

Pertanto fino agli anni sessanta la magistratura fu sotto il controllo del potere esecutivo (conservatore), che aveva il potere di nomina degli alti gradi della magistratura e controllava quindi la Cassazione (composta in larga parte da magistrati di “derivazione fascista”), che provvedeva a sua volta alla selezione dei dirigenti degli uffici, provenienti necessariamente dalle sue file, e che svolgeva la funzione di unificazione della giurisprudenza.

Il “conformismo” al potere dominante, e alle decisioni della Suprema Corte era accentuato dall’organizzazione burocratica della carriera, con promozioni decise sostanzialmente dai capi e dai magistrati di Cassazione e stipendi collegati alle funzioni svolte (superiori per Appello e Cassazione).

Ebbene la Cassazione, controllando il resto della magistratura, riuscì a sterilizzare la Costituzione, inventando la distinzione tra norme costituzionali programmatiche e precettive.

Passò in sostanza la tesi che molte norme costituzionali, tra cui soprattutto il principio di eguaglianza sostanziale, non erano immediatamente applicabili, ma si trattava di semplici “programmi” ed era poi il legislatore ordinario che doveva emettere le norme effettivamente vincolanti.

Ciò comportò che, per decenni dopo la Costituzione, rimasero in vita leggi “fasciste” e comunque disposizioni in contrasto con la norma fondamentale, anche nel settore del lavoro.” [6]-----

3. La ricostruzione economica e politica

Gli anni che seguono la fine del secondo conflitto mondiale vengono, usualmente, ricordati come il periodo della ricostruzione e del miracolo economico, che vanno dal 1945 al 1963. Il quadro politico, economico e sociale che si prospetta delinea molteplici realtà.

L’Italia esce dal secondo conflitto mondiale con due ordini di problemi: immediati e di fondo. Le tematiche immediate che la classe politica - allora nascente - si trova ad affrontare sono legate ai danni provocati dagli effetti della guerra e dal ventennio fascista. I problemi di fondo, invece, sono da attribuirsi alla disoccupazione strutturale italiana e al profondo divario produttivo presente tra il Nord e il Mezzogiorno italiano.

A seguito del secondo conflitto mondiale, i danni diretti apportati dalla guerra sono evidenti; non tanto dal punto di vista produttivo [7], quanto per i danneggiamenti che i bombardamenti hanno provocato alle infrastrutture, alle vie di comunicazione, terrestri e marittime [8], e al patrimonio abitativo italiano.

Ai danni fisici si aggiunge l’esplosione dell’inflazione nell’Italia liberata, fenomeno che nasce al Sud, principalmente per le spese delle truppe di occupazione, e che in seguito interessa e coinvolge tutto il paese.

Affiancati ai problemi direttamente collegati alla guerra, la classe dirigente italiana si trova a dover gestire molteplici altri disagi:

• Un’estesa disoccupazione strutturale [9], che contenuta durante la prima guerra mondiale, con flussi migratori verso l’estero, esplode nel ventennio fascista, dando vita a una devastante pressione demografica nelle campagne.

• A causa della politica fascista, avversa alle importazioni, l’attività agricola presenta, specialmente nel mezzogiorno, gravi disagi strutturali, dovuti principalmente alla sovrapproduzione cerealicola e alla limitazione degli allevamenti zootecnici.

• Per quanto riguarda l’industria, anche se vi sono stati sviluppi nella produzione degli autoveicoli e dei prodotti petroliferi, questi hanno uno scarso impatto sull’ economia del paese; infatti, il settore alimentare, tessile e delle costruzioni risulta ancora tecnologicamente arretrato. A questo va aggiunto che la grande industria è concentrata in pochi gruppi-famiglie finanziari [10].

La ricostruzione economica e politica nell’Italia del dopoguerra può essere suddivisa in tre principali fasi:

• ’44-maggio ’46, stabilità dei prezzi e stagnazione produttiva;

• giugno ’46-ottobre ’47, acuto periodo di inflazione e ripresa produttiva;

• novembre ’47-agosto ’48: drastica deflazione e aperta recessione.

Il passaggio dall’economia di guerra a quella di pace in effetti determinò: inflazione, disoccupazione, scarso sfruttamento degli impianti, diminuzione degli investimenti (né in macchinari né per la razionalizzazione del ciclo produttivo), il mercato nero.

La situazione si ’normalizzò’ solo quando fattori strutturali prevalsero su quelli congiunturali: ad es. l’inflazione dei primi mesi del ’47 non derivò solo dallo squilibrio tra domanda e offerta di beni, ma fu una manovra per attirare ingenti risorse finanziarie ed economiche per rilanciare la produzione italiana. Il blocco dei salari contribuì a rafforzare i principali gruppi industriali, in particolare quelli monopolistici, gettando così in crisi le piccole medie imprese.

La disoccupazione della fine del ’46 (circa 2 milioni di disoccupati) fu il risultato, oltre che della forza lavoro non più utilizzata in campo militare, anche dei licenziamenti dalle aziende in seguito allo sblocco dei licenziamenti concordato tra CGIL e Confindustria.

Va inoltre ricordato che lo Stato decise di non intervenire più in caso di squilibri del sistema economico produttivo e ciò, unito alla crisi inflattiva del ’47 e alla scelta di una strategia politica liberista, produsse una grave crisi del mercato del lavoro.

La liberalizzazione del mercato dei capitali e delle merci, attuata tramite la rinuncia alla disciplina dei cambi, la concessione di favori agli esportatori per le valute e l’abbattimento dei controlli sulle importazioni di merci, provocò la grave crisi speculativa ed inflattiva dell’inizio del ’47. Fu così che fu avviata la manovra deflattiva di Einaudi (Ministro del Tesoro Democristiano).

La linea politica che prevale, al fine di risolvere i molteplici problemi italiani, è quella di abbandonare la chiusura degli scambi con l’estero e la politica di protezionismo che aveva caratterizzato il fascismo, per avviare una progressiva liberalizzazione del mercato, volta a rafforzare gli scambi esteri. Nel dibattito politico questa sembra l’unica strada percorribile, sia perché l’Italia è carente di materie prime, ma anche perché l’esportazione di prodotti finiti all’estero permettono di ridimensionare il galoppante fenomeno inflazionistico.

Tutto questo si esplicita negli anni con molteplici accordi, sia di carattere nazionale che internazionale. Si ricordano tra gli altri gli interventi della Banca d’Italia a sostegno dell’economia nazionale, la politica della Confindustria volta a dare all’imprenditoria italiana nuove credenziali, l’adesione dell’Italia al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale e alla CECA (Comunità Europea del Carbone e Acciaio). Questo processo di integrazione alla comunità internazionale da origine nel 1957, con la stipula del trattato di Roma, al Mercato Comune Europeo.

La creazione di detti accordi, affiancati al piano Marshall [11], volto ad accelerare la ricostruzione in Europa, hanno come obiettivo quello di sventare una eventuale crisi depressiva economica conseguente alla fine delle spese belliche, privilegiando la creazione di un mercato di interscambio internazionale.

Gli aiuti e la scelta di una politica di libero mercato, si manifestano in Italia con forti cambiamenti sia nel tessuto sociale che nella struttura lavorativa.

Alle concessioni fatte dalla CGIL al Governo circa la tregua salariale e lo sblocco dei licenziamenti, non seguirono quelle condizioni che essa aveva chiesto come contropartita (blocco prezzi, contingentamento importazioni, riforma fiscale). Così, da una parte il blocco dei salari e dall’altra i licenziamenti (che divennero massicci tra il novembre ’47 e l’agosto ’48), non rappresentarono il volano per la ripresa della produzione e degli investimenti ma furono utilizzate dalla borghesia produttiva per colpire l’intero assetto dei rapporti con la classe operaia e con il sindacato.

Tra febbraio ed aprile 1947 si avviò poi a conclusione il Governo tripartito di alleanza nazionale con forti ripercussioni tra la maggioranza e le minoranze della CGIL, la situazione non fu certo aiutata dal congresso di giugno a Firenze che ratificò il passaggio dalla gestione paritetica a quella proporzionale al peso delle correnti ma si spaccò sulla questione dello sciopero politico [12]; si accentuarono così i dissapori tra comunisti e socialisti da una parte e socialdemocratici, repubblicani e cattolici dall’altra, fino alla rottura dell’unità sindacale ed alla non attuazione delle rappresentanze unitarie previste dall’art. 39. L CGIL unitaria era caratterizzata dalle due principali componenti politiche presenti nel paese: i comunisti ed i cattolici; nei primi era pressoché assente un percorso di esperienza di gestione di un sindacato confederale, ma erano forti i concetti di sindacato di massa di Di Vittorio e chiare le prospettive di sviluppo della via italiana al socialismo di Togliatti; nei secondi era forte la necessità di strutturare un sindacato come espressione della società civile, ma il peso del partito e del Vaticano finirono per legittimare la funzione di collegamento tra i lavoratori e le nuove strutture dello Stato.

Il ruolo della CGIL unitaria, indispensabile nella prima fase, si protrarrà però ben oltre il necessario, rischiando di rappresentare un modello inadeguato al cambiamento di fase.

Di fatto il “compromesso costituzionale che si era realizzato in sede di Assemblea Costituente...” e “ l’accettazione del regime di protezione americana nell’ambito degli aiuti del piano Marshall”, [13] spinsero diversi soggetti politici e istituzionali, dallo Stato alle organizzazioni padronali ed imprenditoriali, ad esprimere i propri interessi ed a sperimentare i nuovi meccanismi di democrazia, legittimando quindi le proprie identità.

A questo va anche aggiunto il mancato rispetto di Governo e borghesia imprenditoriale a garantire il blocco dei prezzi, il contingentamento delle importazioni e la riforma fiscale come contropartita allo sblocco dei licenziamenti che comunque la CGIL garantì e che si applicò con forza; l’insieme di questi fattori, agevolarono (quando addirittura non determinarono compiutamente) i dissapori interni al sindacato, decretandone definitivamente la scissione e la ricomposizione in strutture sindacali “cinghia di trasmissione” dei partiti politici di riferimento.

Sarà questa la fase dell’egemonia, fase in cui il rapporto di massa dei partiti si sviluppa grazie al ruolo dei sindacati da essi diretti (spesso non formalmente schierati politicamente) anche solo ideologicamente, ma sarà anche la fase dell’avanzata e delle grandi conquiste del movimento sindacale di classe che durerà fino agli anni ’70 e che segnerà un ragguardevole arretramento del capitalismo, successivo ad una crisi che per la prima volta assumerà un carattere in apparenza irreversibile.-----

4. La crisi del sindacato unitario

4.1 L’ordinaria gestione

L’inadeguatezza del sindacato unitario si risolverà tra la primavera e l’autunno del ’48. L’attentato a Togliatti (14 Luglio 1948) produrrà una ferma posizione di condanna da parte della CGIL e la proclamazione di uno sciopero generale contestato dalla componente cattolica del direttivo. È tesi comune che la CGIL proclamò lo sciopero per arginare lo spontaneismo che vide da subito in piazza migliaia di lavoratori (e che assunse anche toni di particolare pericolosità nel meridione), sicuramente tale evento rappresentò la fatidica “goccia” ma non dimentichiamo che la politica interclassista della CGIL aveva determinato numerose sconfitte “giustificate”(e i moti di Milano del Novembre dell’anno precedente ce lo ricordano); la guerra fredda e la necessità di “compatibilizzare” la politica rivendicativa con la corrente DC fecero sicuramente il resto. Il 16 ottobre nasce la Libera Confederazione Italiana del Lavoro che il 1 Maggio del ’50, dopo l’uscita dalla CGIL anche dei repubblicani, si trasformerà nella Confederazione Italiana Sindacato Lavoratori CISL. La nascita della CISL tuttavia non sminuirà il ruolo egemone della CGIL, particolarmente attiva nei settori dell’agricoltura e nelle fabbriche.

In questo periodo, di fatto, pur registrando il tentativo fallito di una Costituente Sindacale, le forze politiche ed economiche si avvieranno rapidamente verso la normalizzazione, e costringeranno il sindacato a rapportarsi con una ordinaria gestione della politica, ordinaria gestione che legittimerà il pluralismo del sistema sindacale e che produrrà forti elementi di criticità nei rapporti tra le tre Organizzazioni Sindacali che scaturiranno dalla scissione del sindacato unitario [14] e caratterizzerà la fase politica con un momento di debolezza che si modificherà solo verso la metà degli anni ’50.

4.2 Il 5 marzo 1950 nasce la UIL

Il 5 marzo 1950, a Roma, 253 delegati provenienti da tutta Italia parteciparono al convegno costitutivo della Uil, l’Unione Italiana del Lavoro, l’organizzazione sindacale che, dopo le scissioni dalla Cgil, dava rappresentanza ai lavoratori di idee laiche, democratiche e socialiste e che poteva rivendicare l’eredità riformista di Bruno Buozzi, leader sindacale ucciso dai nazisti nel 1944.

Tra i principali protagonisti di quel giorno si segnalano Italo Viglianesi, Enzo Dalla Chiesa e Renato Bulleri del Psu, Raffaele Vanni e Amedeo Sommovigo del Pri, ma furono presenti anche sindacalisti del PSli e numerosi indipendenti. Al convegno parteciparono personaggi autorevoli come il comandante partigiano ed ex Presidente del Consiglio Ferruccio Parri.

Nella dichiarazione programmatica approvata erano indicati i cinque punti che caratterizzarono e qualificarono l’azione della Uil sin dai suoi primi anni. Venne rivendicata l’indipendenza dai partiti, dai governi e dalle confessioni e venne valorizzata l’autonomia delle federazioni di categoria; la Uil si impegnò ad adottare un metodo democratico e si dichiarò favorevole alla ricerca dell’unità d’azione con le altre due organizzazioni confederali ed all’intervento su tutti i problemi di politica sociale ed economica [15].

4.3 Il 30 aprile del 1950 nasce la CISL

La Cisl viene fondata il 30 aprile 1950 con l’approvazione del “ Patto di unificazione delle forze sindacali democratiche”, votato all’unanimità dai delegati della Lcgil, della Fil e della Ufail, riuniti in assemblea generale costituente al teatro Adriano di Roma. In quel “patto” costitutivo di cinquant’anni fa, tra l’altro, si affermano i seguenti punti: “La Cisl sorge per stringere in un unico volontario vincolo sindacale tutti i liberi lavoratori italiani che -convinti della necessità di respingere un sindacalismo fondato, ispirato e diretto da correnti politiche e ideologiche- vogliono impostare il movimento sindacale sull’autogoverno delle categorie esercitato nel quadro della solidarietà sociale e delle esigenze generali del Paese. La Cisl afferma la sua decisa volontà di tutelare il rispetto e la dignità della persona umana come condizione primaria di vera giustizia sociale e proclama i seguenti fondamentali diritti dei lavoratori, che prende solenne impegno di difendere e propugnare:

diritto al lavoro, come naturale mezzo di vita, e alla sua libera scelta;

diritto alla giustizia sociale, fondamentale mezzo di pace duratura nella convivenza civile;

diritto all’inserimento delle forze del lavoro negli organi che determinano gli indirizzi della politica economica del Paese;

diritto alla garanzia e alla stabilità dell’occupazione, nella più ampia libertà individuale e familiare;

diritto all’assistenza e alla previdenza, contro ogni concezione paternalistica, da realizzare attraverso una legislazione che garantisca stabilmente il soddisfacimento delle esigenze dei lavoratori e delle loro famiglie in ogni tempo e in ogni evenienza della vita;

diritto alla costituzione di libere organizzazioni democratiche e al libero esercizio della loro azione sindacale, ivi compreso il diritto di sciopero, per la legittima difesa degli interessi di chi lavora;

diritto alla rappresentanza dei lavoratori negli organismi, che esistono e possano esistere, in modo da rendere determinante l’influenza del mondo del lavoro sugli orientamenti sociali della vita nazionale;

diritto all’immissione delle forze del lavoro nella gestione e nel possesso dei mezzi di produzione...

“La Segreteria confederale eletta dall’Assemblea generale dell’Adriano risulta così composta: Giulio Pastore (segretario generale), Giovanni Canini, Paolo Consoni, Roberto Cuzzaniti, Luigi Morelli, Enrico Parri (segretari), Alberto Cajelli, Paolo Cavezzali, Dionigi Coppo, Giuseppe Giuffrè, Amleto Mantegazza, Anselmo Martoni, Appio Claudio Rocchi, Bruno Storti ed Ermanno Trebbi (vice segretari).

È la prima segreteria confederale ed è quella che porterà la Cisl al suo primo Congresso nazionale del 1951”.  [16]

Questi dirigenti, di diversa provenienza politica e culturale, sono i protagonisti del non facile passaggio vissuto dal ‘libero’ sindacato dopo la rottura del 1948 e vengono oggi indicati dalla letteratura storica come ’coloro che seppero accendere il fuoco del sindacalismo democratico nell’Italia del secondo novecento”. Questa definizione è riferita anche ‘all’attraversamento del mar rosso’ che dovettero compiere nell’estate del 1948 in seguito allo sciopero politico proclamato dalla componente socialcomunista dopo l’attentato a Palmiro Togliatti. Un attraversamento che ebbe come tappe intermedie, ma fondamentali, la costituzione della Lcgil e della Fil.

“La Lcgil, costituita il 17 ottobre 1948 da Pastore e dai sindacalisti della corrente cristiana della Cgil unitaria, fu la prima roccaforte del sindacalismo democratico italiano e risultò essere l’edificio portante dell’unificazione del 30 aprile 1950 che diede appunto vita alla Cisl” [17].

4.4 La delega nella ricostruzione

Un elemento della fase post guerra che va necessariamente tenuto in considerazione è la convinzione, anche tra i partiti della sinistra, che fosse possibile delegare la ricostruzione del paese agli industriali. Il sindacato, di fatto si spese sulle rivendicazioni salariali e occupazionali, pur sapendo che in molti spingevano verso il collaborazionismo produttivo degli operai in fabbrica e che questo avrebbe riattivato le strutture produttive e finanziarie della borghesia.

Il capitalismo industriale, ormai maturo, coglie la pur necessaria dissoluzione del sindacalismo unitario come elemento di debolezza dell’azione rivendicativa e, nonostante l’accordo del 7 Agosto del ’47 avesse attribuito molto potere alle Commissioni Interne, le grandi aziende si scagliarono sul sindacalismo italiano con la politica dei licenziamenti individuali e di massa. L’intervento del Governo complicò la situazione con la politica di liberalizzazione del mercato dei capitali e delle merci e provocò la forte crescita dell’inflazione. Si dimezza il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi e aumenta il profitto ed il controllo monopolistico sulle piccole e medie imprese e sul mercato finanziario; è la crisi del ’47, che il Ministro del Tesoro Einaudi tenterà di arginare con una manovra deflattiva e che il sindacato non riuscì ad intercettare con le lotte per il salario e l’occupazione.

Da un lato, quindi gli industriali ed il mondo padronale in generale, che si presta ad un rapido processo di politicizzazione per meglio esercitare un controllo sul potere pubblico e sull’industria di Stato (quella salvata dal piano Marshall), dall’altro lo Stato, assente in un primo momento ma poi sempre più protagonista di una politica di supremazia sul sindacato, con il quale fino ad allora aveva “ configurato una specie di rapporto politico paritario” [18].-----

5. Gli anni ’50

5.1 Il processo di normalizzazione

Proprio lo Stato, dal V governo De Gasperi in poi, (1949 - 1951) fallirà i tentativi diretti di ripristinare supremazia sul mondo sindacale e si proporrà in relazione dialettica tra il movimento sindacale e quello padronale; tale rinnovato ruolo non lo escluderà dalle polemiche di quanti (nel sindacato) ne osservano uno scarso interesse al ruolo di mediazione delle controversie del lavoro e quanti altri (industriali) lo scoprono troppo attento ad intervenire direttamente in alcuni nodi strategici dell’economia, dal piano Sinigaglia della siderurgia, al potenziamento dell’AGIP, alla creazione dell’ENI, scoprendone anche il ruolo di correttivo dei limiti del capitalismo privato.

Il processo di normalizzazione precedentemente accennato, vedrà, negli anni ’50, il sindacato svilupparsi in coerenza con lo sviluppo della storia costituzionale del Paese fino a quando le classi dirigenti non si accorgeranno che l’alta influenza socialcomunista, presente nelle componenti sindacali, avrebbe potuto rappresentare un serio problema nel caso si fosse realizzata la Costituzione. Il sistema politico, infatti che si determinò, non prevedeva solo l’esclusione dei partiti di sinistra dal Governo ma tentò a tratti di porre in discussione anche la loro legittimità cosituzionale.

Nei primi anni ’50 le lotte sindacali si inasprirono contro un fronte industriale che percorse rapidamente e compatto la strada della delegittimazione del sindacato.

“Le direzioni aziendali non accettarono più di contrattare con le Commissioni Interne gli esborsi salariali extracontrattuali e gli interventi assistenziali, ma iniziarono ad utilizzarli unilateralmente ai fini delle politiche di attrazione aziendalistica,... i membri di CI aderenti alla FIOM, nelle loro rivendicazioni aziendali, non solo non potevano fare appello alle norme contrattuali, ma non riceveranno neppure il pieno appoggio degli organismi dirigenti della CGIL...preoocuapta che la contrattazione aziendale creasse sacche di privilegio...” [19].

5.2 Le ricadute economiche

È questa la fase, interessante ma poco approfondita, che precede il “Boom del miracolo economico” caratterizzata da una bassa valenza sindacale (che sarà anche la causa della dura repressione in fabbrica) e da una alta ingerenza dei partiti nell’attività sindacale. La caratterizzazione della CGIL è prevalentemente rivolta alla riscoperta del lavoro industriale ed al continuo sviluppo del Piano del Lavoro [20], mentre la CISL, che vede nello sviluppo del capitalismo l’ipotesi principale di crescita del sindacato, si esercita prevalentemente sulla pratica dell’aziendalismo e del contrattualismo, attuando un “collaborazionismo aziendalistico” che ne decreterà l’espulsione dei propri membri dalle Commissioni Interne alla FIAT [21].

Per gli industriali, la mossa che fece il 1° novembre del ’50 Ugo La Malfa, ministro del commercio con l’estero, con la liberalizzazione degli scambi commerciali con altri paesi europei, la riduzione del 10% dei dazi doganali e l’abolizione dei contingenti, doveva portare l’Italia al disastro economico. In effetti in un primo momento ci fu un peggioramento nelle esportazioni su alcuni prodotti leader come i tessili (ecco spiegate le ragioni dell’ostracismo di Pella, un ministro eletto nel Biellese, dove c’era il 90% della produzione tessile nazionale), qualche contraccolpo lo ebbero gli alimentari e gli agricoli del Sud. Poi le esportazioni ripresero (e diventarono inarrestabili fino al 1963) quando le nostre industrie scoprirono i grandi mercati europei e la grande domanda di prodotti opulenti che l’Italia in una crisi congiunturale non avrebbe mai potuto assorbire né quindi incentivarne la produzione. La carta vincente di queste esportazioni fu il basso costo della manodopera italiana inferiore al 40% di quella europea. I Paesi europei ne approfittarono, occupando le proprie maestranze per un modello di sviluppo molto diverso. Riversarono, infatti le loro risorse nelle strutture dei grandi complessi alimentari (che diventeranno giganteschi), nell’agricoltura meccanizzata creando immensi territori con razionali allevamenti di bestiame e relativi sottoprodotti (vedi Olanda), nei macchinari del confezionamento (vedi Germania), e con un grande incremento dato al comparto della produzione di mezzi industriale (camion, furgoni, trattori) crearono (vedi Germania e Francia) le grandi strutture della distribuzione, quindi i grandi complessi commerciali, le catene alimentari e tutto l’intero indotto dei prodotti di consumo.

L’Italia, con queste reciproche scelte riuscirà ad esportare il 35% della sua produzione, il 40% sarà quello delle auto, moto, scooter, mobili, tessuti di pregio. Vi troverà questa vocazione scellerata, “dimenticandosi” del tutto al suo interno di incentivare quei settori in cui hanno prestato sicuramente più attenzione oltre gli USA anche molti paesi europei.

Erano le premesse del Boom, del “Miracolo Economico” dell’Italia, che inizierà nel ’55, decollerà nel ’58, e rimarrà tale fino al ’63. Con molti errori. Con la spinta dalle esportazioni, la grande industria (la più favorita dopo la guerra) fagocitò le risorse delle piccole imprese, e si verificò che i beni opulenti che produceva ebbero un tale abbattimento di costi, da far desiderare questi beni a tutti gli italiani che credettero di poter imitare con piccole auto il modello americano. Con 12 mensilità un operaio acquista un auto, ma dovrà lavorare un giorno intero, 10 ore per acquistare un chilo di carne, circa tre ore di lavoro per portarsi a casa un chilo di zucchero, un’ ora e mezza per un chilo di pane, spendere il 61% del suo stipendio per mangiare. E con servizi, sociali, sanità, istruzione, di bassa qualità se non assenti del tutto. Chi va in pensione riceve 50.000 lire all’anno, quando uno stipendio di un operaio è di circa 30/35.000 mensili.

Inoltre era cresciuto lo squilibrio tra le regioni del Nord e quelle Meridionali; le ondate di migrazione verso il triangolo industriale avevano creato grossi problemi di urbanizzazione; l’accennata crescita dell’esportazione aveva compresso il mercato interno e i salari (nonostante la crescita della produzione e dei profitti).

Nel corso degli anni ’50 il processo di sviluppo è continuato solo al Nord del Paese; ed ha avuto un importante momento nella nascita dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi-1953) e la conseguente sostituzione del petrolio al carbone come combustibile industriale.

Le tre città maggiormente interessate a questo fenomeno sono state Torino, Milano e Genova.

Lo sviluppo economico e occupazionale del Centro del Paese è rimasto in questi anni molto legato al settore terziario, al settore dei servizi e della pubblica amministrazione. In contrapposizione allo sviluppo che ha interessato il Nord Italia, invece, al Sud si è avuto il persistere di una struttura economica molto arretrata e legata all’agricoltura.

Una delle cause principali del cambiamento di vita degli italiani è sicuramente la crescita del settore industriale, che si sviluppa in maniera consistente sia in numero che in qualità.

Tale sviluppo permette, quindi, al sistema Italia di acquisire e sviluppare prodotti e beni per la gran parte dei cittadini, al contrario di quanto accadeva prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, dove questi beni erano a esclusivo appannaggio delle classi più abbienti.

In questo periodo si diffondono, in quasi tutti gli strati sociali, elettrodomestici (la produzione di lavatrici e frigoriferi quadruplica, quella dei televisori si moltiplica per otto), automobili etc...; questo a conferma della crescita della domanda di beni e servizi, non solo del mercato estero, ma anche e soprattutto di quello interno.

Bisogna segnalare, però, che questo trend non è uniforme in tutta la penisola, ma si verifica quasi esclusivamente nell’Italia settentrionale; i grandi poli industriali crescono e si sviluppano in prevalenza e in prossimità delle grandi città del Nord (Il triangolo industriale: Milano, Torino, Genova).

Le conseguenze di questo fenomeno sono che negli anni cinquanta, 1.9 milioni di lavoratori danno vita a un massiccio trasferimento nei grandi capoluoghi del nord. Questo porta, in primo luogo, a uno stravolgimento degli assetti urbanistici, a esempio nella sola città di Torino, nell’arco di pochi anni, si ha una crescita di circa 300.000 unità [22].

I flussi migratori, oltre che caratterizzare le città del nord, riprendono anche verso l’estero; c’è da segnalare però che, se durante i primi anni del novecento, gli spostamenti avvenivano in prevalenza verso l’Australia e l’America, dopo la seconda guerra mondiale tali movimenti sono concentrati verso il nord Europa (Germania, Belgio, Svizzera,...).

Per di più, l’industrializzazione del triangolo Torino - Milano - Genova avviene a discapito dei “già pochi” distretti industriali del Meridione, peggiorando ulteriormente la precaria situazione lavorativa nel Sud Italia. A conferma di ciò, tra il 1951 e il 1961, l’occupazione manifatturiera sale solo del 11,4% al Sud contro il 28,6% della media nazionale. Nello stesso periodo il settore tessile crolla dal 19,5% al 6,4% al Sud, mentre decolla al 65,8% nel solo Nord-Ovest.

La prima conseguenza dello sviluppo industriale nel Nord è l’implosione del sistema agricolo meridionale, che fino a quegli anni era stato il settore trainante dell’economia del Sud.

“l’esigenza di sfruttare al massimo gli impianti induceva alla necessità di massimizzare lo sfruttamento della forza lavoro. La catena di montaggio divenne il simbolo di questo modo di produrre fortemente massificatonel quale l’abilità dell’operaio professionale veniva sostituita, con maggiori profitti, dall’uso intensivo di una forza lavoro abbondante, poco professionalizzata, poco retribuita. ...Le tendenze già presenti nell’organizzazione tayloristica del lavoro, e nel metodo Bedeaux che ne introduceva in Italia i principi (nei primi anni 30) raggiungevano così la loro massima e più coerente applicazione.” [i]

Per le masse lavoratrici il miraggio di un nuovo impiego, meglio remunerato e considerato di maggior prestigio sociale, svilisce la figura del contadino e del bracciante a vantaggio dell’operaio di fabbrica. In quegli anni, infatti, gli impiegati in agricoltura diminuiscono di 1.5 milioni di unità, per contro gli occupati nell’industria e nei servizi aumentano di circa tre milioni.

Una concausa ulteriore del lento e progressivo abbandono da parte delle masse lavoratrici del settore agricolo è senza dubbio la sua indiscussa arretratezza. Anche se la riforma agraria, soprattutto al Sud, aveva prodotto dei risultati (marginali), di fatto le condizioni dei contadini erano particolarmente difficili nel sud Italia e la disoccupazione era arrivata a punte del 50% nelle Puglie e del 33-37% in Lucania. Nel Mezzogiorno il 50% degli agricoltori versava in stato di povertà, con un sistema agricolo ai limiti del collasso. Per questo motivo, come si è detto, le masse rurali del Sud trovano una allettante prospettiva nella, allora nascente, industria del Nord Italia.

C’è da dire, poi, che al calo dell’occupazione agricola si raccorda anche la diminuzione delle donne nel mondo del lavoro. Infatti, mentre nei campi la famiglia contadina è occupata interamente - anche se con bassa produttività - nelle città industriali del Nord solo gli uomini trovano lavoro.

Se la trasformazione da contadino a operaio diventa in questi anni un’evoluzione naturale del lavoratore italiano, più complessa risulta la formazione di una classe strettamente impiegatizia. Infatti, il settore terziario inizia a svilupparsi con un tasso di crescita inferiore rispetto all’industria. Ciò è dovuto principalmente a un basso livello d’istruzione della classe lavoratrice, ma al contempo anche da una scarsa possibilità di inserimento in settori allora considerati pionieristici.

Quindi la ancora scarsa occupazione nel settore terziario, l’abbandono di masse di lavoratori del settore agricolo a vantaggio di quello industriale creano di fatto un “imbuto” nel settore occupazionale, che vede come ovvia prospettiva lavorativa la fabbrica del Nord.

Anche se bisogna dire che, i complessi industriali del Nord, non riescono ad assorbire completamente l’offerta occupazionale; a conseguenza di ciò, si riscontra che in alcune zone del Meridione i tassi di disoccupazione sono prossimi al 30%.

Il Governo tenta di ovviare a questo nuovo e nascente problema istituendo la Cassa del Mezzogiorno [23] e proponendo una nuova riforma in campo agrario (1950); queste misure, sono volte ad arginare il fenomeno migratorio, la disoccupazione e a rilanciare l’economia nel sud del paese.

Purtroppo questi interventi, per una serie di motivi che non andremo a esplicitare, si riveleranno insufficienti e contribuiranno, alla fine degli anni ’60, ad aggravare lo scontro sociale.

Sono tutte cambiali in bianco che firmano in questi anni le industrie e il Governo e le direzioni sindacali (che sanno) e gli operai (che spesso non sanno) ma che in qualche modo avallano.

Poste tutte all’incasso nel 1963, si rischiò di portare tutta l’economia italiana al collasso.

Infatti, se gli anni del miracolo economico sono stati caratterizzati da un alto tasso di accumulazione, da stabilità monetaria e da un equilibrio della bilancia dei pagamenti, il decennio successivo sarà segnato da conflitti molto aspri che culmineranno nei grandi scontri sindacali del 1963 e della fine degli anni sessanta.

Preme sottolineare che il periodo 1945-1963 è realmente da considerarsi un momento di crescita economica e sociale per il paese; l’Italia degli anni ’50 è, sostanzialmente, il paese dei sogni da realizzare, obiettivo questo non utopistico perché mosso dal buon andamento del reddito che in questo periodo aumenta di oltre il 60%. Dopo 5 anni di guerra la gente è realmente convinta di poter lavorare, guadagnare, spendere e, garantire alle generazioni future, un lungo periodo di prosperità.

5.3 Delegittimare la sinistra

Va inoltre considerato che la fase immediatamente precedente il “miracolo italiano” (e ad onor del vero, in forma più lieve anche durante) è caratterizzata da un costante tentativo di delegittimazione della sinistra. Scriverà Pietro Calamandrei: “La pratica del Governo, nelle direttive ai prefetti e ai questori si è andata sempre di piu’ orientando, spesso in contrasto con la giurisprudenza giudiziaria, nel senso di fare un trattamento diverso, in tutti i campi in cui la pubblica amministrazione ha un potere discrezionale, ai cittadini appartenenti ai partiti di maggioranza e ai cittadini appartenenti ai partiti di opposizione. Le libertà civili e politiche non hanno piu’ uno stesso significato per tutti i cittadini: la libertà di associazione, di riunione, di circolazione, di stampa ha un contenuto diverso secondo chi lo invoca appartenga al partito degli eletti o a quello dei reprobi: la discriminazione contro i comunisti si è pian piano allargata contro tutti i “malpensanti”, contro tutti i “sovversivi”. La libertà di culto non esiste per i protestanti nella stessa misura in cui esiste per i cattolici. Il diritto al lavoro è diversamente garantito o messo in pericolo secondo la colorazione del sindacato al quale il lavoratore si iscrive”.

E aggiungerà G.G. Migone “ La Fiat, il cui esempio veniva poi seguito dalla maggior parte delle aziende, estrometteva i suoi dipendenti politicamente piu’ pericolosi, senza alle volte neppure curarsi di trovare ai suoi provvedimenti altro pretesto che non l’appartenenza al partito comunista; adottava i piu’ gravi provvedimenti disciplinari contro promotori di manifestazioni politiche e i diffusori di stampa politica nell’interno degli stabilimenti, reprimeva ogni partecipazione agli scioperi sindacali; ripristinava la giusta e necessaria disciplina sul lavoro, disponendo la ripresa cinematografica delle manifestazioni nell’interno degli stabilimenti per colpire esemplarmente i responsabili di atti di violenza; eliminava gradatamente i consigli di gestione e limitava alle sue istituzionali attività sindacali i compiti delle Commissioni interne; instaurava il principio, ora da tutti seguito, di non trattare mai con le maestranze in sciopero; decurtava i premi di produzione in relazione agli scioperi effettuati, premiando invece quanti si rifiutavano di prestarsi alla attività scioperaiola degli agitatori di Estrema Sinistra”. (ora in www.cronologia.it)

In quel periodo “Molti imprenditori si arricchirono e ciò rese ancora più inaccettabili le condizioni di sfruttamento nelle quali i lavoratori continuavano a vivere.

In sostanza gli utili delle imprese, sempre maggiori, finivano tutti nei portafogli dei ricchi, soprattutto del nord, senza contribuire al miglioramento economico dei ceti più poveri, soprattutto del sud, che cominciarono ad emigrare in massa verso il settentrione più florido.-----

Tuttavia, da un lato lo sviluppo dell’industria portò con sé lo sviluppo di un sindacato più forte, dall’altro le maggiori disponibilità economiche e la convinzione che un miglioramento economico dei lavoratori serviva anche ai “padroni” (altrimenti chi comprava le “600”?) comportarono condizioni favorevoli per lo sviluppo del diritto del lavoro.

Ciò anche grazie alla “dottrina sociale” della Chiesa, che influì positivamente su una parte della Democrazia cristiana, consentendo un’ampio consenso, anche da parte di settori moderati, intorno a riforme che oggi vengono tacciate come “comuniste” e antiliberali.” [24]

 

5.4 Riorganizzare il sindacato di classe

Verso la metà degli anni ’50 la CGIL pose il problema della riorganizzazione del sindacato a partire “dal problema di direzione, di efficienza e di democrazia interna.” [25]

In effetti la necessità di riorganizzazione subì gli influssi:

• della criticità del comunismo internazionale dopo i fatti Ungheresi e Polacchi, il 23 giugno del ’56 a Poznan, in Polonia, i lavoratori protestano per migliori condizioni di lavoro e salari adeguati, una delegazione sindacale, inviata a Varsavia per le trattative, verrà arrestata; la risposta in fabbrica non si lascia attendere, gli scontri saranno durissimi e il bagno di sangue avrà echi internazionali. La CGIL e Di Vittorio in prima fila, si schiera con i lavoratori e contesta la versione dell’Unità, organo di stampa del PCI, secondo il quale all’origine ci sono le manovre di alcuni agenti provocatori: “se non ci fosse stato un malcontento diffuso e profondo negli operai, i provocatori sarebbero stati facilmente isolato. Dovete eliminare il malcontento per eliminare le provocazioni” la spaccatura con il Partito Comunista è ormai avvenuta, le condizioni della classe operaia in Europa sono disastrose, l’8 Agosto 139 italiani muoiono nella sciagura delle miniere di Marcinelle, in Belgio, nei giorni successivi si conteranno definitivamente 263 cadaveri, il 26 Ottobre in Ungheria scoppia la rivolta, il PC Ungherese chiede aiuto ai sovietici. La CGIL condannerà l’intervento sovietico in Ungheria.)  [26]

• quanto evidenziato nel punto precedente porta i primi segni di spaccatura tra CGIL e PCI.La CGIL di Di Vittorio e il PCI di Togliatti daranno un giudizio diverso sull’operato di Chruscev e sul percorso dell’Unione Sovietica, giudizio che orienterà prepotentemente la CGIL sulla strada dell’autonomia del partito.

• Va inoltre considerata la conseguente e quasi diretta crescita, all’interno della stessa CGIL, della corrente socialista, la cui impronta revisionista si caratterizzò anche con la progressiva autonomia dal PSI (già in collaborazione politica con la DC; collaborazione sancita dai congressi di Torino del ’55, di Venezia del ’57 e di Napoli del ’59).

5.5 Le modificazioni socio-produttive e nella composizione di classe

Si assiste, di fatto, ad una crescita economica che modificherà le strutture sociali del paese e, di conseguenza, la composizione della classe operaia. L’Italia si colloca, a partire dalla fine degli anni ’50, tra i paesi industrializzati anche se tale privilegio, fatto di maggiori salari e tendenza alla piena occupazione nel modello fordista, stenta ad approdare nel paese. Va tuttavia registrato che il così detto “miracolo italiano” si concretizzo anche perchè:

• l’esportazione italiana aumenta considerevolmente, grazie anche ad elementi congiunturali quali la crescita dell’economia americana, (e la conseguente stabilità del dollaro) e all’apertura dei mercati internazionali che ne facilita lo sviluppo,

• la stabilità monetaria aiutò l’aumento degli investimenti diretti,

• le grandi opere pubbliche che lo Stato effettuò rappresentarono un importante sostegno allo sviluppo del paese.

Tale processo durerà un intero quinquennio, dal ’58 al ’63, fino cioè alla crisi del ’64-’65

Il censimento realizzato dall’ISTAT nel 1951 fornisce una panoramica della distribuzione degli occupati nei settori primario, secondario e terziario. (Cfr. Graff.1, 2, 3)

In questi anni cominciò a svilupparsi il concetto di “distretto industriale” (ossia una raggruppamento territoriale di imprese indipendenti e specializzate in una singola industria o filiera) o unità locali.

Il distretto si caratterizza per la specializzazione dl lavoro, per l’ambiente di lavoro e per l’ambiente esterno al quale fa riferimento (ossia le relazioni commerciali, le reti ecc.).

Nel settore primario, secondario e terziario, nel Nord e nel Centro, il rapporto fra imprese e distretti era evidentemente, molto diverso fra Nord e Sud. Questo anche perché al sud era più facile installare piccole strutture e formare il personale con meno costi, rispetto alla complessità del lavoro in fabbrica.

Per quanto riguarda gli occupati, si manifesta la persistenza del divario fra nord e sud e i relativi problemi di occupazione. Sia per la fuga dei giovani verso il Nord, sia per una mancata, voluta dagli industriali e dal Governo, propensione allo sviluppo del Sud, gli addetti, in tutti i settori risultano essere maggiormente occupati al Nord Italia.

Come si è visto in precedenza è proprio in questi anni che si sviluppa e si rafforza l’organizzazione sindacale dei lavoratori; la nascita della CGIL (Confederazione Generale Italiana dei Lavoratori) nel 1944 e la successiva scissione in CGIL, CISL e UIL hanno portato negli anni ’50 ad una crescita delle iscrizioni dei lavoratori ad un sindacato (anche se alla fine del decennio si è avuto un notevole rallentamento degli iscritti dovuto alla percezione da parte dei lavoratori della scarsa attività e incisività dei sindacati). Cfr. Tabb. 1, 2, 3.

In questo periodo come si è scritto si ha una prima e profonda trasformazione socio-occupazionale con una forte industrializzazione del Paese. Ciò a inizio degli anni ’60 porta al declino dei distretti industriali, fino ad allora motore trainante della microeconomia italiana. Nel 1951 risultano, dal censimento, 149 distretti sparsi su tutto il territorio, e principalmente al Sud, in particolare in Campania e in Calabria. Negli anni successivi questi sistemi locali quasi spariscono probabilmente perché soggetti alla forte concorrenza esercitata dalle imprese del Centro-Nord, che mirano a inglobare anche questi piccoli centri produttivi. Questo porta alla progressiva desertificazione di queste realtà meridionali. Le strutture e le dimensioni distrettuali comunque dopo questa temporanea battuta d’arresto daranno vita negli anni a venire a una realtà decisamente positiva nell’economia italiana.

I cambiamenti sociali di questo periodo trovano sicuramente conferma sia nella nazionalizzazione dell’Energia Elettrica, ma soprattutto nell’affermarsi del ruolo della donna nella vita sociale del Paese, gettando le basi di un futuro inserimento anche nel mondo del lavoro (fine anni sessanta).

Il 1946, infatti, è l’anno in cui le donne possono per la prima volta in Italia esercitare in diritto al voto, un diritto che era stato a lungo negato nonostante le battaglie condotte per molti anni. Il diritto appena acquisito contribuisce a riconoscere, a chi aveva contribuito in maniera decisiva alla democratizzazione e alla crescita economica del Paese, con un ruolo decisamente fondamentale nella società italiana.

Concludendo, è necessario sottolineare che all’indomani della seconda guerra mondiale le sostanziali modificazioni produttive italiane hanno sì aggravato la situazione di alcuni settori economici (la scomparsa a esempio dei distretti industriali e il progressivo abbandono delle campagne), ma, al contempo, la forte crescita dell’Industria ha portato l’Italia verso la piena occupazione nei primi anni ’60. Nel 1963, infatti, si registra un tasso di disoccupazione pari al 3,9 %, il più basso mai raggiunto nel nostro Paese.

5.6 La fase della programmazione

Lo sviluppo del capitalismo, specie quello industriale, della fine degli anni ’50 evidenzierà però, nel decennio successivo, tutte le sue contraddizioni.

Le logiche di profitto determinano un impoverimento delle condizioni di vita della società e i valori di solidarietà e giustizia sociale, ricompresi anche nella morale della Chiesa cattolica, spingono la CISL verso quei temi già cari alla sinistra sindacale determinando, di fatto, un rinnovamento del processo unitario del sindacalismo italiano [27].

Tale processo si arricchisce della importante impronta della componente socialista della CGIL che vede nella volontà unificatrice lo strumento per un nuovo corso del sindacalismo italiano. Tale volontà si concretizzerà nella logica di programmazione, utile nei rapporti con i lavoratori ma ancora di più nei confronti di Governo ed industriali. Unica voce in dissenso la sinistra CGIL che, pur contestando il modello anglosassone, riproporrà il significato del sindacato come unico strumento di legittimazione e difesa delle esigenze dei lavoratori [28].-----

“la programmazione viene infatti intesa come una coerente ed efficace strategia interna del sindacato sulla politica economica di sviluppo, una razionalizzazione omogenea delle politiche rivendicative e delle linee di azione...” [29]

La fase della programmazione, elemento propulsivo dell’unità sindacale, perde la sua forza quando traspare che l’unità non è frutto di un processo che ha coinvolto a pieno la base dei lavoratori, bensì l’equilibrio tra le forze politiche che ispirano i dirigenti sindacali; la tanto decantata indipendenza, (contestata alla sinistra CGIL “cinghia di trasmissione” ma non dalla componente comunista) [30], svela la falsa strategia innovatrice e riformista della corrente socialista CGIL, ne determina la pressoché totale disfatta negli anni ’70 [31], e ne compromette l’esistenza negli anni ’80 nonostante, con l’avvento del craxismo, il partito sarà più presente sulla scena del sistema politico [32]

6. Gli anni ’60

6.1 Le trasformazioni socio-occupazionali

Una attenta analisi del decennio in esame, il ’60, evidenzia tutti i limiti del sindacalismo italiano che, con la strategia unitaria della programmazione, non si accorge della crisi capitalistica che il mondo attraversa né tantomeno percepisce il rischio che corre il mondo del lavoro nelle soluzioni e nelle dinamiche che si tengono per dare soluzione a tale crisi; si pensi che dal ’53 al ’60 l’indice di rendimento del lavoro passa dal 100 al 140,6% mentre quello dei guadagni da lavoro dipendente da 100 a 108,9%. Il miracolo economico si basa prevalentemente sulla compressione dei salari e sullo sfruttamento della manodopera.

Uno dei principali ambiti di sviluppo della dottrina della programmazione sarà la politica dei redditi, frequentemente confusa con la sola politica dei salari, alla quale lo stesso Governo dell’epoca tentò di ricorrere.

Il Governo di quegli anni, spinto anche da una “dottrina sociale della Chiesa” che caratterizzava ampi strati della Democrazia Cristiana, si predispose verso una politica delle riforme, nel campo del lavoro, di particolare importanza: “Si cominciò nel 1959 con l’estensione per legge a tutti i lavoratori delle stesse condizioni economiche e normative contenute nei contratti collettivi.

Si proseguì poi con la fondamentale riforma dell’intermediazione di manodopera del 1960, che consentì di superare la pratica del “caporalato”, che metteva i lavoratori in mano ad organizzazioni criminali, soprattutto al sud, e li esponeva allo sfruttamento per l’applicazione di condizioni deteriori ma tuttavia “legali”.

La legge vietò la mera intermediazione, garantendo condizioni paritarie in caso di appalto di mano d’opera tra lavoratori dell’appaltatore e dell’appaltante e costituendo una spinta decisiva verso una delle caratteristiche fondamentali del “diritto del lavoro”: la prevalenza della “sostanza” sulla “forma”. Nel diritto del lavoro, infatti, conta, e può essere accertato giudizialmente, chi è il vero datore di lavoro, quale è la vera natura del rapporto di lavoro (autonomo o subordinato), quali sono le vere condizioni e modalità del rapporto, a prescindere dagli aspetti formali del contratto.

Seguì poi la riforma del contratto a termine (nel 1962), che vincolò l’utilizzazione di questo strumento a ben precise condizioni e forme, con l’automatica conversione in rapporto a tempo indeterminato in caso di violazione, per evitarne l’abuso allo scopo di sottrarsi alle norme a tutela del lavoro a tempo indeterminato (ma l’importanza della riforma divenne più evidente a seguito soprattutto del successivo sviluppo della normativa sui licenziamenti) e la legge del 1963 sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio.” [33]

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6.2 Unità di classe o unità sindacale

La ricerca affannosa dell’unità sindacale, e la sua altrettanto affannosa costruzione, si sviluppa con due percorsi paralleli: dall’alto e dal basso;

* dall’alto si tenterà la svolta con la riunione di Firenze del ’70 per poi concludersi rovinosamente con le Firenze 2 e 3 del ’71 dove si sancirà un accordo tra componenti sindacali di partito, in un periodo che Giugni definirà di “supplenza sindacale”;

* dal basso si realizzerà forse il modello più adeguato, i Consigli di Fabbrica, primo vero esperimento di sindacalismo industriale del paese con la continua ricerca dell’unità e dell’indipendenza di classe.

Quale sia stato il peso all’interno della società e dello Stato della borghesia industriale, è rivelato dai fortissimi ritardi che aveva la nostra legislazione sociale e dagli ostacoli che incontrarono i progetti di legge nel settore. “ Lo Stato borghese in Italia nasce con la rivoluzione industriale e vede il suo avversario principale non nel feudalesimo, che ha rappresentato in definitiva solo uno stadio della sua lotta, ma nella classe operaia; e le lotte contro la classe operaia per batterla e catturarla segnano le tappe della sua storia” [34]

È una borghesia che insieme alle tecniche produttive aveva importato dal modello anglosassone la consapevolezza di contrastare e assoggettare la classe operaia: attraverso i regolamenti di fabbrica, il paternalismo aziendale di reminescenza saintsimoniana distorta [i] con le società di mutuo soccorso che, almeno inizialmente, erano espressione della capacità egemonica esercitata sulle masse popolari dalle varie forze che si disputavano il potere [35].

Contrapposto a questa borghesia, c’è un proletariato industriale che si eleva progressivamente dalla condizione di massa a dignità di classe nel vivo delle lotte, in cui acquista forza e coscienza di sé e determina, al tempo stesso, la presa di coscienza in senso anticapitalistica di larghe fasce di proletariato non di fabbrica in una dimensione di indipendenza e di ricerca dell’unità di classe.

Sono le lotte contro il macchinismo, [36] la razionalizzazione della fabbrica, le misere condizioni di vita operaie; sono le lotte anche perdenti e disperate che si sviluppano nella spontaneità (sullo “spontaneismo” vedremo nel corso degli anni come verrà assunto dapprima come strumento da governare e successivamente come punto di caduta della strategia rivoluzionaria), ma nelle quali maturano le prime tecniche di difesa operaia dallo sfruttamento padronale e le prime esigenze organizzative che superino l’instabilità dell’assemblea di fabbrica: il passaggio dalla resistenza sotterranea e dalla ribellione anarcoide allo sciopero organizzato e cosciente, rappresenta una conquista sul clima dei ricatti, paure, manipolazioni cui l’operaio è sottoposto: conquista difficilissima da raggiungere e altrettanto difficile da tenere e difendere per la totale assenza di tradizioni di lotte, di appoggi, di organizzazione. È il più delle volte il raggiungimento di un livello di coscienza operaio che subito si spegne, magari anche nella sconfitta più dura, ma che ha comunque un gran significato politico in quanto denuncia il fallimento del tentativo padronale di creare una aristocrazia operaia da usare come arma di manovra contro le lotte.” [37]

E ancora

“La lotta spontanea ha portato in primo piano masse operaie di dimensioni prima sconosciute, un tipo di dirigente operaio profondamente diverso dal cospiratore internazionalista e dal funzionario dell’associazione operaia, capace di contatto e di direzione con masse in movimento; ed inoltre un tipo di fabbrica, la fabbrica moderna, che rappresenta un salto economico, organizzativo rispetto anche agli aspetti tecnologicamente più avanzati della manifattura.” [38]

Negli anni ’60 riemerge con forza una spinta autonoma operaia, la classe si fornirà di nuovi strumenti organizzativi di base, carichi di potenzialità. Una classe che pur attraverso delusioni si riconosce nelle organizzazioni storiche ma che guarderà con fiducia al ruolo delle organizzazioni di base. [39]

Tale spinta non riemerge in assenza di un preciso ruolo e di concreti risultati da parte del sindacalismo confederale ma si insinua tra le contraddizioni dell’evoluzione del modello sindacale che CGIL CISL UIL tentano di ridisegnare, pur legittimati da importanti risultati: “Nel 1965 i sindacati riuscirono a concludere importanti accordi interconfederali in tema di licenziamenti individuali e collettivi.

L’imprenditore, in particolare, fu vincolato all’osservanza di una procedura di informazione e di confronto con i sindacati prima di poter precedere a licenziamenti collettivi, che superasse un certo numero di lavoratori, e a scegliere i lavoratori eventualmente da licenziare sulla base di criteri obiettivi.

L’accordo sui licenziamenti individuali sfociò addirittura nella legge fondamentale del 1966 (poi riordinata nel 1990), che vietò i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, prevedendo la sanzione della riassunzione o del risarcimento del danno nel caso di inosservanza.

Nel 1968 fu emanata una legge che imponeva ai datori di lavoro, pubblici e privati, di assumere almeno il 15% di lavoratori appartenenti a categorie più svantaggiate, tra cui gli invalidi.” [40]

6.3 La sinistra (oltre il pci) nell’intervento operaio degli anni ’60 e primi anni ’70

Il massiccio flusso migratorio che caratterizzò il “Miracolo Economico” (offrendo quella manovalanza a basso costo, che favorì l’aumento di produzione, dell’operaio massa che successivamente analizzeremo) modificò sostanzialmente la natura della classe operaia.

L’assenza di politicizzazione e sindacalizzazione, l’ostilità al senso di organizzazione (tipica della cultura contadina) e la spiccata propensione alla ribellione (considerando anche le condizioni disagiate di vita oltre che di lavoro), determinarono nei primi anni ’60 un inasprirsi di conflitti sociali tra i “nuovi operai” e la borghesia (e le sue forme di rappresentazione e connivenza).

I conflitti non solo erano inusuali (vedremo come i fatti di Piazza Statuto a Torino si svolsero contro la UIL, rea di aver siglato un contratto FIAT dal quale era stata esclusa la CGIL e si era, per protesta, rifiutata la CISL) ma addirittura si concludevano con forte conflittualità, con veri episodi di guerriglia urbana e questo colse impreparata la CGIL ed il PCI che tacciarono da subito tali episodi come frutto di “provocatori” legati alla FIAT (come il gruppo Pace e Libertà), dimostrando la loro netta incapacità di comprendere ed intercettare i nascenti bisogni di un nuovo e più articolato movimento operaio.

In questa prima fase e fino a metà decennio i lavoratori coinvolti in tale importante processo non sentono il bisogno di orientare il sindacato né di strutturarsi in senso antagonista ad esso; solo il rapporto con le strutture politiche di fabbrica (e con quelle di orientamento marxista) caratterizzerà il percorso (che successivamente analizzeremo) del movimento del ’68 - ’69.

Tre furono i gruppi principali della sinistra di classe che si rapportarono con la nuova realtà (quattro se consideriamo i Marxisti - Leninisti, entristi nel PCI che non svilupparono mai compiutamente - tranne poche realtà di cui una a Napoli - una propria originale posizione sulla questione operaia dell’epoca);

gli Operaisti: (Classe Operaia, Gatto Selvaggio, Quaderni Rossi)

i Trotzkjisti: (Avanguardia Operaia, Gruppi Comunisti Rivoluzionari, Unità Operaia,)

i Bordighisti: (Lotta Comunista, Partito Comunista Internazionalista - Battaglia Comunista, P.C. Internazionalista - Programma Comunista, P.C.Intern. Rivoluzione Comunista, Unità Proletaria - Cremona,..)

Gli Operaisti furono certamente i più rapidi nel percepire il nuovo che andava affacciandosi; dettero subito vita a gruppi che a lungo intervennero dall’esterno delle fabbriche e che, però, solo verso il ’67 - ’68 produsse aggregazioni operaie collegate (Circolo Rosa Luxemburg di Genova, Potere Operaio - Milano, il Potere Operaio - Pisa, Pot.Op. - Veneto Emiliano). L’intuizione più rilevante dei gruppi operaisti fu l’individuazione dell’operaio comune, con la sua carica ribellistica, come soggetto portatore di bisogni nuovi e radicali.

La centralità del salario, se da un lato diventava il vettore della generalizzazione del conflitto in fabbrica, dall’altro, attraverso la tematica degli aumenti uguali per tutti, assicurava la massima partecipazione degli operai comuni, ponendo anche le premesse per un attacco a tutta l’organizzazione del lavoro. ... La battaglia salariale si presentava quindi come l’aggressione al punto critico del sistema produttivo, assicurando il massimo di spinta conflittuale. Intorno ad essa ruotavano poi altri oggetti del conflitto quali la riduzione dell’orario, il rifiuto della disciplina in azienda, la critica alle forme di rappresentanza esistenti, la lotta alla nocività e per il risanamento dell’ambiente di lavoro... sino alla fine degli anni ’60 la linea ufficiale dei sindacati non comprendeva nel proprio orizzonte il risanamento dell’ambiente di lavoro, la nocività diventava così solo uno degli elementi per il calcolo della retribuzione; fu merito dei primi gruppi della Nuova Sinistra la profonda trasformazione di questa ottica con il rifiuto della monetizzazione della salute. Ugualmente si deve ai primi gruppi operaisti (e per la verità anche ad altri gruppi dell’estrema sinistra, ad esempio i trotzkjisti) la critica delle forme di rappresentanza vigenti, cioè il sistema basato sulle Rappresentanze Aziendali Sindacali e le Commissioni Interne.” [41]

La critica alle Commissioni Interne nasce dal fatto che queste coinvolgevano i lavoratori sole in fase di voto inoltre esponevano i delegati a notevoli rischi, tra i quali la corruzione e la repressione della direzione. L’esigenza dell’indipendenza e la ricerca dell’unità di classe si esprime con il bisogno di forme di democrazia diretta e con la necessità di far pesare gli operai non sindacalizzati e dunque facilmente esclusi dalle Commissioni Interne.

I trotzkjisti: nonostante alcune similitudini comportamentali con gli operaisti, non sono attenti al nuovo rappresentato dagli operai comuni, questo probabilmente a causa della politica entrista nel PCI e nella CGIL, politica che comunque gli permise di individuare alcuni operai più politicizzabili e, attraverso questi, costruire una opposizione sindacale.

“È indubbio che tale sistema desse i suoi risultati. Essenzialmente a Milano, ma anche a Roma e a Torino, nacquero in questo modo i primi gruppi da cui prendevano vita i CUB. Ma questo comportava anche il privilegiare gli operai specializzati, i tecnici, talvolta gli impiegati che, più facilmente degli operai comuni, si iscrivevano al PCI e alla CGIL assumendone incarichi dirigenti a livello aziendale. Di qui la percezione meno netta ed immediata della soggettività espressa dagli operai comuni. Peraltro i trotzkjisti si caratterizzavano per una cultura politica più tradizionale ed insieme più ricca di quella degli operaisti (grande attenzione alle questioni internazionali, interesse anche per la dimensione istituzionale della politica,...) il che non facilitava certamente la penetrazione tra i lavoratori meno colti.” [i]

Fatta eccezione che per la questione del salario, le altre tematiche, riduzione dell’orario, rifiuto della monetizzazione delle nocività e critica delle Commissioni Interne, coincideranno con le politiche degli operaisti.

I bordighisti: “furono in larga parte marginali salvo rare situazioni, (Cremona per Battaglia Comunista e Genova per Lotta Comunista) nelle quali, sintomaticamente, essi espressero una linea ampiamente similare a quella degli operaisti (Lotta Comunista si è caratterizzata da sempre per il suo marcato salarialismo).

(“IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate - Roma, Maggio 1988 pag.107)

6.4 Il PCI e il contesto politico di riferimento (anni ’60)

Va sottolineato che il contesto politico nazionale e internazionale non è dei più idonei allo sviluppo di un processo di analisi funzionale ad individuare la natura del disagio operaio, perché il disagio risiede in ogni aspetto della società, in ogni dimensione in cui si configura la funzione dell’operaio massa, anche nel sociale e nel territorio.

Se da un lato, quello internazionale, prevale la consapevolezza che ben presto si arriverà ad uno scontro armato tra l’occidente ed il blocco comunista (e la DC italiana è convinta di questa tesi), molti pensano che lo scontro si trasformerà in una competizione pacifica tra i due blocchi (riservando l’azione militare alle aree marginali del Sud del mondo)ed in previsione di questo evento (riassunto dai più come prassi di guerra non convenzionale) si avrà cura di:

• integrare nelle maggioranze i socialdemocratici ed i socialisti moderati;

• creare partiti e sindacati anticomunisti;

• determinare una azione di propaganda politica, attraverso giornali, radio e case editrici

In questo contesto Vaticano e Inghilterra sono propensi a sostenere e foraggiare le forze conservatrici, mentre gli USA sono per la strutturazione di una componente antagonista all’espandersi dell’influenza del marxismo nella società e nella cultura in Italia. Influenza che invece sempre più si radica là dove il disagio è più accentuato, là dove le condizioni di sfruttamento del lavoro vivono e si sommano all’alienazione della catena di montaggio, là dove il moderatismo dell’asse PCI-CGIL frena i processi rivoluzionari della classe invece di governarli (o peggio approfitta del movimentismo “di piazza” per intervenire a garanzia dei modelli di democrazia borghese, assumendo sempre più il ruolo di moderatore della fase, ruolo che a distanza di pochi anni non sarà più in condizione di garantire).

La guerra anticomunista passa così dal piano militare (la Gladio ed i vari gruppi militari in funzione di sabotaggio) [i] al piano politico - culturale (che non disdegna comunque le azioni violente, armate, a finalità stragiste dei gruppi fascisti o il ricordo al golpe militare come strumenti adeguati a ricondurre la sinistra al ruolo di semplice spettatore) caratterizzato dal finanziamento(tramite la CIA) di svariati sindacati gialli, di gruppi neofascisti e conservatori ed anche di forze cosiddette socialiste in funzione anticomunista.

È importante però contestualizzare la posizione e le difficoltà del PCI di quegli anni che insisteva, da una parte, per una “via italiana al socialismo”, rispettosa della storia peculiare d’Italia e quindi del contributo che ad essa diedero tutte le forze, borghesia illuminata inclusa, e dall’altra non poteva, e forse ancora non voleva, respingere la forte carica anticapitalista che le masse andavano esprimendo con le lotte dei primi anni ’60.

Ciò corrispondeva, sul piano della storiografia militante, alla difficile elaborazione di lineadel PCIdiquegli anni, teso al sostegno delle lotte operaie, ma anche preoccupato che l’alleanza fra classe operaia e strati diversi della popolazione per l’ampliamento degli spazi democratici, su cui era impegnato, potesse essere messa in crisi dalla combattività nascente sui luoghi di lavoro.

Scriveva a proposito V.Foa: ... “Non bisogna separare le due lotte... la democrazia rappresentativa, come strumento di potere pubblico, diventerà effettiva solo quando sarà stata liberata dalle ipoteche che su essa pesano in modo paralizzante, e che questa lotta di liberazione passa necessariamente, anche se non esclusivamente, nella struttura, nei luoghi di lavoro.”

(V.Foa, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in Q.R. 1961, 1, p. 11)

E sullo stesso tema negli anni successivi:.. “dare organicità alle nostre risposte, dare organicità alle lotte per la casa, per l’occupazione, per la riduzione dei prezzi, alle lotte di fabbrica, creare un quadro più vasto, ecco una esigenza profondamente sentita; dare ai disoccupati nei momenti in cui la lotta si farà più acuta, degli obiettivi generalizzati, è una necessità assoluta, ...dobbiamo lavorarci sapendo che nella generalizzazione degli obiettivi c’è il pericolo ad un certo punto che l’obiettivo diventi così generale da non mobilitare più, e il problema è di riuscire a saldare queste due componenti...” [42]

C’è da considerare inoltre che la citata combattività nascente nei luoghi di lavoro, teneva unita la classe operaia alle masse di proletariato in cerca di più ampi spazi di democrazia, (il che contribuirà a generare la fase più importante del movimento sindacale di classe, negli anni ’70) ma esponeva pericolosamente il conflitto al rischio di una amplificazione difficilmente controllabile da parte del PCI e della CGIL. Questo elemento, insieme alla già citata difficoltà di elaborazione della linea da parte del PCI, in generale e in particolare in merito alla comprensione delle nuove espressioni dell’autonomia di classe e rapportato al pericolo golpista sempre presente in quegli anni, aprirà il fianco (nella seconda metà degli anni ’70, quando ormai è forte la crisi del movimento comunista e si intravede una ripresa dell’imperialismo) all’esperienza dei movimenti rivoluzionari, alcuni dei quali fanno della lotta armata un rilevante carattere espressivo.

“...la Resistenza nelle fabbriche per colpire i nemici, i sabotatori e i liquidatori dell’unità e della lotta operaia, per contendere palmo a palmo l’iniziativa padronale che sulla sconfitta politica del movimento operaio vuol fare passare qualche altro decennio di sfruttamento e di oppressione.” [i] “Il terrorismo di sinistra, nella sua fase originaria...nasce principalmente come ipotesi e strategia difensiva «vetero resistenziale» nei confronti dell’offensiva fascista e del pericolo di un colpo di stato militare”(a cura di Boato M., “Un terremoto traumatizzante in una società in crisi” in «Ottantagiorni. Racconti di notizie» Gennaio-Febbraio ’82. oggi in “La Politica della Violenza” a cura di R. Catanzaro- Il Mulino - per Istituto Cattaneo - 1990 pag. 65).” Riconsiderando criticamente, nel suo insieme, l’ultimo decennio, si può affermare che molto probabilmente nel quinquennio 1975-’80 il terrorismo di sinistra avrebbe avuto dimensioni molto più ridotte sul piano quantitativo e una incidenza politica assai meno rilevante se lungo tutto l’arco del quinquennio 1969-’74 non si fosse sviluppata pressoché impunemente quella strategia della tensione, della strage e del colpo di stato che aveva visto coinvolte non solo le organizzazioni paramilitari di estrema destra, ma anche in prima persona centri delicatissimi dei corpi armati, di polizia e dei servizi segreti dello Stato”. a cura di Boato M. “ Il terrorismo e il caso italiano” in «Mondoperaio» n° 10)

7. Le lotte... ben oltre CGIL, CISL, UIL

Troppo spesso si considera la fine degli anni ’60 come il periodo delle grandi contestazioni e dei grandi conflitti.

In effetti già dalla seconda metà del ’62 le lotte operaie “segnano livelli altissimi di partecipazione: 181 milioni di ore di sciopero con circa tre milioni di adesioni” [43]. E il grande sciopero del 23 Giugno (60.000 operai FIAT - e anche qualche impiegato - in piazza) e del 6 luglio con quasi tutti gli operai FIAT a Torino coinvolti, oltre gli studenti e molti abitanti del quartiere, (e dei lavoratori in corteo a Piazza Statuto per contestare la UIL, firmataria del contratto bidone) danno il senso delle lotte di massa che si protrarranno per tutto il decennio. Il 4 Luglio la Confindustria aveva interrotto le trattative mentre la FIAT avviò la trattativa aziendale con i «liberi sindacati» UIL, SIDA e CISL, che rifiutò la trattativa; il 6 Luglio a Torino gli operai della FIAT manifestano a piazza Statuto, sede della UIL, contro l’accordo siglato da questo confederazione. Ben presto la manifestazione degenera in una forte risposta repressiva poliziesca. Studenti e cittadini si scontrano per tre giorni con le forze dell’ordine che alla fine conteranno 169 feriti, i fermati saranno 1215, 90 gli arrestati e 100 i denunciati a piede libero. Tre giorni di contestazione cittadina a sostegno degli operai FIAT in lotta a Piazza Statuto, molti iscritti alla UIL, dopo un mese la FIAT licenzierà 88 operai.

Il fermento sociale èe il conflitto si allargano a molte aree del Paese e ancora una volta la destra eversiva presta il fianco ed è strumento armato dell’opera di normalizzazione che lo stato capitalista ha necessità di attuare per riassettare il tiro ed uscire dalla crisi. Nel ’64 con il “piano solo” si tenta di dare una risposta energica alla minaccia eversiva che viene dal mondo del lavoro, 731 tra dirigenti sindacali e parlamentari di sinistra sono nel mirino dei “golpisti”, per loro è previsto il trasferimento forzato in Sardegna; l’operazione salterà all’ultimo momento ma le “prove generali” resteranno vive per molti anni e si riproporranno in particolari momenti con i dovuti correttivi.

Lo scemare della crisi congiunturale del ’64 - ’66 ripropone uno scenario di lotte operaie caratterizzato da un importante avvenimento: in occasione dei festeggiamenti unitari del 1° Maggio, le piazze solitamente occupate dalla sinistra vengono vergognosamente lasciate vuote dal sindacato ufficiale per essere sostituite da altre iniziative che, proprio per la natura unitaria, non hanno necessità di essere troppo caratterizzanti, in queste piazze storiche, gruppi di lavoratori, studenti organizzati in maniera spontanea e in parte da operai con cultura e formazione marxista-leninista, gettano le basi per stimolare una critica di massa alle forze politiche e sindacali che sarà la vera base per la costruzione di aggregazione autonome da CGIL-CISL-UIL, per riaffermare l’indipendenza del movimento di classe.

Già dalla fine del ’67, per tutto il ’68 e prepotentemente nel ’69 le aggregazioni extra confederali si sviluppano in tutto il paese con una caratterizzazione nel Meridione, i Comitati di Lotta (CdL), ed una prevalentemente nel Nord Italia e al Centro, cioè, i Comitati Unitari di Base (CUB).

Ma tutto ciò sarà argomento del prossimo numero di Proteo.


[1] Di fatto non fu così, tanto che gli USA giustificarono l’intervento della CIA, nei decenni successivi, sulle vicende che legarono massoneria, servizi deviati, destra eversiva e terrorismo di sinistra in una unica strategia destabilizzatrice che rideterminasse tempi e modi per una nuova fase dell’imperialismo USA. Ma ancora prima, tra il ’51 e il ’55, lo Stato iniziò le schedature degli operai e degli esponenti di sinistra e gli Americani posero limiti alle commesse italiane che non dovevano essere attribuite ad industrie che occupavano frange comuniste o della CGIL) *(su tali argomenti vedi anche: G. Rossi, F. Lombrassa, “In nome della Loggia”, Napoleone editore, Roma 1981).

[2] Stefano Musso, Storia del lavoro in Italia dalla unità ad oggi, Marsilio editore, febbr. 2002, pag. 190.

[3] Per approfondimenti si veda C.Vallari, Le radici del corporativismo, Bulzoni editore, Roma, 1971.

[4] Stefano Musso, Storia dle lavoro in Italia dalla...”, op. cit. pag.186.

[5] C’è bisogno di menzionare, seppur brevemente, due importanti esperienze che meriterebbero un approfondimento di studio e che caratterizzeranno successivamente la storia politica e sindacale del meridione: la vicenda della CGdL meridionale e quella della Federazione di Montesanto. Ambedue queste esperienze nascono, come si è detto, nel meridione ed ambedue da sinistra ma soprattutto nascono animate dallo spirito interclassista che la CGIL unitaria sarà costretta ad assumere per mantenere “adeguato” il rapporto con la corrente DC.

[6] Giovanni Cannella magistrato di Corte d’Appello, l’articolo è tratto dal numero monografico di marzo 2002 della rivista “Il Ponte” intitolato ”Quale governo quale giustizia” L’articolo, che è pubblicato anche su Omissis (www.omissis.too.it), riproduce la relazione introduttiva per l’assemblea pubblica e dibattito dal titolo “No al lavoro senza diritti”, organizzata a Roma il 14/12/01 dal Forum Diritti-Giustizia (Social Forum Roma)-Antigone, Cred, Giuristi democratici, Progetto diritti, Camera del lavoro e del non lavoro, Cobas, Rdb, Avvocati progressisti italiani, Magistratura democratica romana.)

[7] A eccezione del settore siderurgico italiano che aveva perduto un quarto degli impianti di produzione; a esempio lo stabilimento di Cornigliano (Lo sviluppo dell’economia italiana di A. Graziani, 1998, Bollati Boringhieri).

[8] Si ricorda che oltre la metà delle locomotive e delle vetture furono distrutte e che la marina mercantile si trovò a perdere il 90% del naviglio (A. Graziani, ... op. cit.).

[9] “...le stime ufficiali ponevano il numero dei disoccupati intorno ai due milioni, ma con ogni probabilità peccavano per difetto, in quanto trascuravano i sottooccupati...”; A. Graziani, . op. cit., pag.22.

[10] F. Barca, (a cura di) Storia del Capitalismo italiano, Progetti Donzelli, pag. 117 ss.

[11] European Recovery Program, meglio conosciuto come piano Marshall, dal nome del segretario di Stato americano George Marshall. “...può così realizzarsi, come nel resto d’Europa, l’effetto più rilevante del piano Marshall: la creazione di condizioni che consentano l’avvio della liberalizzazione commerciale e riducano le tensioni sociali della ricostruzione...” F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano, 1997, Progetti Donzelli, pag. 31.

[12] L.Lama, Cari compagni, a cura di P.Cascella, EDIESSE, srl, febbraio 1986, Roma, pag. 22.

[13] A. Pepe, P.Iuso, S. Misiani, La CGIL e la costruzione della democrazia Ediesse, Roma, ’01 pag. 51 e seg.

[14] Per ulteriori approfondimenti vedi: “I congressi della CGIL” vol.II, Congresso unitario CIL 1-7 Giugno (teatro Comunale) Roma, Editrice Sindacale Italiana, 1970.

[15] Da: www.uil.it/storia.htm <http://www.uil.it/storia.htm

[16] Verso il cinquantesimo CISL: storia breve della fondazione e dei congressi nazionali Le tappe di un lungo cammino di Ivo Camerini. ora in:http://online.cisl.it/arc.storico/%233514667.

[17] Verso il cinquantesimo CISL: storia breve della fondazione e dei congressi nazionali Le tappe di un lungo cammino di Ivo Camerini. ora in:http://online.cisl.it/arc.storico/%233514667.

[18] A. Pepe, La difficile legittimazione 1949 1957 - quaderni CESTES n°9 pag. 36, suppl. a PROTEO.

[19] S.Musso, Storia del lavoro in Italia dall’Unità ad oggi, Marsilio edit., Venezia, febbraio 2002, pag.211.

[20] La CGIL di Di Vittorio assume, con il Piano del Lavoro l’iniziativa politica verso le forze politiche di Governo e di opposizione e verso le forze padronali pur continuando la lotta dei lavoratori, questo, di fatto, la costrinse ad una azione moderatrice sul piano salariale con la speranza di determinare un abbassamento dei livelli repressivi messi in atto all’epoca.

[21] ”24-26 febbraio, Ladispoli (Roma), il Consiglio Generale CISL assume la linea delle rivendicazioni salariali entro i limiti di crescita della produttività. marzo, nel rinnovo della C.I. Fiat i risultati attribuiscono 103 seggi alla Cgil (33173 voti pari al 65%), 49 alla CISL (11864 voti pari al 23, 3%), 15 alla UIL (5890 voti pari al 10, 5%). La Fim-CISL guadagna tre seggi rispetto al precedente risultato del 1952.” (http://online.cisl.it/arc.storico/%237641793.0/Cinquant’anni%20della%20Fim-Cis.doc).

[22] C’è da dire che il baricentro abitativo si sposta dal centro della città ai ridossi degli stabilimenti industriali; creando di fatto dei nuovi quartieri dormitorio.

Purtroppo la carenza di alloggi non sempre fu affrontata in maniera adeguata; il piano Ina - casa del 1949 diede solo un piccolo contributo (F. Galimberti e L. Paolazzi, Il volo del calabrone, 1998, Le Monnier).

[i] “IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate - Roma, Maggio 1988 pag.104.

[23] Con la Cassa del Mezzogiorno si tenta di dare una svolta decisiva all’industrializzazione del Sud; c’è da dire però che questo fenomeno interessa soltanto un numero ristretto di aree costiere, mentre nelle zone interne ci si aspetta che la migrazione spontanea (verso le zone costiere) elimini la necessità di un intervento diretto.

[24] Giovanni Cannella (magistrato di Corte d’Appello)(pubblicato su D&L, Riv. crit. dir. lav. 4/2001, p.873). L’articolo, che è pubblicato anche su Omissis (www.omissis.too.it), riproduce la relazione introduttiva per l’assemblea pubblica e dibattito dal titolo “No al lavoro senza diritti”, organizzata a Roma il 14/12/01 dal Forum Diritti-Giustizia (Social Forum Roma)-Antigone, Cred, Giuristi democratici, Progetto diritti, Camera del lavoro e del non lavoro, Cobas, Rdb, Avvocati progressisti italiani, Magistratura democratica romana.

[25] A. Pepe - La difficile legittimazione - ora in Quaderni CESTES n° 9.

[26] Tragedia nella miniera di Marcinelle in Belgio. Crollata una galleria rimangono intrappolati 237 minatori di cui 139 sono italiani. Emigranti che non dimentichiamo si recavano in Belgio, paese che aveva fatto una convenzione sull’immigrazione con l’Italia . Per ogni minatore inviato a lavorare nelle miniere veniva riconosciuta l’importazione all’Italia di due quintali di carbone al mese per ogni uomo. Le acciaierie in Italia potevano produrre acciaio e auto anche per mezzo di questi poveri e affamati disgraziati. 50.000 furono inviati in Belgio reclutandoli quasi tutti nel Veneto (23.500) a lavorare in condizione inumane con l’assenza totale di norme di sicurezza che provocarono numerosi incidenti. Però solo questo in pieno agosto mentre gli italiani erano in vacanze, provocò fortissima emozione e un grande sdegno. Ma non un giornale parlava di questo famigerato contratto uomo=carbone. Il Belgio le sue buone ragioni le aveva. Non aveva più nessun olandese che scendeva nelle miniere mentre gli italiani li si accontentava con molto poco: baracche per viverci e condizioni di lavoro inumane.

[27] III Congresso CISL Roma 19-22 marzo 1959

“Il III Congresso confederale si svolge a Roma al Palazzo dei congressi dell’Eur. Vi partecipano 662 delegati, di cui 261 rappresentanti delle Usp e 401 delle federazioni e sindacati di categoria. Gli iscritti alla Cisl sono 1.654.242. I punti principali affrontati nella relazione sono: l’autonomia sindacale, il rapporto sindacato-partito, l’unità dei lavoratori, la politica contrattuale. Il Congresso conferma la linea della Cisl di riferire l’incremento salariale all’incremento della produttività del lavoro; sollecita un maggior snellimento delle procedure della contrattazione, il riordinamento dell’assetto zonale salariale e la parità di retribuzione tra uomo e donna.

Viene inoltre ribadito il giudizio negativo sull’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione e viene indicata, in linea di principio, l’incompatibilità tra responsabilità sindacali e responsabilità politiche e parlamentari”, in http://online.cisl.it/arc.storico/%233514667).

[28] Tra il ’56 ed il ’60 il sindacalismo socialista dentro la CGIL interpreta la fase di grande espansione del capitalismo e coglie lo stimolo per rinnovarsi ed adeguarsi, tentando l’isolamento della corrente comunista ed assumendo un alto valore politico, mantenendo cioè un sostanziale equilibrio con il partito di riferimento da un lato e nel tentativo di mantenere l’unità della CGIL dall’altro (nonostante le continue richieste di combattere la componente comunista che arrivano da CISL e UIL).

[29] A. Pepe - il sindacato nell’Italia del ’900 - Rubbettino editore Dicembre ’96 pag. 211.

[30] La sinistra di V. Foa traeva ispirazione proprio dal rifiuto della programmazione per giustificare il processo unitario e costruire un sindacato conflittuale e rappresentativo delle nuove esperienze del mondo del lavoro.

[31] Sarà G. Giugni nel ’74, in apertura di un Convegno sindacale del Partito Socialista, ad individuare una forte crisi di identità del sindacalismo socialista.

[32] Va comunque considerato, per onestà intellettuale, che i “convegni sindacali” svolti tra la componente socialista e l’ufficio della direzione del partito, erano sempre occasione per ribadire la piena autonomia oltre che per verificare la coesione interna e la capacità organizzativa.

[33] Giovanni Cannella (magistrato di Corte d’Appello)(pubblicato su D&L, Riv. crit. dir. lav. 4/2001, p.873)

L’articolo, che è pubblicato anche su Omissis (www.omissis.too.it), e sul numero monografico di marzo 2002 della rivista “Il Ponte” intitolato”Quale governo quale giustizia” riproduce la relazione introduttiva per l’assemblea pubblica e dibattito dal titolo “No al lavoro senza diritti”, organizzata a Roma il 14/12/01 dal Forum Diritti-Giustizia (Social Forum Roma)-Antigone, Cred, Giuristi democratici, Progetto diritti, Camera del lavoro e del non lavoro, Cobas, Rdb, Avvocati progressisti italiani, Magistratura democratica romana.

[34] Stefano Merli, “Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano:1880 - 1900”, La Nuova Italia, Firenze, 1973, 1, p.145.

[i] ibidem cap. IV.

[35] vedi: V. Foa, Sindacati e lotte sindacali, in Storia d’Italia, Einaudi, Torino, 1973, vol.V tomo 2° pag.1791.

[36] S. Merli, Proletariato di fabbrica..., op. cit.

[37] S. Merli, ibidem, 1, p. 530.

[38] S. Merli, ibidem, 1, 372.

[39] Per approfondimenti: A. Potassio, La storiografia marxista in Italia e l’autonomia operaia, in Quaderni Piacentini, n° 60 - 61, pag. 143 - 164.

[40] G. Cannella (magistrato di Corte d’Appello)(pubblicato su D&L, Riv. crit. dir. lav. 4/2001, p.873)L’articolo, che è pubblicato anche su Omissis (www.omissis.too.it), e sul numero monografico di marzo 2002 della rivista “Il Ponte” intitolato “Quale governo quale giustizia” riproduce la relazione introduttiva per l’assemblea pubblica e dibattito dal titolo “No al lavoro senza diritti”, organizzata a Roma il 14/12/01 dal Forum Diritti-Giustizia (Social Forum Roma)-Antigone, Cred, Giuristi democratici, Progetto diritti, Camera del lavoro e del non lavoro, Cobas, Rdb, Avvocati progressisti italiani, Magistratura democratica romana.

[41] ”IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate - Roma, Maggio 1988 pag. 107.

[i] “IL SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate - Roma, Maggio 1988 pag. 106).

[i] “...Nel corso degli anni ’60 la rete clandestina prese definitivamente forma. Nel corso del decennio furono reclutati circa 300 elementi esterni...le armi e i materiali furono dislocati in zone strategiche dell’Italia settentrionale mediante depositi interrati, NASCO, ...nel ’66 la svolta...GLADIO deve orientare la sua attività in un programma che possa dare frutti sin dal tempo di pace e che offra attuali possibilità di valorizzazione quale quella che potrebbe ispirarsi alla dottrina della insorgenza e della controinsorgenza...la suddetta organizzazione sarebbe stata utilizzata anche contro formazioni politiche aventi rilievo nazionale, ed in particolare contro i comunisti italiani...tra le finalità della sessa vi era anche e soprattutto lo svolgere attività di contrasto di attività sovversive di moti di piazza dei comunisti italiani...tra i compiti dell’organizzazione vi era anche quello di eliminare i comunisti italiani ...in caso di conflitto tra la NATO e i paesi del blocco sovietico...”a tal proposito si veda tra gli altri: P.Cucchiarelli e A. Giannuli, Gamberetti, “Lo Stato Parallelo” di Editrice, 1997 - pagg. 77, 99 e seg.).

[42] V. Foa ”Uscire dalla crisi o dal capitalismo in crisi?” Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, ora in “atti del convegno di Ariccia 8/9 Febbraio 1975- Alfani Editore).

[i] “Linea di Resistenza” Brigate Rosse - Auto intervista - Marzo 1973 - citato in “Potere Operaio del Lunedì” 11.03.1973 n° 44.

[43] S.Manes - Questione sindacale ed esperienze extraconfederali negli anni ’60 - oggi in Quaderni CESTES n° 9 pag 71.