In sostanza la cifra dei 19 milioni di disoccupati ufficiali
si allontana molto dalla realtà. Considerato che la Germania, la Francia e l’Italia
insieme registrano oltre 12 milioni di disoccupati “invisibili” appare chiaro
come si arrivi per la Comunità Europea ad un numero di gran lunga superiore
ai 32 milioni di persone in cerca di occupazione.
4. La disoccupazione
Innanzitutto occorre chiarire che per disoccupati si intendono
tutti coloro che sono in cerca di occupazione (ossia sia chi è in cerca di una
prima occupazione sia coloro che hanno perso il precedente posto di lavoro);
secondo la classificazione Eurostat alle quali si attiene l’ISTAT le persone
in cerca di occupazione sono coloro che oltre a non aver svolto ore di lavoro
nella settimana di riferimento dell’indagine sono disponibili immediatamente
a lavorare e hanno condotto una ricerca di lavoro nei 30 giorni precedenti l’intervista;
quindi se la persona interpellata ha svolto un qualsiasi tipo di attività lavorativa
e in qualsiasi modalità, anche precaria, è comunque classificata come occupata.
Il tasso di disoccupazione (calcolato dividendo il numero dei
disoccupati per la somma dei disoccupati più gli occupati per 100) complessivo
destagionalizzato complessivo nell’Europa dei 15 è stato valutato nel gennaio
1998 intorno al 10,5%; si vedano i Graf.13 e Graf.14 per un
confronto tra i maggiori paesi europei.


Ma già dagli anni ’70 con l’accentuarsi dei processi di mondializzazione
dell’economia e la dura concorrenza tra le imprese (aumento della produttività
riducendo i costi) ha portato i salari ed il sistema sociale nella sua totalità
ad essere sempre più soggetti alle regole ferree del puro mercato e del profitto.
Il fenomeno della disoccupazione, accentuatosi in Europa e nel mondo dopo lo
shock petrolifero dei primi anni ‘70, è cresciuto da allora ad un ritmo
rapidissimo nei periodi di recessione e non è diminuito durante le fasi di espansione
economica (in Europa si è arrivati ad un tasso di disoccupazione sei volte superiore
a quella registrata negli anni ‘60, in Italia 2,5 volte più elevata rispetto
a quegli anni).
Va comunque rilevato che la disoccupazione nei paesi dell’Unione
Europea è attualmente uno dei problemi di maggiore drammaticità interessando
circa 19 milioni di disoccupati ufficiali; e circa 32 milioni se si considerano
anche gli “invisibili” alle statistiche ufficiali. Si noti che nell’U.E. negli
ultimi 25 anni l’occupazione totale è aumentata di circa il 9% a fronte di un
aumento del volume di ricchezza prodotta di oltre il 90%.
Oltre ad una sempre maggiore precarietà del lavoro, alla diminuzione
dei salari reali si è aggiunto l’attacco sempre più aspro al Welfare, al servizio
sanitario , alla previdenza sociale, alla scuola. Pur in presenza di un elevato
incremento di produttività non si è realizzata di pari passo una diminuzione
del tasso di disoccupazione, come si può osservare dal Graf.15 per i
più importanti paesi europei.
L’andamento del tasso di disoccupazione si può schematizzare
in tre fasi: la prima dagli anni 1983-1986 nella quale si registra una crescita
generale del tasso di disoccupazione; la seconda che comprende gli anni che
vanno dal 1986 al 1990 nei quali si è avuta una leggera diminuzione della disoccupazione;
ed infine la terza fase che va dal 1990 ad oggi nella quale si è avuta una nuova
crescita del tasso di disoccupazione.
Oggi la disoccupazione è espressione dell’incapacità della
nuova fase di sviluppo capitalistico di perseguire il pieno impiego, è espressione
di una scelta politica e sociale di mantenere la disoccupazione per poter determinante
attraverso questa il controllo delle dinamiche salariali e della forza lavoro.
Il fatto che salario e produttività non siano più collegati tra loro implica
che la distribuzione del reddito a livello nazionale e di conseguenza la domanda
nazionale di consumo non abbiano più rilevanza nel risolvere il processo di
accumulazione.
In tale situazione non esiste una modernizzazione del consumo.
Questo modo di produzione capitalistico produce per una popolazione ridotta,
per consumi ridotti e di un certo tipo, mentre stimola la competizione violenta
e assoluta per conquistare spazi di mercato in una condizione in cui queste
nicchie non sono più segnati dall’ascesa e dall’attesa di una crescita ininterrotta
della produzione e dei consumi.
La disoccupazione non è frutto di arretratezza, di una scelta
nello sviluppo di un nuovo processo capitalistico.
Se si analizzano i dati riguardanti i giovani si assiste ad
un fenomeno analogo a quello del tasso di disoccupazione totale; va rilevato
però che i giovani risultano essere molto più penalizzati rispetto agli adulti
come si evince dal Graf.16.
In Francia , in Lussemburgo e in Belgio il tasso di disoccupazione
giovanile (sotto i 25 anni) è il doppio di quello degli adulti; in Olanda, In
Danimarca e in Gran Bretagna i valori sono più elevati di una volta e mezzo,
mentre in Italia i disoccupati sotto i 25 anni sono 2,5 volte più elevati degli
adulti; unica eccezione la Germania nella quale i tassi di disoccupazione totale
e giovanile sono meno distanti.
E’ anche estremamente interessante ricordare che i tassi di
disoccupazione variano molto all’interno dei paesi dell’Unione Europea (si passa
dal 3% in Lussemburgo al 22% in Spagna nell’anno 1995). Se si analizzano i dati
disaggregati per realtà regionali la situazione è ancora più allarmante: si
passa dal 4% nelle regioni centrali del Portogallo a percentuali del 32% nelle
regioni del sud della Spagna. Le regioni a bassa disoccupazione sono rimaste
stabili negli ultimi dieci anni ma restano concentrate ad un numero ristretto
di aree geografiche: il sud dell’Olanda, il sud della Germania, il nord dell’Italia
le regioni del nord-est e del nord-ovest della Danimarca, il nord e il centro
del Portogallo.
Paesi come la Finlandia e la Francia (in particolare Parigi
e dintorni) che erano sempre state a basso tasso di disoccupazione hanno avuto
un aumento di disoccupati nei primi anni ‘90.
Il Graf.17 evidenzia che per l’Europa dei 15 il tasso
di disoccupazione complessivo maschile destagionalizzato è intorno al 9% nel
gennaio 1998; la Spagna presenta un tasso molto superiore alla media ( 15,3%)
mentre la Danimarca e il Lussemburgo si attestano su valori sensibilmente inferiori
(rispettivamente 4,5 e 2,4%). La Francia e l’Italia presentano valori superiori
alla media (rispettivamente 10,7% e 9,2% nell’ottobre 1997).

Il Graf.18 mostra che per il complesso dei paesi dell’Europa
dei 15 il tasso di disoccupazione femminile destagionalizzato è del 12,4% (genn.1998);
la Spagna anche in questo caso presenta valori molto alti rispetto alla media
(27,8%) mentre il Lussemburgo registra valori molto inferiori (5,1%). La Francia
e l’Italia mostrano valori superiori alla media ( rispettivamente 14,2% e 16,9%
nel genn.1998), confermandosi come paesi con le più forti contraddizioni in
termini di ricadute economico-sociali relativamente ai processi di ristrutturazione
del capitale che stanno attraversando l’intera Europa.
Analizzando i Graff.19, 20 e 21 è evidente come
per l’Europa dei 15 il tasso di disoccupazione giovanile destagionalizzato complessivo
sia molto alto (del 20,3%) nel gennaio 1998 ossia quasi il doppio del tasso
di disoccupazione totale destagionalizzato (che è del 10,4%). Le donne registrano
una differenza con il tasso totale complessivo pari al 9,9%, mentre gli uomini
si attestano al 9,6%.
Se si confronta poi il tasso complessivo degli uomini e quello
delle donne al di sotto dei 25 anni si nota che il tasso di disoccupazione maschile
è significativamente inferiore a quello complessivo, confermando che per le
donne la situazione occupazionale nell’intera Europa dei 15 assume ancora percentuali
drammatiche.
La Tab.4 analizza il tasso di disoccupazione di lunga
durata (ossia di disoccupati per oltre 12 mesi); dai dati emerge chiaramente
che l’Italia si attesta sempre su valori più alti rispetto agli altri
paesi (nel 1995 il valore è del 63,6%), mentre i paesi con valori più bassi
sono la Danimarca e il Lussemburgo (con valori nel 1995 rispettivamente del
28,1% e del 23,3%). Il Belgio invece si avvicina a valori simili a quelli registrati
nel nostro Paese(62,4% nel 1995).
Se si analizza da vicino il nostro Paese si evidenziano
dati di alta drammaticità che minano alle basi la stessa convivenza sociale
e sopravvivenza di larghi strati della popolazione. In Italia siamo di
fronte ad un incremento della produttività fra i più alti degli ultimi anni,
ma la disoccupazione non è stata sostanzialmente toccata e nel mezzogiorno raggiunge
quote devastanti.
Per risolvere il problema disoccupazione non serve, dunque,
aumentare la produttività ed il profitto nazionale, anzi è evidente che tale
processo ha portato la società moderna alla crisi occupazionale. Ad esempio
alla fine del 1997 a fronte di 20.126.000 occupati e 2.486.000 disoccupati i
giovani occupati erano 4.743.000 e i disoccupati 1.743.000; in sostanza quindi
i giovani costituivano il 24% degli occupati ed il 61% dei disoccupati.
Se si disaggregano ulteriormente i dati emerge chiaramente
che esiste un forte divario territoriale fra i tassi di disoccupazione, in quanto
al Sud c’è una percentuale doppia rispetto al Centro e al Nord d’Italia (a fronte
di una percentuale inferiore al 20% al Nord per giovani in età compresa tra
i 15 e i 24 anni, al Sud la percentuale si aggira intorno al 50% tra i giovani
in età compresa tra i 15 e i 24 anni, ed arriva la 30% nella fascia di età 25-29
anni). Tendenza che si conferma in tutte le ripartizioni con il crescere dell’età,
dal momento che mentre al Nord i tassi di disoccupazione si abbassano dopo i
20 anni (si arriva a circa il 10% nella fascia di età compresa tra i 20 e i
29 anni) e ciò non accade al Centro e soprattutto al Sud tra i giovani in età
compresa tra i 20 e i 30 anni (i tassi rimangono introno al 40% fino ai 29 anni
e superano il 60% tra le giovani donne).
Ed ancora: mentre al Nord circa la metà dei giovani ha un lavoro
ed un terzo studia nel Mezzogiorno invece solo il 20% è occupato.
Si deve osservare che nelle regioni del Nord-Est d’Italia si studia meno che
al sud in quanto la struttura produttiva basata sulla piccola e media impresa
garantisce una possibilità maggiore di impiego in lavori manuali; la situazione
è un po’ diversa nel Nord-Ovest in quanto essendo queste regioni caratterizzate
dalla presenza di attività terziarie è richiesto per lavorare un livello di
istruzione medio. L’area comunque nella quale si studia di più è il Centro Italia
che ha un livello di disoccupazione intermedio; in questa regione, caratterizzata
da un’alta presenza di lavoro impiegatizio e burocratico, è richiesto un livello
di istruzione di più alto livello. Se si analizza il tasso di occupazione per
titolo di studio e classe di età emerge chiaramente sempre nel 1997 che l’Italia
risulta essere un paese con livelli di istruzione bassi rispetto agli
altri paesi europei; la percentuale degli occupati in possesso di laurea è di
circa l’11% e i lavoratori con un diploma sono circa il 29%; quasi il 38% degli
occupati ha la licenza media ed il 15% ha una licenza elementare o nessun titolo
di studio. Vi è un dato che merita di essere evidenziato: la maggiore istruzione
delle donne rispetto agli uomini; a fronte di un 10% degli occupati laureati
vi è quasi il 15% di donne laureate sempre della stessa fascia di età. Ed ancora
il 29% dei maschi occupati è in possesso di un diploma di scuola media superiore
contro un 37% di donne.
5. L’orario di lavoro
La disoccupazione è accompagnata da uno sfruttamento crescente
dei salariati che restano in attività. L’intensificazione del lavoro porta allo
stress nel lavoro e fuori dal lavoro. Il padronato fa del tempo di lavoro
un elemento essenziale del supersfruttamento dei salari e della ridefinizione
della società a partire dall’impresa.
È un processo che ha avuto inizio con l’esplosione della precarietà,
della flessibilità, della deregolamentazione, del supersfruttamento, sotto forme
senza precedenti per i salariati in attività.
Anche la riduzione dell’orario di lavoro può essere considerato
uno dei modi per cercare di risolvere il problema dell’occupazione e di redistribuzione
degli incrementi di produttività.
Un altro obiettivo centrale della ristrutturazione capitalistica
riguarda l’orario di lavoro, ed in particolare il problema della riduzione dell’orario
di lavoro, che potrebbe essere, nelle condizioni esistenti un contributo importante
per salvaguardare e creare posti di lavoro, puchè regolata da una politica contrattuale
ad alto livello. Ma per far ciò sarebbe necessaria una politica economica alternativa,
che sappia affrontare realmente i problemi occupazionali. Anche la domanda pubblica
deve essere usata per questi obiettivi: deve diventare uno strumento per orientare
gli investimenti verso la creazione di occupazione e il miglioramento della
qualità della vita. Ci vorrebbe una politica che non solo rispetti le esigenze
ecologiche, ma che metta al suo centro la riconversione ecologica e favorisca
la produzione di prodotti socialmente utili. Ciò che avviene invece è la flessibilizzazione
dell’orario di lavoro in funzione dei trend di domanda e dei processi di ristrutturazione
d’impresa e della struttura capitalistica.
In tal senso un fattore decisivo nella determinazione dell’orario
di lavoro diventa sempre più l’orario straordinario: è chiaro infatti che una
riduzione dell’orario di lavoro può generare la nascita di nuova occupazione
solo se non vi è un incremento degli straordinari, anzi se il lavoro straordinario
viene fortemente penalizzato.
Nei paesi occidentali si sono avute tre fasi fondamentali.
La prima legge che risale al 1833 (Factory Act) stabiliva l’orario massimo di
otto ore giornaliere per lavoratori al di sotto dei 13 anni e 12 ore per quelli
tra i 13 e i 18 anni; legge che ha poi fissato nel 1847 a dieci le ore lavorative
per tutti. Vi è poi la seconda fase che, partendo dagli Stati Uniti si è poi
estesa alla fine dell’800 a tutti i paesi industrializzati, durante la quale
l’orario settimanale è diminuito da 66 a 54 ore per continuare la sua diminuzione
dal 1930 al 1938. Infine vi è la terza fase, avvenuta nel secondo dopoguerra
nella quale l’orario di lavoro si è attestato su 40 ore settimanali da ripartire
in cinque giorni lavorativi.
Il Graf.22 mostra che le ore medie settimanali lavorate
nei paesi della Comunità Europea evidenziano una tendenza alla diminuzione (con
l’eccezione del Regno Unito che nel periodo 1987-1991 ha registrato un lieve
aumento). L’Italia e il Lussemburgo evidenziano una tendenza verso la stabilità
dell’orario settimanale, mentre la Francia e il Belgio mostrano valori che segnalano
una leggera diminuzione dell’orario. Danimarca, Olanda e Germania mostrano diminuzioni
dell’orario di lavoro molto più evidenti rispetto agli altri paesi.