Le Tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Terza parte: Fattore capitale e processi di internazionalizzazione produttiva
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E’ da rilevare che questi dati sono in realtà sottostimati
rispetto al numero reale delle “piccole multinazionali”, poiché molte
iniziative minori non sono prese in considerazione dalle banche dati. Va
comunque rilevato che le “piccole multinazionali” hanno privilegiato i paesi
dell’Europa Centro ed Orientale, ed invece meno attrattivi risultano essere i
paesi dell’Unione Europea. Costi di produzione più contenuti, in particolare
basso costo del lavoro coniugato a molto buoni livelli di specializzazione della
manodopera una migliore qualità del prodotto grazie ad un buon livello di
conoscenza economico-produttiva e una appropriata competenza aziendale acquisita
dalle imprese locali, sono tra i motivi principali che inducono le imprese
italiane a privilegiare i paesi dell’Est europeo per avviare nuovi
stabilimenti o per acquisirne di già esistenti.
E’ interessante ora esaminare alcuni settori in modo
dettagliato per comprenderne più significativamente l’evoluzione.
Per il tessile, abbigliamento, cuoio e prodotti in cuoio si
è avuto, dalla metà degli anni’80 un forte sviluppo del processo di
industrializzazione; in poco meno di 10 anni il numero dei dipendenti delle
partecipazioni italiane all’estero è passato da 12 mila a quasi 49 mila
unità. L’area territoriale interessata da questo fenomeno include la Francia,
la Germania, la Spagna e gli Stati Uniti; in Germania, ad esempio, vi sono state
importanti acquisizioni a forte ricaduta sugli assetti produttivi globali. In
questi ultimi anni, inoltre, si è avvertita la necessità di creare nuovi
equilibri nel rapporto efficienza - costo delle risorse umane, attuando nuove
strategie di delocalizzazione dei cicli produttivi caratterizzati da una mole
maggiore di lavoro e da un forte impatto ambientale con la conquista di nuovi
mercati locali. Per queste ragioni gli investimenti sono stati realizzati nell’Europa
Orientale, dove, allo stesso tempo, esistevano salari reali più bassi, un
discreto livello qualitativo di risorse umane e distanze chilometriche non
troppo elevate.
Il settore alimentari e bevande ha subito un elevato processo
di espansione che ha portato ad incrementare di sei volte il numero degli
addetti aderenti alle partecipazioni all’estero. La spinta di questo sviluppo,
contrariamente a quanto è avvenuto per la moda italiana, è rappresentata dalla
speranza soprattutto di conquistare i mercati locali. Per quanto riguarda l’estensione
geografica, il fenomeno di internazionalizzazione ha coinvolto soprattutto l’Europa
Occidentale; infatti nel 1996 si è registrato un numero di addetti pari al
63,2% del totale, questo risultato lo si deve agli investimenti effettuati
soprattutto dalla Montedison, dalla San Carlo e dalla Ferrero. Contrariamente
alla situazione appena descritta, nel Nord America si sono verificati fenomeni
di contrazione del settore.
Quello dei prodotti in gomma e in plastica è l’unico
settore che in questi ultimi anni ha fatto registrare un calo assoluto del
numero di addetti. La causa principale di questa diminuzione è la dismissione
della Pirelli e la decisione di dedicare la sua attività alla creazione di cavi
e pneumatici. L’estensione territoriale riguarda, in modo particolare, l’Europa
Occidentale, l’America Latina e l’area del Pacifico.
Nel 1992 si è avuto un forte sviluppo internazionale del
settore dell’estrazione e lavorazione dei minerali non metalliferi grazie all’acquisizione
da parte di Italcementi del gruppo Ciments Français. Sotto l’aspetto
geografico, invece, agli inizi del 1996, la netta predominanza spetta all’Europa
Occidentale con il 48% degli addetti, seguita dall’Europa Centrale e Orientale
con il 24% e dal Nord America con il 16% del totale. Un ruolo marginale è
rivestito dall’America Latina a causa dell’abbandono del gruppo Ferruzzi.
In questi ultimi anni il settore chimico-farmaceutico si è
indebolito a causa di alcuni importanti scorpori e scissioni. Un’azione di
sostegno l’hanno svolta le piccole e medie imprese specialistiche che sono
riuscite a crearsi un mercato di nicchia specializzato all’interno di quello
mondiale. Per quanto riguarda l’aspetto geografico questo tipo di
collaborazioni si sono sviluppate, in modo particolare, nell’Europa
Occidentale e nel Nord America, penalizzando l’Asia e l’Africa.
Il settore dell’automobile ha sempre svolto un ruolo
importante soprattutto nel nostro Paese, infatti solo la produzione dei veicoli
su gomma, nel 1996, impiegava 94 mila addetti in imprese estere; tutto questo
grazie alla Fiat e all’Iveco. L’America Latina assorbe circa il 30% degli
occupati, mentre l’Europa Orientale e Centrale ne accolgono il 19%. Infatti il
Brasile e l’Europa Orientale sono i paesi verso cui si è orientato il
processo di internazionalizzazione attuato dai nostri produttori, i quali non
prediligono i mercati nord americani, principali obiettivi di imprese
automobilistiche giapponesi e tedesche. Ma nel 2000 la situazione tenderà a
modificarsi, poiché in molti paesi tra i quali l’Italia verranno aboliti gli
ultimi ostacoli ancora esistenti per le importazioni automobilistiche
nipponiche, e ciò tenderà ad inasprire ancora di più la concorrenza sul
mercato nazionale ed europeo.
Negli anni’80 circa l’85% degli addetti impiegati nelle
industrie italiane all’estero nel settore dei cavi ed in genere
dell’elettromeccanica e prodotti elettrici erano dipendenti della Pirelli e
Fornara, e la maggior parte svolgevano la loro attività in America Latina:
Brasile, Argentina, Messico e Perù presso l’Ansaldo e Bassani Ticino. Con il
trascorrere degli anni questo settore si è esteso anche all’Europa attraverso
le industrie di elettrodomestici e elettrosanitari, come Candy, Merloni
Elettrodomestici e Merloni Eelettrosanitari.
Durante la seconda metà degli anni’80, nei settori dell’
elettronica, telecomunicazioni, macchine per ufficio e strumentazione, si sono
verificate un numero consistente di fusioni con un’espansione geografica che
ha riguardato l’Europa Occidentale (54% degli addetti) e il Nord America (26%
degli addetti). Questo processo ha subito una brusca frenata tra il 1990 e il
1996, infatti il numero degli occupati delle imprese italiane all’estero si è
notevolmente ridotto in Europa Occidentale a causa dell’abbandono, da parte
dell’Olivetti e della Stet.
1.4. Lo scontro tra i poli USA e UE
Tutti i fenomeni connessi alla mondializzazione finanziaria
sono perni del progetto dell’Unione Europea così come si sta costruendo e
l’attuale contesto della situazione economica e sociale a livello mondiale così
come è fa crescere il dissenso statunitense all’UE. Si è ormai presa coscienza
specialmente da parte degli USA e della Gran Bretagna, che è tempo di vedere un’Europa
sempre più in crisi, poiché tale grande mercato può offrire prospettive di
sviluppo neoliberiste in alternativa al polo imperialista anglosassone che nelle
aree dell’Europa centro-orientale, dell’Africa mediterranea e di molti paesi
dell’Asia centrale avrà sempre meno voce in capitolo.
L’euro è inscritto in una logica mercantilistica, poiché
mira a creare un blocco regionale europeo in grado di competere con Stati Uniti,
Giappone e Asia anche se apparentemente la globalizzazione invece significa
apertura dei mercati e delle frontiere. Basta guardare, ad esempio, al vertice
di Rio, conclusosi dopo la guerra NATO alla Jugoslavia, in cui l’UE ha posto le
basi per la creazione di un’area transatlantica di libero scambio con l’America
Latina, in assenza degli USA, anzi in aperto contrasto con l’Alca, il
concorrente interamericano. Il vertice di Rio ha avuto il dichiarato scopo di
contrastare a livello economico internazionale l’egemonia dell’imperialismo
statunitense nell’area dell’America Latina in un’area in cui l’export USA è tre
volte maggiore di quello UE (per non parlare dei movimenti di capitale), ma dove
tale supremazia non è più incontrastata né sul piano commerciale né su
quello degli investimenti. Si pensi che nel ’90 gli IDE (investimenti diretti
esteri) verso l’America Latina degli USA erano di 3 miliardi di dollari contro
1,5 dell’Europa; nel 1995 erano 15 miliardi di dollari degli USA contro i 5
europei, nel 1997 di 24 miliardi USA contro 19 e l’Unctad prevede per il 1999
nell’area latino americana il sorpasso degli IDE europei rispetto a quelli
statunitensi. Le esportazioni europee verso l’America Latina in pochi anni sono
più che raddoppiate; nel 1997 hanno toccato quasi i 53 miliardi di dollari e le
importazioni da quell’area hanno superato i 38 miliardi di dollari.
Questi sono solo alcuni risultati della guerra di egemonia
economica che si fa sempre più frontale in tutte le aree del pianeta fra il
polo imperialista USA e quello dell’UE. E lo scontro diventerà ancora più duro
e favorevole all’UE se l’euro avrà il tempo e l’opportunità di rafforzarsi.
L’impatto dell’euro sulle relazioni internazionali può avere
effetti dirompenti rispetto agli assetti e agli equilibri internazionali
attuali, nonostante le ambiguità e i limiti più a carattere interno all’UE.
Cominciamo a vedere il contesto attuativo dell’Unione
Europea. A dar luogo all’Europa è l’economia finanziaria globalizzata in
cui è la moneta e i movimenti dei soli capitali a scandire il fenomeno
imperialista europeo, in un contesto di apparente globalizzazione totale in cui
invece ogni polo imperialista si erge a fortezza internazionalizzata in cui i
mercati interni o di area di influenza devono rimanere assolutamente prioritari
e prevalenti.
Risulta sempre più evidente che il Trattato di Maastricht e
quello di Amsterdam hanno carattere geopolitico soprattutto per quanto riguarda
la Germania nel contesto Unione europea. Il Trattato di Maastricht presentava in
sé già molte ambiguità. Tanto per cominciare, la struttura di Maastricht si
doveva basare su tre elementi: la moneta unica, la politica estera e di
sicurezza comune, la lotta alla criminalità. Moneta unica e integrazione
politica dovevano reggersi reciprocamente. Cosa succede invece? Il vincolo dei
criteri di convergenza imposto a Maastricht ha un significato geopolitico e
geoeconomico: divide gli stabili e affidabili paesi dell’area del marco dai
paesi mediterranei, creando problemi alle stesse multinazionali europee. Il
cuore del Trattato sull’Unione europea, varato a Maastricht l’11 dicembre
1991, firmato ufficialmente il 7 febbraio 1992 e vigente dal 1° novembre 1993,
è al momento semplicemente e solamente la moneta unica, inaugurata il 1°
gennaio 1999. Dopo l’Atto unico del dicembre 1985, con il quale venivano poste
premesse della libera circolazione di persone, merci e capitali nello spazio
comunitario, l’unificazione della moneta è considerata dai suoi ideatori come
la premessa indispensabile di una più profonda integrazione europea, e ciò è
finalizzato alla creazione del più grande mercato finanziario del mondo. Con
questo evento si impone fittiziamente una confederazione le cui finalità di
controllo travalicano l’Europa occidentale per imporre il dominio sui paesi
dell’Est (ex satelliti di Mosca), superando così in una logica di polo
imperiale gli aspetti ambigui e le incongruenze derivanti da una non voluta
soluzione dei mali sociali dell’Europa occidentale a vantaggio di tutti i nuovi
soggetti finanziari europei, investitori istituzionali e non.
L’euro appare come un tentativo di dare all’Europa una
sola moneta, una nuova moneta forte nelle transazioni internazionali di
riferimento fondamentale per l’est europeo e per l’Africa mediterranea; mentre
di fatto si presenta come un progetto ambiguo che caratterizza un’élite di
“eurovirtuosi” e manda alla deriva tutti gli altri, anche paesi importanti
all’interno dell’UE. E’ implicito nello stesso trattato di Maastricht la
legittimità del principio dell’Europa a diverse velocità, tale principio
indica che nella comunità, formalmente di eguali c’è chi è più eguale
degli altri; sotto questo profilo Maastricht non è la continuazione dell’Europa
del trattato di Roma ma è l’esplicitazione contraddittoria del polo
imperialistico europeo.
L’Europa, infatti, dà via libera alla Germania per la
riunificazione in tempi rapidi, ottenendo come contropartita l’europeizzazione
del marco. Dunque è un riflesso germanofobo a muovere i leader europei poiché
si presume che la Germania unita con i suoi oltre 85 milioni di abitanti, la
forza della sua economia e della sua moneta, rischi di sbilanciare la
polarizzazione imperialista; infatti gli Stati Uniti riconoscono alla nuova
Germania lo status di super potenza ed esprimono la necessità di contenerla. La
Germania ha bisogno dell’Europa per difendere i suoi interessi internazionali
più della Francia e dell’Italia, e allo stesso tempo mantiene il proprio
nazionalismo economico, ma Maastricht costringe la Germania a cedere il marco,
per limitarne la potenza e incardinarla in un’Europa alternativa agli interessi
USA. C’è da tener presente che gli obiettivi originari della Germania
rispetto a quelli di Francia e Italia erano opposti. A Francia e Italia
interessava togliere il marco ai tedeschi, mentre ai tedeschi interessava
germanizzare le politiche economiche e finanziarie dei partner, adeguarle ai
criteri di stabilità su cui hanno costruito il “miracolo” del secondo
dopoguerra. Inoltre, attraverso una calibrata manovra dei tassi di interesse
gestita dalla Bundesbank, intendevano garantirsi un forte flusso di capitali
europei verso la Germania, necessari a riempire la voragine dell’ex RDT. Nella
Germania prevale un’impreparazione ad affrontare le responsabilità interne e
internazionali che le derivano dal suo nuovo status e dalla scomparsa della
supremazia sovietica, che le ha aperto uno sterminato campo di influenza, ma
anche di problemi e di responsabilità.
Per ora sembra solo che la preoccupazione maggiore dei
governi sia stata quella di scegliersi l’alleato ideale nella lotta alla
supremazia economica e politica, in contrapposizione più o meno marcata
rispetto al polo imperialista statunitense, imponendo una maggiore centralità
del mercato UE non solo per le multinazionali europee ma anche per quelle
esterne. La sorte dell’euro è fortemente condizionata dal contesto esterno,
che siano i mercati finanziari nel mondo o la politica monetaria degli Stati
Uniti. L’ipotesi euro continua a prendere consistenza e profilarsi come
strumento di guerra commerciale, pertanto gli Usa stanno facendo il possibile
per soffocarla. Per gli americani la migliore Europa possibile deve essere
sufficientemente unita ma sotto il dominio USA e, quindi, agiscono per renderla
sufficientemente divisa per impedirne l’affermazione come superpotenza
concorrente. Gli Usa, dunque, temono oggi più di ieri una moneta destinata a
favorire nel tempo le esportazioni europee e nel tempo, a minacciare il rango
del biglietto verde come valuta di riserva mondiale. La subordinazione UE agli
USA è chiara anche durante e dopo la guerra NATO in Jugoslavia, basta vedere
come l’euro ha perso in quel periodo sul dollaro (circa il 12%) e come la guerra
ha inciso in modo decisamente negativo sull’economia dell’Europa dei 15, mentre
la crescita in USA nel periodo bellico è del 4,5% seguendo un forte andamento
di crescita già avuto negli ultimi mesi del 1998 in cui l’economia americana si
preparava ai nuovi conflitti in Iraq e in Jugoslavia.
A prescindere dai conflitti di interessi l’Europa dell’euro
è una scelta nell’ambito della logica spartitoria imperialista diretta dai
principi della globalizzazione finanziaria. Ed è proprio per questo che
nonostante le apparenze si tratta di un’ideologia molto fungibile e ancora
carica di indeterminatezza sulle aree di influenza da aggredire. La teoria dell’Europa
unita è ancora troppo debole nei confronti del polo USA per poter servire
progetti differenti, se non opposti: dallo stretto dominio sociale a carattere
finanziario ed economico all’interno degli attuali confini statali e
comunitari, fino allo stravolgimento della carta geopolitica mondiale mascherato
da criteri “etnici” o socio-economici ma determinato, nella realtà, anche
nel Terzo Mondo, da logiche di polarizzazione imperialista.
In questo ambito assumono rilevanza fondamentale la funzione
svolta dagli USA e dagli organismi internazionali a carattere finanziario.
Infatti i crediti concessi ai paesi in via di sviluppo hanno creato il
meccanismo di trasferimento di ricchezza su vasta scala del periodo
contemporaneo. Il riciclaggio dei “petroldollari” ha fatto crescere questo
eccessivo debito dei paesi del Terzo Mondo. La formazione dei mercati
obbligazionari, la trasformazione in titoli del debito pubblico e la crescita
sempre più rapida di quella parte del budget dei paesi dell’Ocse che si pone
al servizio del debito, stanno a dimostrare che il meccanismo di captazione e di
trasferimento più importante è sempre quello di una globalizzazione a
vantaggio del grande capitale finanziario.
Comunque la mondializzazione capitalistica e l’intento del
capitale finanziario di dominare il movimento di capitale nella sua totalità,
non solo tendono a cancellare l’esistenza degli stati nazionali, ma
immediatamente tali processi accentuano i fattori di gerachizzazione tra i paesi
e ne ridimensionano la configurazione accentuando i conflitti imperialistici per
il controllo su quelle aree a maggiore interesse di spartizione geopolitica e
geoeconomica.
La liberalizzazione degli scambi insieme alla
deregolamentazione e allo smantellamento della legislazione a tutela dei salari,
ha permesso ai gruppi delle multinazionali, in particolare americane, di
sfruttare simultaneamente i vantaggi della libera circolazione delle merci e
delle forti disparità tra i paesi, le regioni o i luoghi situati anche all’interno
della stesso mercato unico europeo. Il grande mercato continentale assicura
contemporaneamente ai gruppi economico-finanziari delle multinazionali totale
libertà di scelta dei differenti elementi costitutivi di una produzione
integrata a livello internazionale, rispondendo anche alle esigenze delle
strategie di differenziazione dell’offerta e della fedeltà della clientela,
esigenze che sono proprie alla concorrenza oligopolistica.
E’ con tali premesse che gli USA passano nei confronti
dell’UE dalla guerra economica anche alla guerra guerreggiata, vedi la guerra in
Jugoslavia, sfruttando il fatto che in Europa va avanti la centralizzazione
economica ma manca del tutto quella politica, e quindi, militare, contando su
questi temi anche sul ruolo di "guastatore europeo" della Gran
Bretagna. Infatti, la guerra della NATO contro la Jugoslavia rappresenta un
punto di svolta tra il modello politico ed economico dell’imperialismo americano
e quello del polo imperialista europeo. Quest’ultimo è ormai in forte
competizione con quello USA sia per quanto riguarda l’imposizione del nuovo
ordine mondiale, sia per la spartizione del mercato mondiale sia, infine, per il
controllo delle mire espansionistiche imperialiste del polo asiatico da parte
ancora del Giappone o dell’eventuale costituendo asse russo-cinese-indiano.
2. Le diverse forme di internazionalizzazione
economico-produttiva
2.1. Delocalizzazione produttiva e filiere internazionali
Il processo di trasformazione che ha interessato i mercati
internazionali in questi ultimi anni ha avuto, inoltre, tra le sue più dirette
conseguenze anche un mutamento fondamentale nelle modalità del processo
produttivo. Le imprese più piccole si sono dovute combinare fra loro per
consentire il cambiamento avvenuto da ” local for global”, ossia
prodotti nazionali, produzione nazionale, mercati internazionali, a “global
for global”, ossia prodotti multilocali, produzione multilocale, mercati
globali. Si è avuta così la nascita di “aziende virtuali”, ossia gruppi di
imprese che temporaneamente agiscono come se fossero un’unica azienda. Si
genera così una situazione di “reti integrate a diversi livelli lungo una
stessa catena di business costituite da nuclei interattivi, articoli in gruppi e
sottogruppi, che condizionano alcune infrastrutture (sistemi informativi,
sistemi gestionali, valori) e sono in grado di rispondere creativamente ai
continui cambiamenti di scenario e di mercato. Questo tipo di “rete” viene
definito “sistema alonico” ove a circolare sono le informazioni piuttosto
che i beni fisici” [1].
Le nuove forme di internazionalizzazione possono, comunque,
essere classificate in diverse categorie che prevedono accordi di natura
tecnologica (joint venture, alleanze di vario tipo, cessioni di licenze, ecc.),
accordi di natura produttiva per la realizzazione di opere complesse o
determinati prodotti (subappalti, co-produzione e subforniture) ed accordi di
marketing, assistenza e distribuzione (contratti di distribuzione, franchising).
Spesso i dirigenti delle imprese che non riescono a detenere la totalità o la
quota di maggioranza di una società estera costituiscono delle joint venture
per ottenere degli utili più elevati: “Una joint venture è la partecipazione
di due aziende alla proprietà, direzione e controllo di una terza creata per
portare benefici a tutte e due” [2]. In sostanza si tratta
di una collaborazione fra imprese diverse a livello internazionale per svolgere
un determinato affare o portare a compimento una determinata opera, per un
periodo di tempo variabile [3] .
Se si vuole parlare di joint venture occorre analizzare la
situazione del Giappone, in quanto questo paese si è fortemente contraddistinto
per la creazione e lo sviluppo di tale tipo di imprese. Basti pensare a questo
proposito che, infatti, 64 su 100 delle società estere più importanti nel
mercato nipponico sono state originate tramite joint venture, le quali, inoltre,
rappresentano un terzo dell’industria petrolifera. La creazione di queste
imprese è iniziata in Giappone negli anni’70, periodo in cui le joint venture
rappresentavano lo strumento migliore per superare le barriere di tipo legale e
diretto che ostacolavano l’entrata nel mercato giapponese. Dopo qualche anno
però si ebbe una drastica riduzione del loro numero. Nel 1989 poi lo scoppio
“dell’economia della bolla finanziaria” provocato dalla repentina e
improvvisa discesa del mercato azionario e immobiliare ha indotto le banche e le
imprese nipponiche ad evitare gli investimenti.
Comunque le alleanze dovute alla creazione di joint venture
generalmente hanno una vita molto lunga (15-20 anni) soprattutto a causa degli
elevati costi da sostenere nel caso di un suo scioglimento. Fino a pochi hanno
fa, inoltre, il ruolo delle aziende occidentali consisteva nell’apporto di
prodotti o tecnologie all’avanguardia in cambio della possibilità di entrare
nel mercato giapponese, oggi invece le aziende nipponiche hanno imparato a
costruirsi da sole queste tecnologie.
Anche i paesi europei, soprattutto i paesi dell’Unione
Europea, hanno realizzato in questi ultimi anni molti programmi tendenti a
realizzare la nascita di joint venture. Va ricordato per primo l’ECIP
(European Community Investment Partners) creato dall’Unione Europea nel 1988:
si compone di quattro “facilities” ideate per finanziare lo studio, l’investimento
e l’assistenza tecnica di joint venture tra imprenditori comunitari ed
operatori di alcuni paesi dell’Asia, America Latina, Area Mediterranea e della
Repubblica Sudafricana. Vi è poi Il programma JOPP - Joint Venture Phare
Programme attualmente tramutato in JOP -Joint Venture Programme in quanto la sua
operatività non è più limitata ai Paesi aderenti al programme Phare ma dal
1995 è compresa anche la Federazione Russa e dal 1997 i Paesi CIS-Comunità
degli Stati Indipendenti e la Mongolia. Il JOP fu creato nel 1991 per favorire l’internazionalizzazione
delle piccole e medie imprese attraverso la realizzazione di investimenti
produttivi sotto forma di imprese miste, tra imprenditori comunitari ed
operatori dei Paesi suddetti. I progetti finanziabili dal programma JOP devono
prevedere un incremento dell’occupazione nel mercato del lavoro locale, uno
sviluppo della tecnologia, un miglioramento della bilancia valutaria e la tutela
dell’ambiente. Il programma offre, sulla falsariga dell’ECIP, diverse
tipologie di interventi suddivise in “facilities” correlate alle varie fasi
del processo di creazione o ampliamento di una impresa. Infine si ha il JEV
(Joint European Venture) destinato a sostenere la costituzione di imprese comuni
transnazionali all’interno dell’Unione “Modellato” sulle esperienze dei
due programmi precedenti. il JEV si prefigge l’obiettivo di creare nuove
attività economiche che stimolino, attraverso un investimento, la creazione di
posti di lavoro all’interno dei paesi membri dell’UE e più precisamente
incentivare la nascita di partnership tra aziende situate all’interno dell’
U.E. mediante consorzi, partecipazioni o joint venture nei settori dell’industria,
servizi, commercio e artigianato.
Sempre nell’ambito degli accordi di natura tecnologica si
hanno anche i contratti di cessione di licenza (licensing) che avvengono
dietro pagamento di un corrispettivo e sono in sostanza concessioni di
sfruttamento temporaneo dei diritti su brevetti o marchi, ecc.
Tra gli accordi di natura produttiva si possono citare la
subfornitura, i subappalti e la co-produzione; nel primo caso si tratta di un
accordo nel quale un’impresa affida ad un’altra l’esecuzione di una parte
del proprio processo produttivo per consentire lo sfruttamento delle condizioni
più favorevoli. Anche il subappalto e la coproduzione sono accordi tra imprese,
contratti che garantiscono lo sfruttamento delle migliori condizioni produttive.
Negli accordi di marketing si ricorda il franchising
ossia quella collaborazione continuativa tra due parti nella quale una (l’affiliante)
concede all’altra (l’affiliato) giuridicamente ed economicamente
indipendente di utilizzare la propria formula commerciale (Immagine) nell’interesse
reciproco delle parti. Il franchising internazionale può essere di prodotto, di
servizi, di marchio commerciale.
La conseguenza più evidente di questo scenario è che da
qualche anno, l’economia mondiale è sottoposta ad un processo di globalizzazione
dei mercati e della concorrenza a carattere delocalizzativo tramite imprese
rete multinazionali e filiere produttive internazionali e contemporaneamente
si assiste a forti e continui processi di concentrazione della proprietà
d’impresa il tutto in un contesto di speculazione finanziaria.
L’alto livello di conoscenza tecnologica e scientifica
rende indispensabile ormai un legame sempre più stretto tra i vari settori
delle imprese di ogni paese; lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e di
trasporto, inoltre, annullando di fatto le distanze tra i diversi paesi fanno si
che le imprese si trovino a considerare il mercato internazionale nella sua
globalità. Se a ciò si aggiunge la riduzione di tutti i dazi doganali che
incentivano lo scambio di beni tra i vari paesi e la notevole trasformazione dei
processi produttivi che ha portato alla necessita di passare da una produzione
con elevato uso di manodopera (labour-intensive) a un modello industriale basato
sui capitali materiali (cioè impianti e attrezzature, capital-intensive) e con
un elevato aumento dei costi destinati al capitale immateriale, come
l’informazione, la ricerca e lo sviluppo, si comprende che per l’impresa
capitalistica competere in un sistema globale significa sostenere costi fissi
molto elevati, e trovare il modo per recuperarli, anche perché i costi
variabili sono, ormai, economicamente superati. E’ allora indispensabile avere
partners internazionali che possono contribuire ad ammortizzare i costi fissi e
con i quali definire strategie che permettono di massimizzare la redditività
d’impresa attraverso la compressione del costo del lavoro diretto e indiretto e
la riduzione dell’imposizione fiscale e tributaria.
L’innovazione tecnologica, l’omogeneizzazione mondiale
dei bisogni dei consumatori, la diminuzione delle barriere doganali e la
trasformazione produttiva sono senza dubbio tra le principali motivazioni di
questo nuovo processo che sta ormai interessando il mercato mondiale. La verità
è che l’imprenditore internazionale attraverso le multinazionali, il commercio
estero, gli investimenti diretti esteri, è alla continua ricerca di sempre
nuovi mercati di sbocco ma soprattutto di nuovi mercati di incetta a basso costo
della risorsa umana, il lavoro, e delle materie prime garantendo il capitale
nelle aree che si prestano ad isole felici e paradisi fiscali.
La generalizzazione della produzione flessibile, con quelle
che sono le sue esigenze nei termini di vicinanza tra coloro che fanno le
ordinazioni e i fornitori di pezzi, di semiprodotti e di servizi, ha lo stesso
peso sulla scelta della localizzazione a scapito dei paesi a medio sviluppo, in
particolare, ad esempio, di quelle industrie dei Balcani e dell’Est Europeo in
cui il basso costo del lavoro si associa a livelli medio-alti di
specializzazione della manodopera, ivi comprese certe industrie a impiego
intensivo di manodopera. Questi stessi fattori spiegano la marginalizzazione non
solo di gran parte dei paesi in via di sviluppo ma dei paesi soprattutto
dell’Europa centro-orientale, poi dell’Africa mediterranea. Le opportunità di
delocalizzazione della produzione in direzione dei paesi a salario molto basso,
rese possibili dalla liberalizzazione degli scambi pressoché completa, si
tramutano per molti paesi dell’Europa dell’Est o anche parti di interi
continenti (essenzialmente l’Africa) soltanto in assoluto movimento di
mondializzazione del capitale, provocando un nuovo colonialismo nella forma di
marginalizzazione anche degli stessi processi finanziari.
Il processo di internazionalizzazione fondato inizialmente
sulle sole esportazioni si è ampliato negli anni fino a diventare un’insieme
di attività organizzate, quali la progettazione del prodotto, la localizzazione
delle produzioni, il marketing e la commercializzazione. Infatti “mentre una
volta chiamavano esportazione una cosa che altro non era che la vendita in un
mercato più ampio, ma in genere ignorando quasi del tutto i bisogni di questi
altri consumatori e non localizzando, se non in superficie, i nostri prodotti,
oggi si chiama esportazione un insieme di operazioni che partono dalla
conoscenza dei bisogni, passano per un’analisi dei costi di prodotto, di
struttura ed accessori e si concludono con un bene/servizio che ottimizza tutti
i fattori....” L’internazionalizzazione è definita “l’insieme delle
operazioni che un’azienda fa per internazionalizzarsi, ma per quanto ci
riguarda internazionalizzazione vuol dire considerare di avere fattori e clienti
nei posti migliori in tutto il mondo, non solamente nella nostra nicchia” [4] . Si tratta in sostanza
di una delocalizzazione del processo produttivo. E’ chiaro che quando un’impresa
intraprende un processo di internazionalizzazione subirà la pressione dei
concorrenti non solo del mercato interno ma anche di quello estero.
Occorre, quindi, tenere presente che “il paese che ci
interessa ha: un ampio mercato, l’accesso ad un mercato regionale, un basso
costo del lavoro, una manodopera esperta, fattori produttivi eccellenti (costo
delle materie prime, affitti, elettricità, altri fattori produttivi), basse
tasse e la possibilità di usufruire di incentivi governativi. Tutti questi
punti potranno fornirci indicazioni sia sul dove investire che sul come ottenere
il profitto che l’azienda si aspetta dall’investimento” [5] . In questo
senso “la risposta teorica di una parte della dottrina economica ed
economico-aziendale asserisce che, date alcune condizioni economiche, sociali e
tecniche, esiste, per quella determinata unità produttiva, una localizzazione
“ottimale” o quanto meno “più soddisfacente” delle altre, anche se essa
è di difficile individuazione. Esiste una seconda tradizione delle teorie di
localizzazione il cui fondamento sta nell’esplicita considerazione dei costi
di trasporto” [6]. Si deve considerare,
però, che vi sono altri fattori che incidono sulla decisione della
localizzazione ottimale: si intende parlare delle infrastrutture industriali,
generiche e specifiche, degli inputs di produzione, del lavoro e della
popolazione, i servizi di interesse industriale, i fattori riguardanti il
mercato misurati dall’estensione del mercato locale e regionale e dal livello
della sua concorrenza ed infine dalle condizioni di insediamento per la
popolazione.
Si arriva così alla realizzazione dell’”impresa globale”
che considera il mercato globale nel suo intero; la differenza tra questo nuovo
tipo di impresa globale e l’impresa multinazionale consiste soprattutto nel
fatto che mentre la prima valuta il mercato internazionale come composto da
tutti i mercati degli altri paesi senza distinzione, l’impresa multinazionale
invece tende a mantenerli separati. Il processo di internazionalizzazione
produttiva comporta, quindi, una significativa revisione delle scelte di
localizzazione dell’impresa e quindi anche un cambiamento nello scambio delle
merci. Ma è allora lecito chiedersi se gli investimenti all’estero
favoriscono o meno il commercio. Dagli studi delle realtà produttive dei vari
paesi è risultato evidente che gli investimenti diretti esteri crescono di
fatto con il commercio internazionale e che in sostanza i due fenomeni sono
intrecciati fra loro. La crescita delle imprese multinazionali all’estero
infatti contribuiscono alla conoscenza dei mercati ed accelerano quei processi
che solo con il commercio internazionale sarebbero stati molto più lenti.
2.2. Le forme di concentrazione
Negli ultimi mesi si è assistito al moltiplicarsi di
concentrazioni industriali, bancarie e commerciali in tutti i paesi a
capitalismo avanzato. In sostanza si è reso necessario attuare delle alleanze
tra le imprese che hanno portato a sempre maggiori concentrazioni delle stesse [7]. Inoltre, la concentrazione può essere intesa sotto
vari punti di vista [i] .
A fronte dei processi di internazionalizzazione economica e
ai processi di delocalizzazione produttiva, si assiste nei più importanti poli
capitalistici a continue fusioni, acquisizioni e concentrazioni finanziarie ed
industriali che spesso assumono la forma di processi a carattere
nazional-capitalistico alla ricerca di spazi concorrenziali. Nella quasi
totalità dei casi di concentrazione della proprietà si invoca l’efficienza e
la competitività che si traduce in drastiche riduzioni del personale, in
esternalizzazioni di fasi del ciclo che producono lavoro nero, precario e
flessibile, in condizioni vessatorie per i fornitori ed in genere in forme di
redistribuzione tutte favorevoli al profitto.
Se attraverso il coefficiente di concentrazione territoriale
si analizza il livello di concentrazione territoriale del sistema
imprenditoriale italiano, si evince dal Graf. 19 come la
concentrazione [8] di
imprese al Nord sia più elevata soprattutto nel settore industriale, mentre,
invece al Centro e al Sud pur risultando inferiore al Nord è maggiormente
evidenziabile una concentrazione del settore terziario rispetto a quello
industriale.

Il Graf.20 invece mostra chiaramente la forte
concetrazione di addetti nel settore industriale soprattutto nelle regioni del
Nord Italia; infatti i valori più elevati si riscontrano in Lombardia (28,74),
in Veneto (11,21) ed in Piemonte (12,9); le regioni del Centro-Sud evidenziano
maggiori livelli di concentrazione territoriale per i servizi, con un indice di
concetrazione per il terziairo molto alto nel Lazio (vicino al 25%).
Se si analizza più in generale la situazione europea, si
nota che le imprese sono più propense a fondersi o ad acquisire imprese al di
fuori dei confini dell’Unione Europea, anche se le regole e i metodi per
effettuare queste operazioni variano da paese a paese. Ad esempio la Francia è
risultata negli ultimi anni il principale compratore di acquisizioni di imprese,
in termini di controlli di compartecipazioni estere, con un saldo attivo di 22
miliardi di dollari tra il 1990 e il 1991: anche la Svezia, la Svizzera, la
Germania e i Paesi Bassi hanno adottato la stessa politica delle aziende
francesi; la Gran Bretagna invece è il mercato europeo più semplice da
conquistare. Ad esempio la Nissan ha trasferito il suo impianto di assemblaggio
nel Regno Unito, mentre l’ICL è stata acquisita dalla Fujitsu con lo scopo di
incrementare la sua quota di mercato dei computer, anche le alleanze tra la
Rover e la Honda e tra la Volkswagen e la Suzuki sono nate con l’obiettivo di
migliorare le performance reddituali e produttive in cambio dell’accesso al
mercato britannico e a quello tedesco.
L’apertura dei mercati dell’Europa dell’Est ha
fortemente condizionato le politiche adottate dalle imprese europee. Va
ricordato che i paesi maggiormente coinvolti sono: la Cecoslovacchia, la
Polonia, l’Ungheria e l’Ex Unione Sovietica. Infatti le stesse fonti
imprenditoriali evidenziano che “l’Europa la sentiamo ogni giorno più
vicina non tanto per la sensazione di sentirsi nella casa comune o ancora per il
progetto politico di unità culturale, ma per il fatto di riconoscere le stesse
strutture economiche e finanziarie in Francia come in Germania e in Spagna e fra
poco anche in Ungheria, Polonia e nei paesi ex-Comunisti, disposti ad accogliere
velocemente i concetti del mercato libero e ad attrarre capitali stranieri”
[9] .
La notevole concentrazione delle grandi imprese statunitensi
è dovuta, nella maggior parte dei casi, ad intensi processi di fusioni e alle
acquisizioni. Dall’inizio del secolo si sono avuti tre picchi nei suddetti
processi. Il primo si è avuto tra il 1897 e il 1905: ogni anno 352 aziende
scomparvero a causa di processi di fusione, raggiungendo il limite massimo nel
1898, quando furono assorbite 1.208 imprese; nella seconda metà degli anni’20
si registrò il secondo picco, tra il 1925 e il 1929 si accorparono quasi 4.500
imprese [10]. Il terzo
picco si ebbe tra il 1955 e il 1968; in questi anni 1.114 imprese furono
assorbite e sempre più aziende preferirono acquistarne di già esistenti
piuttosto che crearne di nuove. Il processo di fusione subì una battuta di
arresto dopo le crisi petrolifere del 1974 e del 1979; a metà degli anni’80
venne effettuato un numero crescente di fusioni anche tra aziende di grandi
dimensioni; questi ultimi anni sono fortemente caratterizzati da numerose
acquisizioni estere causate dalla maggiore internazionalizzazione delle
attività di impresa. Tale fenomeno è comune sia alla realtà statunitense sia
alle realtà imprenditoriali europee e asiatiche e come si vedrà in particolare
nel prossimo numero della rivista Proteo dove questa analisi-inchiesta alla sua
Quarta Parte toccherà in maniera approfondita questi temi, i processi di
concentrazione accelerata che stanno attraversando tutti i maggiori poli
capitalisti significano un’economia mondiale sempre più nelle mani di poche
multinazionali che dispongono di un dominio illimitato capace di controllare il
mondo, alla faccia della tanto decantata democrazia economica.
2.3. Il commercio internazionale
Già a partire dall’osservazione del Graf.21 è
evidente che negli ultimi quindici anni il commercio mondiale è più che
raddoppiato, passando da circa 2.000 miliardi di dollari nel 1981 a oltre 5.000
miliardi nel 1996. Anche lo scambio di merci registra una forte crescita a
partire dal 1986 , pur se nei primi anni ’90 si registra una diminuzione che
diventerà variazione negativa nel 1993 dello 0,5% (cfr. Graf.22).

Dalla Tab.18 si può notare il calo accentuato, negli
ultimi anni del prezzo delle materie prime, in particolare del petrolio; inoltre
nel 1998 si hanno variazioni dell’import e dell’export dei paesi
industrializzati molto più contenute rispetto a quelle dell’anno precedente; la
crisi asiatica dell’ultimo anno è particolarmente evidente anche dall’analisi
del commercio con l’estero che mostra un serio calo dell’esportazione dell’area
asiatica, ma in particolare un vero tracollo delle importazioni.

L’internazionalizzazione dell’economia e l’apertura dei
mercati fanno sì che nella maggior parte dei casi l’impresa entra a far parte
di un mercato posto a migliaia di km dal suo sito, ma questa situazione ha però
accentuato la posizione critica dei paesi più poveri, che si vedono costretti a
sottostare a condizioni di cambio e di scambio vessatorie, incrementando
ulteriormente il divario esistente con i paesi più ricchi. I processi di
internazionalizzazione hanno così creato uno scenario internazionale fortemente
condizionato da tre grandi poli industriali: l’UE dell’euro, gli USA con lo
spazio NAFTA (North America Free Trade Agreement) o area del dollaro, ed infine
l’Asia, il Giappone e area dello Yen.
I paesi principali che sono coinvolti anche nello scambio
internazionale risultano quindi sempre essere gli Stati Uniti, il Giappone e l’Unione
Europea; infatti come si può osservare dal Graf. 23 riferito al 1997,
queste tre aree da sole assorbono quasi i 3/5 delle importazioni e delle
esportazioni mondiali.

[1] C. Saccani, I supporti alle imprese di fronte al
cambiamento, Impresa & Stato N.31 Rivista della camera di commercio
milanese, pag.3.
[2] G. Biscrini, Principi e tecnniche di
internalizzazione, Nuova serie: n. 1/96, pag. 97.
[3] La joint venture può essere contrattuale e
societaria; nel primo caso le imprese interessata, che mantengono una propria a
utonomia economica egiuridica, firmano un contratto di collaborazione con
limitazione di tempi e di spazi; nel caso della joint venture societaria invece
si costituisce una nuova società di capitali con resonsabilità limitata. Si
possono avere allora joint venture con acquisizione di partecipanti
internazionali, con creazione di un’impresa in un paese terzo, con crezione di
una società mista con partner locale pubblico o con creazione di una join
venture aperta a partner e azionisti privati.
[4] G.
Biscarini, Principi e tecniche di internazionalizzazione, Nuova serie:
N°1/96 I quaderni della formazione. ICE, pag. 6 e 7.
[5] G. Biscarini, Principi
e tecniche di internazionalizzazione, op.cit., pag.105, 106.
[6] G. Panati, G. M. Golinelli, Tecnica Economica Industriale e
Commerciale, Volume I. Nis. Roma 1995. Pag. 296.
[7] “In
termini economici la concentrazione viene definita come un processo di
diffusione del controllo di tutta o di una quota rilevante dell’attività di
un settore o di un intero comparto di attività da parte di un numero ristretto
di imprese.”, R. Guarini, F. Tassinari, Statistica Economica, Il Mulino,
Bologna 1993. Pag.279.
[i] Concentrazione tecnica che “indica il grado di
disparità dimensionale esistente tra gli impianti di un determinato settore,
quindi esprime la misura in cui gli impianti di maggiori dimensioni prevalgono,
in termini di peso occupazionale, sulla massa di unità produttiva di ampiezza
ridotta; come concentrazione economica rappresenta “il nesso che lega
il numero di imprese e il numero di unità locali; il rapporto tra queste
variabili, può essere assunto come misura approssimata del grado di dipendenza
economica delle unità di produzione dai relativi centri decisionali”, concentrazione
finanziaria “viene riferita alle imprese che producono beni similari o
collegate da partecipazioni azionarie. Sotto questo aspetto la concentrazione
esprime il grado di potere economico presente nel sistema, al di la delle
convenzionali suddivisioni in classi di attività che interessano il contesto
strutturale” ed infine come concentrazione territoriale che “esprime
il grado di diffusione delle diverse attività sul territorio, quale risulta
dall’interrelazione dei fattori che caratterizzano l’area dal punto di vista
geofisico, infrastrutturale e più in generale economico".
[8] Il Coefficiente di concentrazione territoriale, simile nella
costruzione all’indice di localizzazione o specializzazione territoriale serve
per confrontare la distribuzione relativa degli addetti alle unità locali in un
determinato ramo o classe di attività economica con la distribuzione relativa
del totale degli addetti alle unità locali in una determinata regione.
[9] Commercio Internazionale, n.3/97, pag.15.
[10] "La grande crisi annunciata dal crollo di Wall Street del 1929
chiuse la seconda ondata di fusioni”, P. Dicken, P. Lloyd, Nuove prospettive
su spazio e localizzazione, FrancoAngeli, Milano, 1993. Pag. 110.