Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (Prima parte)
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Sabino Venezia
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5. Gli anni ’50
5.1 Il processo di normalizzazione
Proprio lo Stato, dal V governo De Gasperi in poi, (1949 -
1951) fallirà i tentativi diretti di ripristinare supremazia sul mondo
sindacale e si proporrà in relazione dialettica tra il movimento sindacale
e quello padronale; tale rinnovato ruolo non lo escluderà dalle polemiche
di quanti (nel sindacato) ne osservano uno scarso interesse al ruolo di mediazione
delle controversie del lavoro e quanti altri (industriali) lo scoprono troppo
attento ad intervenire direttamente in alcuni nodi strategici dell’economia,
dal piano Sinigaglia della siderurgia, al potenziamento dell’AGIP, alla
creazione dell’ENI, scoprendone anche il ruolo di correttivo dei limiti
del capitalismo privato.
Il processo di normalizzazione precedentemente accennato,
vedrà, negli anni ’50, il sindacato svilupparsi in coerenza con
lo sviluppo della storia costituzionale del Paese fino a quando le classi dirigenti
non si accorgeranno che l’alta influenza socialcomunista, presente nelle
componenti sindacali, avrebbe potuto rappresentare un serio problema nel caso
si fosse realizzata la Costituzione. Il sistema politico, infatti che si determinò,
non prevedeva solo l’esclusione dei partiti di sinistra dal Governo ma
tentò a tratti di porre in discussione anche la loro legittimità cosituzionale.
Nei primi anni ’50 le lotte sindacali si inasprirono
contro un fronte industriale che percorse rapidamente e compatto la strada
della delegittimazione del sindacato.
“Le direzioni aziendali non accettarono più di
contrattare con le Commissioni Interne gli esborsi salariali extracontrattuali
e gli interventi assistenziali, ma iniziarono ad utilizzarli unilateralmente
ai fini delle politiche di attrazione aziendalistica,... i membri di CI aderenti
alla FIOM, nelle loro rivendicazioni aziendali, non solo non potevano fare
appello alle norme contrattuali, ma non riceveranno neppure il pieno appoggio
degli organismi dirigenti della CGIL...preoocuapta che la contrattazione
aziendale creasse sacche di privilegio...” [1].
5.2 Le ricadute economiche
È questa la fase, interessante ma poco approfondita,
che precede il “Boom del miracolo economico” caratterizzata da
una bassa valenza sindacale (che sarà anche la causa della dura repressione
in fabbrica) e da una alta ingerenza dei partiti nell’attività sindacale.
La caratterizzazione della CGIL è prevalentemente rivolta alla riscoperta
del lavoro industriale ed al continuo sviluppo del Piano del Lavoro [2], mentre
la CISL, che vede nello sviluppo del capitalismo l’ipotesi principale
di crescita del sindacato, si esercita prevalentemente sulla pratica dell’aziendalismo
e del contrattualismo, attuando un “collaborazionismo aziendalistico” che
ne decreterà l’espulsione dei propri membri dalle Commissioni
Interne alla FIAT [3].
Per gli industriali, la mossa che fece il 1° novembre
del ’50 Ugo La Malfa, ministro del commercio con l’estero, con
la liberalizzazione degli scambi commerciali con altri paesi europei, la riduzione
del 10% dei dazi doganali e l’abolizione dei contingenti, doveva portare
l’Italia al disastro economico. In effetti in un primo momento ci fu
un peggioramento nelle esportazioni su alcuni prodotti leader come i tessili
(ecco spiegate le ragioni dell’ostracismo di Pella, un ministro eletto
nel Biellese, dove c’era il 90% della produzione tessile nazionale),
qualche contraccolpo lo ebbero gli alimentari e gli agricoli del Sud. Poi le
esportazioni ripresero (e diventarono inarrestabili fino al 1963) quando le
nostre industrie scoprirono i grandi mercati europei e la grande domanda di
prodotti opulenti che l’Italia in una crisi congiunturale non avrebbe
mai potuto assorbire né quindi incentivarne la produzione. La carta
vincente di queste esportazioni fu il basso costo della manodopera italiana
inferiore al 40% di quella europea. I Paesi europei ne approfittarono, occupando
le proprie maestranze per un modello di sviluppo molto diverso. Riversarono,
infatti le loro risorse nelle strutture dei grandi complessi alimentari (che
diventeranno giganteschi), nell’agricoltura meccanizzata creando immensi
territori con razionali allevamenti di bestiame e relativi sottoprodotti (vedi
Olanda), nei macchinari del confezionamento (vedi Germania), e con un grande
incremento dato al comparto della produzione di mezzi industriale (camion,
furgoni, trattori) crearono (vedi Germania e Francia) le grandi strutture della
distribuzione, quindi i grandi complessi commerciali, le catene alimentari
e tutto l’intero indotto dei prodotti di consumo.
L’Italia, con queste reciproche scelte riuscirà ad
esportare il 35% della sua produzione, il 40% sarà quello delle auto,
moto, scooter, mobili, tessuti di pregio. Vi troverà questa vocazione
scellerata, “dimenticandosi” del tutto al suo interno di incentivare
quei settori in cui hanno prestato sicuramente più attenzione oltre
gli USA anche molti paesi europei.
Erano le premesse del Boom, del “Miracolo Economico” dell’Italia,
che inizierà nel ’55, decollerà nel ’58, e rimarrà tale
fino al ’63. Con molti errori. Con la spinta dalle esportazioni, la grande
industria (la più favorita dopo la guerra) fagocitò le risorse
delle piccole imprese, e si verificò che i beni opulenti che produceva
ebbero un tale abbattimento di costi, da far desiderare questi beni a tutti
gli italiani che credettero di poter imitare con piccole auto il modello americano.
Con 12 mensilità un operaio acquista un auto, ma dovrà lavorare
un giorno intero, 10 ore per acquistare un chilo di carne, circa tre ore di
lavoro per portarsi a casa un chilo di zucchero, un’ ora e mezza per
un chilo di pane, spendere il 61% del suo stipendio per mangiare. E con servizi,
sociali, sanità, istruzione, di bassa qualità se non assenti
del tutto. Chi va in pensione riceve 50.000 lire all’anno, quando uno
stipendio di un operaio è di circa 30/35.000 mensili.
Inoltre era cresciuto lo squilibrio tra le regioni del Nord
e quelle Meridionali; le ondate di migrazione verso il triangolo industriale
avevano creato grossi problemi di urbanizzazione; l’accennata crescita
dell’esportazione aveva compresso il mercato interno e i salari (nonostante
la crescita della produzione e dei profitti).
Nel corso degli anni ’50 il processo di sviluppo è continuato
solo al Nord del Paese; ed ha avuto un importante momento nella nascita dell’ENI
(Ente Nazionale Idrocarburi-1953) e la conseguente sostituzione del petrolio
al carbone come combustibile industriale.
Le tre città maggiormente interessate a questo fenomeno
sono state Torino, Milano e Genova.
Lo sviluppo economico e occupazionale del Centro del Paese è rimasto
in questi anni molto legato al settore terziario, al settore dei servizi e
della pubblica amministrazione. In contrapposizione allo sviluppo che ha interessato
il Nord Italia, invece, al Sud si è avuto il persistere di una struttura
economica molto arretrata e legata all’agricoltura.
Una delle cause principali del cambiamento di vita degli italiani è sicuramente
la crescita del settore industriale, che si sviluppa in maniera consistente
sia in numero che in qualità.
Tale sviluppo permette, quindi, al sistema Italia di acquisire
e sviluppare prodotti e beni per la gran parte dei cittadini, al contrario
di quanto accadeva prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, dove
questi beni erano a esclusivo appannaggio delle classi più abbienti.
In questo periodo si diffondono, in quasi tutti gli strati
sociali, elettrodomestici (la produzione di lavatrici e frigoriferi quadruplica,
quella dei televisori si moltiplica per otto), automobili etc...; questo a
conferma della crescita della domanda di beni e servizi, non solo del mercato
estero, ma anche e soprattutto di quello interno.
Bisogna segnalare, però, che questo trend non è uniforme
in tutta la penisola, ma si verifica quasi esclusivamente nell’Italia
settentrionale; i grandi poli industriali crescono e si sviluppano in prevalenza
e in prossimità delle grandi città del Nord (Il triangolo industriale:
Milano, Torino, Genova).
Le conseguenze di questo fenomeno sono che negli anni cinquanta, 1.9 milioni
di lavoratori danno vita a un massiccio trasferimento nei grandi capoluoghi
del nord. Questo porta, in primo luogo, a uno stravolgimento degli assetti
urbanistici, a esempio nella sola città di Torino, nell’arco di
pochi anni, si ha una crescita di circa 300.000 unità [4].
I flussi migratori, oltre che caratterizzare le città del
nord, riprendono anche verso l’estero; c’è da segnalare
però che, se durante i primi anni del novecento, gli spostamenti avvenivano
in prevalenza verso l’Australia e l’America, dopo la seconda guerra
mondiale tali movimenti sono concentrati verso il nord Europa (Germania, Belgio,
Svizzera,...).
Per di più, l’industrializzazione del triangolo
Torino - Milano - Genova avviene a discapito dei “già pochi” distretti
industriali del Meridione, peggiorando ulteriormente la precaria situazione
lavorativa nel Sud Italia. A conferma di ciò, tra il 1951 e il 1961,
l’occupazione manifatturiera sale solo del 11,4% al Sud contro il 28,6%
della media nazionale. Nello stesso periodo il settore tessile crolla dal 19,5%
al 6,4% al Sud, mentre decolla al 65,8% nel solo Nord-Ovest.
La prima conseguenza dello sviluppo industriale nel Nord è l’implosione
del sistema agricolo meridionale, che fino a quegli anni era stato il settore
trainante dell’economia del Sud.
“l’esigenza di sfruttare al massimo gli impianti
induceva alla necessità di massimizzare lo sfruttamento della forza
lavoro. La catena di montaggio divenne il simbolo di questo modo di produrre
fortemente massificatonel quale l’abilità dell’operaio professionale
veniva sostituita, con maggiori profitti, dall’uso intensivo di una forza
lavoro abbondante, poco professionalizzata, poco retribuita. ...Le tendenze
già presenti nell’organizzazione tayloristica del lavoro, e nel metodo
Bedeaux che ne introduceva in Italia i principi (nei primi anni 30) raggiungevano
così la loro massima e più coerente applicazione.” [i]
Per le masse lavoratrici il miraggio di un nuovo impiego,
meglio remunerato e considerato di maggior prestigio sociale, svilisce la figura
del contadino e del bracciante a vantaggio dell’operaio di fabbrica.
In quegli anni, infatti, gli impiegati in agricoltura diminuiscono di 1.5 milioni
di unità, per contro gli occupati nell’industria e nei servizi
aumentano di circa tre milioni.
Una concausa ulteriore del lento e progressivo abbandono da
parte delle masse lavoratrici del settore agricolo è senza dubbio la
sua indiscussa arretratezza. Anche se la riforma agraria, soprattutto al Sud,
aveva prodotto dei risultati (marginali), di fatto le condizioni dei contadini
erano particolarmente difficili nel sud Italia e la disoccupazione era arrivata
a punte del 50% nelle Puglie e del 33-37% in Lucania. Nel Mezzogiorno il 50%
degli agricoltori versava in stato di povertà, con un sistema agricolo
ai limiti del collasso. Per questo motivo, come si è detto, le masse
rurali del Sud trovano una allettante prospettiva nella, allora nascente, industria
del Nord Italia.
C’è da dire, poi, che al calo dell’occupazione
agricola si raccorda anche la diminuzione delle donne nel mondo del lavoro.
Infatti, mentre nei campi la famiglia contadina è occupata interamente
- anche se con bassa produttività - nelle città industriali del
Nord solo gli uomini trovano lavoro.
Se la trasformazione da contadino a operaio diventa in questi
anni un’evoluzione naturale del lavoratore italiano, più complessa
risulta la formazione di una classe strettamente impiegatizia. Infatti, il
settore terziario inizia a svilupparsi con un tasso di crescita inferiore rispetto
all’industria. Ciò è dovuto principalmente a un basso livello
d’istruzione della classe lavoratrice, ma al contempo anche da una scarsa
possibilità di inserimento in settori allora considerati pionieristici.
Quindi la ancora scarsa occupazione nel settore terziario,
l’abbandono di masse di lavoratori del settore agricolo a vantaggio di
quello industriale creano di fatto un “imbuto” nel settore occupazionale,
che vede come ovvia prospettiva lavorativa la fabbrica del Nord.
Anche se bisogna dire che, i complessi industriali del Nord,
non riescono ad assorbire completamente l’offerta occupazionale; a conseguenza
di ciò, si riscontra che in alcune zone del Meridione i tassi di disoccupazione
sono prossimi al 30%.
Il Governo tenta di ovviare a questo nuovo e nascente problema
istituendo la Cassa del Mezzogiorno [5] e proponendo una nuova riforma in campo agrario (1950); queste misure,
sono volte ad arginare il fenomeno migratorio, la disoccupazione e a rilanciare
l’economia nel sud del paese.
Purtroppo questi interventi, per una serie di motivi che non
andremo a esplicitare, si riveleranno insufficienti e contribuiranno, alla
fine degli anni ’60, ad aggravare lo scontro sociale.
Sono tutte cambiali in bianco che firmano in questi anni le
industrie e il Governo e le direzioni sindacali (che sanno) e gli operai (che
spesso non sanno) ma che in qualche modo avallano.
Poste tutte all’incasso nel 1963, si rischiò di
portare tutta l’economia italiana al collasso.
Infatti, se gli anni del miracolo economico sono stati caratterizzati
da un alto tasso di accumulazione, da stabilità monetaria e da un equilibrio
della bilancia dei pagamenti, il decennio successivo sarà segnato da
conflitti molto aspri che culmineranno nei grandi scontri sindacali del 1963
e della fine degli anni sessanta.
Preme sottolineare che il periodo 1945-1963 è realmente
da considerarsi un momento di crescita economica e sociale per il paese; l’Italia
degli anni ’50 è, sostanzialmente, il paese dei sogni da realizzare,
obiettivo questo non utopistico perché mosso dal buon andamento del
reddito che in questo periodo aumenta di oltre il 60%. Dopo 5 anni di guerra
la gente è realmente convinta di poter lavorare, guadagnare, spendere
e, garantire alle generazioni future, un lungo periodo di prosperità.
5.3 Delegittimare la sinistra
Va inoltre considerato che la fase immediatamente precedente
il “miracolo italiano” (e ad onor del vero, in forma più lieve
anche durante) è caratterizzata da un costante tentativo di delegittimazione
della sinistra. Scriverà Pietro Calamandrei: “La pratica del
Governo, nelle direttive ai prefetti e ai questori si è andata sempre
di piu’ orientando, spesso in contrasto con la giurisprudenza giudiziaria,
nel senso di fare un trattamento diverso, in tutti i campi in cui la pubblica
amministrazione ha un potere discrezionale, ai cittadini appartenenti ai partiti
di maggioranza e ai cittadini appartenenti ai partiti di opposizione. Le libertà civili
e politiche non hanno piu’ uno stesso significato per tutti i cittadini:
la libertà di associazione, di riunione, di circolazione, di stampa
ha un contenuto diverso secondo chi lo invoca appartenga al partito degli eletti
o a quello dei reprobi: la discriminazione contro i comunisti si è pian
piano allargata contro tutti i “malpensanti”, contro tutti i “sovversivi”.
La libertà di culto non esiste per i protestanti nella stessa misura
in cui esiste per i cattolici. Il diritto al lavoro è diversamente garantito
o messo in pericolo secondo la colorazione del sindacato al quale il lavoratore
si iscrive”.

E aggiungerà G.G. Migone “ La Fiat, il cui
esempio veniva poi seguito dalla maggior parte delle aziende, estrometteva
i suoi dipendenti politicamente piu’ pericolosi, senza alle volte neppure
curarsi di trovare ai suoi provvedimenti altro pretesto che non l’appartenenza
al partito comunista; adottava i piu’ gravi provvedimenti disciplinari
contro promotori di manifestazioni politiche e i diffusori di stampa politica
nell’interno degli stabilimenti, reprimeva ogni partecipazione agli
scioperi sindacali; ripristinava la giusta e necessaria disciplina sul lavoro,
disponendo la ripresa cinematografica delle manifestazioni nell’interno
degli stabilimenti per colpire esemplarmente i responsabili di atti di violenza;
eliminava gradatamente i consigli di gestione e limitava alle sue istituzionali
attività sindacali i compiti delle Commissioni interne; instaurava
il principio, ora da tutti seguito, di non trattare mai con le maestranze
in sciopero; decurtava i premi di produzione in relazione agli scioperi effettuati,
premiando invece quanti si rifiutavano di prestarsi alla attività scioperaiola
degli agitatori di Estrema Sinistra”. (ora in www.cronologia.it)
In quel periodo “Molti imprenditori si arricchirono
e ciò rese ancora più inaccettabili le condizioni di sfruttamento
nelle quali i lavoratori continuavano a vivere.

In sostanza gli utili delle imprese, sempre maggiori, finivano
tutti nei portafogli dei ricchi, soprattutto del nord, senza contribuire al
miglioramento economico dei ceti più poveri, soprattutto del sud, che
cominciarono ad emigrare in massa verso il settentrione più florido.
[1] S.Musso, Storia
del lavoro in Italia dall’Unità ad oggi, Marsilio edit.,
Venezia, febbraio 2002, pag.211.
[2] La CGIL
di Di Vittorio assume, con il Piano del Lavoro l’iniziativa politica
verso le forze politiche di Governo e di opposizione e verso le forze padronali
pur continuando la lotta dei lavoratori, questo, di fatto, la costrinse ad
una azione moderatrice sul piano salariale con la speranza di determinare un
abbassamento dei livelli repressivi messi in atto all’epoca.
[3] ”24-26 febbraio, Ladispoli (Roma), il Consiglio Generale
CISL assume la linea delle rivendicazioni salariali entro i limiti di crescita
della produttività. marzo, nel rinnovo della C.I. Fiat i risultati attribuiscono
103 seggi alla Cgil (33173 voti pari al 65%), 49 alla CISL (11864 voti pari
al 23, 3%), 15 alla UIL (5890 voti pari al 10, 5%). La Fim-CISL guadagna tre
seggi rispetto al precedente risultato del 1952.” (http://online.cisl.it/arc.storico/%237641793.0/Cinquant’anni%20della%20Fim-Cis.doc).
[4] C’è da
dire che il baricentro abitativo si sposta dal centro della città ai
ridossi degli stabilimenti industriali; creando di fatto dei nuovi quartieri
dormitorio.
Purtroppo la carenza di alloggi non sempre fu affrontata in
maniera adeguata; il piano Ina - casa del 1949 diede solo un piccolo contributo
(F. Galimberti e L. Paolazzi, Il volo del calabrone, 1998, Le Monnier).
[i] “IL
SESSANTOTTO - La stagione dei movimenti (1960-1979)” a cura della
redazione di “materiali per una nuova sinistra” - Edizioni Associate
- Roma, Maggio 1988 pag.104.
[5] Con la Cassa del Mezzogiorno si tenta
di dare una svolta decisiva all’industrializzazione del Sud; c’è da
dire però che questo fenomeno interessa soltanto un numero ristretto
di aree costiere, mentre nelle zone interne ci si aspetta che la migrazione
spontanea (verso le zone costiere) elimini la necessità di un intervento
diretto.